Green Is The Colour, 5/06/07 Harry Potter

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Vulcania
view post Posted on 28/6/2007, 20:04




PERSONAGGI: Ron Weasley/Hermione Granger, Harry Potter, Nuovo personaggio
RATING: PG13
GENERE: Romantico, Triste, Song- fic
AVVERTIMENTI: Linguaggio colorito, one- shot
RIASSUNTO: Quando si tratterà di salvare la nave che sta rapidamente affondando, chi prenderà l’unica decisione sensata? Ron, con il suo egoismo e la sua sconsideratezza, o… Hermione, con la sua maschera d’angoscia ed il suo confine superato ormai da tempo? Potrà rinsavire la nave, o sarà meglio spezzare le sue vele e lasciarla affondare nell’oblio?

Green Is The Colour

No hope, no life, just pain and fear
No food, no love, no seed, childhood’s end.

Childhood’s end, Iron Maiden

“Tesoro, non mettere le mani lì, ti bruci!” Ingrid si volse verso di me, sorpresa. Mi affrettai ad allontanarla dalla fiamma che ardeva dal fornello basso in un gorgoglio sommesso, rinfrancando l’ambiente con un flebile tepore. L’effluvio del latte che ribolliva nel pentolino si distribuiva con candida mollezza a destra ed a sinistra, imparziale, stordendomi piacevolmente. Ecco, quella era una delle poche leggerezze che avevano ancora qualche potere su di me, potevano ancora farmi sentire il sapore della vita.
E così la mia bimba. Era una pallina, Ingrid. Una dolce, tenera, soffice pallina. Mi guardava con quegli occhioni a mandorla, senza comprendere a fondo il mio tono di rimprovero, la mia ansia, e come per sostituire quella mancanza, mi sorrideva amorevolmente. Ed io non potevo fare a meno di sorridere a mia volta, con difficoltà, quasi mi fossi dimenticata come si faceva.
Spensi il fornello e versai il latte fumante nel biberon di Ingrid, mentre mettevo sul fuoco la macchinetta del caffé. Per mille ippogrifi, quello sì che era il colmo. Ron Weasley, mio marito, col suo nuovo lavoro aveva così tanti soldi e ricchezze che alla Gringott aveva dovuto prendere non una, ma due casseforti, e aveva così poco tempo e cura per la sua famiglia che io ed Ingrid eravamo costrette a vivere con un solo fornello che quasi toccava terra. Per non parlare del divano che dimorava melanconico di tempi sicuramente migliori su una parete del salotto, inutilizzabile tanto le molle erano stanche dei pesi loro inflitti ed il cigolio provocato ogni qualvolta insopportabile. O del tavolo spiluccato qua e là dalle tarme, che io prontamente cercavo di celare in tutti i modi possibili agli occhi altrui quando ricevevo visite. O, se si voleva essere proprio puntigliosi, delle pareti quasi del tutto sgretolate e piene di macchioline fumose.
E la mia anima, insieme a tutto il mio buonsenso, si stava inevitabilmente sgretolando, come quelle pareti.
Era successo tutto irrimediabilmente in fretta. Sette anni di scuola assieme, poi nemmeno due anni dopo i M.A.G.O. ed eravamo sposati. Allora mi sembrava la scelta più giusta e la sola che avrei potuto fare senza pentirmene. Dopo il matrimonio, avevo compreso che in realtà era l’unica cosa di cui mi ero pentita realmente.
Ventitrè anni e già mi sentivo vecchia. Vecchia nell’animo; potevo quasi percepire le rughe che solcavano i miei pensieri orribili, le piaghe dell’infelicità che affondavano sempre più graffiando la mia essenza, adagio la distruggevano. Un processo lento, non troppo però perché io non me ne potessi accorgere. Era come se per tutto quel tempo avessi offerto a Ron un calice in modo che lo riempisse, e lui a tradimento vi avesse versato del veleno. Ecco, avevo il sangue avvelenato. Solo così si poteva spiegare quel desiderio occulto che mi offuscava l’animo e mi portava persino a ricercare l’oblio della morte.
Ingrid mi ridestò per un poco dalle mie riflessioni, rovesciando il contenuto di una scatola di costruzioni per il pavimento rugoso. Mi faceva sentire così viva… era l’ultimo filo sottile a cui mi aggrappavo per non crollare nella disperazione; sottile eppure di una forza immane. Vederla sorridere, sentire le sue piccole mani sulla pelle, avvertire l’odore di borotalco e di pulito. Era la mia bimba, e ancora non riuscivo a capacitarmene.
No, non riuscivo proprio a capacitarmi di come io, che sono una persona pessima, isterica e pignola, competitiva e terribilmente ambiziosa, avevo dato alla luce una bambina così splendida e pura. Non vi era alcuna dannata logica, in tutto ciò. Ma se pensavo che quel gioiello, quel dono meraviglioso ed immeritato, era l’unica cosa che ormai mi univa a Ron, beh… era triste.
E arrovellandomi in questi pensieri, che mi distoglievano completamente dal mondo reale, la mia espressione tornò ad essere una maschera d’angoscia.
“Ehi, io esco.” Ron fece il suo ingresso nel cucinino, distorcendo il naso per il forte odore del latte. Era già vestito di tutto punto, o per meglio dire pareva essersi messo le prime cose che aveva trovato giusto per uscire il prima possibile da casa.
“Cosa vuoi, il permesso?” biascicai sardonica con una sterile speranza che quel tono acido, magari quel giorno, magari un altro, lo avesse prima o poi svegliato e gli avesse ricordato che aveva una famiglia e dei doveri.
“No, non voglio il permesso.” Ron si decise a proferir parola con un record di ben due minuti di silenzio.“Era per avvertirti, casomai ti venisse in mente che sono tuo marito.”
Ron Weasley, quando mai. Che me lo diceva a fare, poi? Come se fosse stata una novità il fatto che infilasse quella maledetta porta ai primi albori e non ne facesse ritorno se non all’ora di cena. Ormai ero la sua cameriera. Andavo bene solo finché sistemavo la casa, facevo le faccende domestiche, cucinavo e badavo ad Ingrid. Si scocciava persino a fare il padre, quell’idiota.
“Oh, lo ricordo già troppo spesso quello. Preferisco far finta di essere ancora zitella, se non ti dispiace.”
Se mi sentivo in quel modo, una personaccia, era soprattutto per colpa sua; così pensavo allora. Riusciva solo a scatenare la mia parte peggiore.
“Non ti va bene mai nulla di quello che faccio, vero?” rispose con impeto, desiderando forse di colpirmi in qualche modo. “Tu mi credi un fallito! Ma l’unica fallita qui sei tu, Hermione, sei tu!”
Era così che andava tutte le volte.
Per lo più ci affaccendavamo a farci del male a vicenda, a scoccare frecce avvelenate accecati dalla furia. Diedi un’occhiata ad Ingrid, non volevo che assorbisse quell’aria pesante. Tre anni. Quello era il periodo in cui, normalmente, si cominciava a formare il carattere di una persona, e non avevo alcun desiderio di trasformare mia figlia in una ragazza piena di rancore verso i genitori. Non volevo che lei mi odiasse, almeno lei.
Per fortuna, pensai, sembrava ignara delle frasi pungenti che ci tiravamo addosso io e Ron. Stava giocherellando con le costruzioni immersa completamente, a quanto pareva, nella realizzazione di un castello o qualcosa del genere.
“La bambina.” Lo avvertii, mordendomi le labbra per non rispondere alla sua aperta provocazione. “Vai dove ti pare e restaci quanto vuoi, ma esci di qui!”
Se avesse risposto ancora, probabilmente, gli avrei lanciato contro una fattura di quelle potenti, che nemmeno il San Mungo gliel’avrebbe saputa curare.
Stranamente, invece, prese una decisione sensata ed imboccò l’uscio.
Silenzio.
Odiavo quel silenzio, quasi più delle malignità che ci gettavamo addosso. Non era la risposta che volevo, non la consolazione, la comprensione che mi attendevo ogni volta.
Guardai Ingrid- i ricciuti capelli color caffé scarmigliati sul capo, le paffute guance tinte di rosa, la minuscola bocca socchiusa quel tanto che bastava perché c’infilasse il pollice- e scoppiai a piangere.



Non mi venite a dire che sono stato uno stronzo. Semplicemente io non posso esserlo. Forse a volte idiota, insensibile, egoista… ma non stronzo, no. Io amavo Hermione, ed amavo il frutto della nostra unione, Ingrid. Le amavo con tutto me stesso, ma non ci crederà nessuno in fondo.
Il punto, il vero punto della situazione, è che Hermione mi ha ucciso. Dimenticate coltelli, sussurri di Avada Kedavra, pozioni mortali e quant’altro. Esistono modi molto più sottili per uccidere una persona, molto più taglienti, ed il peggio è che sono del tutto involontari. Io l’ho capito a mie spese.
Non ho mai avuto un carattere particolarmente forte; impormi con le mie idee quando sapevo che quasi certamente mi avrebbero stracciato era una cosa che avevo imparato a contenere. Avere sei fratelli, tutti sicuri delle proprie carte, popolari e divertenti… beh, Percy proprio no, ma ci sono sempre le eccezioni, non vi pare?
Fatto sta che la mia figura ne risultava completamente oscurata: Fred e George che mi oscuravano con la loro simpatia e la loro faccia da culo, Bill che mi oscurava con quelle sue fattezze che attraevano tanto le donne, Charlie che mi oscurava con il suo indiscutibile coraggio, e Ginny, anche Ginny mi oscurava, per quella forza di carattere che solo una donna è in grado di possedere.
Insomma, io contavo in quella famiglia come una mou al sapore di caccola. Fate un po’ voi i conti.
Per non parlare di quelli che sono sempre stati i miei amici. Harry Potter ed Hermione Granger.
Potrete dirmi che sono uno che si fa mettere i piedi in testa da tutti, ma vorrei vedere uno qualunque di voi che al mio posto non si sarebbe sentito un cretino. Cioè, Harry Potter, scherziamo? È sempre al centro dell’attenzione, pieno di gente che gli ronza intorno e che gli lecca i suoi preziosi piedini. Ci manca solo che fra poco lo idolatrino e lo imitino nel suo modo di andare al cesso. Alzi la mano chi accanto ad una tale presenza non si sentirebbe a disagio specie se, come nel mio caso, si viene completamente ignorati e messi da parte.
Ma aspettate, non ho finito. Dimenticate Hermione Granger, una delle mie migliori amiche nonché mia moglie. Vi ricorda qualcosa il nomignolo So- Tutto- Io? Cominciate a capire… non è vero?
Vi sfiderei a farle una qualunque domanda, una sola, anche la domanda più assurda a cui nessuno al mondo si è mai nemmeno degnato di dare una misera risposta. Bene. Hermione vi risponderà. Quella non ha un normale cervello con delle normalissime celluline grigie e dei neuroni che si fanno un giro panoramico dentro per passare il tempo. No. Hermione ha un cervello che una qualsiasi persona pagherebbe oro per rubarglielo. Contiene più informazioni del Pensatoio di Silente, e ho detto tutto.
Sapete esattamente cosa significa vivere ogni santo giorno accanto ad una persona così? No, non lo sapete. Perché solo un idiota come me poteva anche solo pensare di starci insieme.
Vi alzate la mattina. Volete fare un’energica colazione con bacon, uova, salsicce… no! Perché Hermione Granger dice che questo cibo è veleno, e visto che è veleno per lei, allora lo deve essere pure per voi. Morale della favola: quella mattina mangerete latte coi cereali, che a voi fanno venire il voltastomaco, per poi buttarvi un panino stracolmo di roba appena arriverete all’ufficio.
Altro esempio? Usciamo assieme. “Dove andiamo?” mi chiede lei ogni volta con fare innocente. Questa, per chi non lo sapesse, è una domanda retorica. E sì, perché Hermione ha già le idee chiare su dove vuole andare e su cosa vuole fare.
Morale della favola: annuite e sorridete, baldi giovani. Guai a voi se proponete qualcosa, è sicuramente meglio andare dai genitori di Hermione che vi riempiranno la bocca di cibo insipido ed orientale, che fa molto trendy, che vi accoglieranno con una sparatoria di domande assurde, e passeranno la serata a guardare stupidi programmi su di uno stupido melevisore, o come si chiama.
Immaginate di sopportare cose come queste per amore. Immaginate di sopportarle tutti i giorni, nessuno escluso. Immaginate di aver dimenticato come si fa ad esprimere una propria opinione, accordando tutto quello che dice vostra moglie, perché così è più semplice, così è facile andare d’accordo.
Allora permettete che io, Ronald Bilius Weasley, mi sia finalmente rotto le scatole di essere un fantoccio nelle mani della moglie?
E così ho iniziato a sentirmi oppresso a casa, oppresso dovunque ci fosse Hermione nei paraggi. Volevo respirare, signori, soltanto questo. Non ero capace di dirglielo a parole, perché qualcosa dentro di me mi suggeriva crudelmente che non c’erano parole che potessero esprimere ciò che stavo provando. E soprattutto non c’erano parole per dirlo a lei; non avrebbe capito.
Era come sentirsi in una gabbia troppo stretta, le sbarre che stringevano le mie membra e le deformavano, mi procuravano un dolore acuto ed insostenibile. E l’unica cosa da fare era fuggire da quella gabbia.
Mi allontanai, è vero. Iniziai a passare meno tempo possibile a casa, per non sentire la sua voce insistente e petulante.
Mi vedevo i fatti miei, è vero anche questo, le poche parole che ormai ci scambiavamo le gettavo nel dimenticatoio per poi fare qualcosa di più piacevole.
Ed è vero, purtroppo, il fatto che punendo la sua arroganza, punii anche Ingrid. La punii con la mia assenza, con la mia assidua indifferenza, il mio egoismo imperdonabile.
Pensai a tutto questo, mentre camminavo come un automa recandomi al Ministero. Perché non mi fossi semplicemente smaterializzato proprio non lo sapevo; forse volevo solo fare due passi per rimuginare sulla mia vita. Non poteva continuare così.
Dovevo fare qualcosa. Le mie mani fremevano dall’angoscia, il mio viso grondante sudore; non dovevo avere affatto una bella cera. Mi asciugai quelle stille affannose, mi fermai nel mezzo della strada.
Forse una decisione sensata la potevo ancora prendere.



Shade my eyes and I can see you
white is the light that shines
trough the dress that you wore[…]


Green is the colour, Pink Floyd


Avevo accompagnato Ingrid all’asilo nido.
Ero stata io a prendere questa decisione. Ron non sembrava molto d’accordo in proposito, ma non aveva detto nulla, così l’avevo iscritta. Trovavo fosse un ottimo modo perché iniziasse a socializzare con i suoi coetanei. L’unico rischio era che facesse qualche magia accidentale, ma fino a quel momento non aveva dimostrato alcuna capacità magica, così non mi preoccupavo.
Harry mi aveva tenuto compagnia, come al solito. Ultimamente passavamo molto tempo insieme. Lui aveva messo fine alla sua ultima storia, con una certa Goneril Lovelace, e probabilmente si era accorto che c’era qualcosa che non andava, qualcosa che mi turbava.
Non mi aveva chiesto nulla, ed io non gli avevo detto niente, ma lui comprendeva guardando nei miei occhi, e io comprendevo guardando nei suoi.
Entrammo a casa.
La sua espressione si addolcì quando l’odore del latte arrivò alle sue narici. Lui adorava il latte, e diceva spesso che quella casa sapeva di buono.
“Ti offro qualcosa?”
“Il solito, Herm.” Sorrise. Quanto mi piaceva vedere quel sorriso! Ti metteva qualcosa come un’improvvisa pace addosso, e ti ci saresti cullata per ore, fissandolo.
Andai in cucina, e mentre versavo del latte freddo in un bicchiere, avvertii uno stridore prolungato ed insopportabile. Il divano, pensai.
Lo trovai infatti seduto su quel pezzo d’antiquariato, con un’espressione assorta, indecifrabile.
Bevve un sorso di latte, poi poggiò il bicchiere sul tavolino di fronte con estrema delicatezza. Era una cosa che mi stupiva molto, la sua consueta attenzione al particolare, il maneggiare le cose con cura, che si trattasse di un bicchiere o di una penna. Mi chiesi con una parte della mente, ed in seguito non fui nemmeno sicura di averlo pensato realmente, se quelle mani così precise, dal tocco fermo e gentile, fossero state altrettanto attente, altrettanto dolci quando sfioravano un corpo femminile. Mi chiesi, il sangue che fluiva con sorprendente rapidità alle mie gote, come sarebbe stato il tocco di quelle mani sul mio corpo.
Harry mi guardò con una calma che, ne ero sicura, celava un’incessante irrequietezza, un dimenarsi continuo di pensieri, e dubbi, e confusione. “Come stai?”
Come stavo. Uno schifo, ecco come stavo. “E tu? Come stai?” chiesi invece, voltando il coltello e rivolgendo a lui la lama tagliente. Rise.
“Che fai, fuggi alle mie domande?” sempre con quel suo sorriso dolce, capace di trasmettere una pace assoluta, fece sbucare dalle sue spalle una bustina che non avevo notato prima. “Ho trovato questo. Ho pensato potesse interessarti.”
Lo guardai curiosa, poi guardai la busta; la presi. Appena vi diedi una rapida occhiata, sentii un guizzo gioioso riscaldarmi dentro. Ne trassi un libricino. Aveva la copertina celeste, il mio colore preferito, i bordi decorati a ghirigori, il titolo color dell’oro.
“Oh, Harry!”
Era un libro che desideravo da secoli e che non riuscivo a reperire da nessuna parte. “Ma dove l’hai trovato?”
“Segreto professionale. E anche se te lo dicessi, non mi crederesti.”
Lo abbracciai. O meglio, lo stritolai. “Ehi, vacci piano ragazza, con queste dimostrazioni d’affetto!”
Allentai un po’ la presa, ed Harry mi diede dei bacetti sulla testa. Poi successe una cosa strana.
Cioè, non fu una cosa strana. Era piuttosto una cosa che non credevo possibile l’avesse fatta davvero Harry, il mio migliore amico. Tra i vari baci sul capo, scese a posare le sue labbra sul mio collo. Mi venne un brivido di piacere. Poi mi vergognai da morire. Diamine, un bacio sul collo. Non era quello il tipo di bacio che ci si scambia tra amici, no? Per questo parlo di una cosa strana.
Lui sembrò non rendersi subito conto del suo gesto, ma dopo un po’ si scostò di colpo, un po’ brusco. Uno scambio di sguardi, e la vidi.
Vidi l’irrequietezza che giocava nei suoi occhi, quegli occhi limpidi come un lago d’inverno che adesso venivano mossi da un’onda, agitati e… cos’era quella? Paura?
“Hermione, io non…”
“Harry, non c’è niente di male!” mi affrettai a dire, a mentire.
Ma lui m’interruppe con un gesto rapido della mano. “Io non dovevo venire qui. E non dovevo portarti quel libro, perché sapevo che ti avrebbe reso felice.”
Lo fissai interrogativa. “Ma è una cosa bella, Harry… non capisco…”
“Non capisci?” domandò, e la sua voce tradì una nota dolente. “Mi sto facendo del male da solo. E ne sto facendo a te. Queste attenzioni, questi momenti… cosa pensi che siano, Hermione?”
“Cose tra amici.” Risposi insicura, o forse ostentando una sicurezza che non provavo in quell’istante. “Non lo sono, Harry? Non sono cose tra amici, queste?”
“Cose tra amici…” ripeté a se stesso, tenendosi la testa tra le mani, come se fosse divenuta all’improvviso troppo pesante da poter sostenere. Poi si fermò, e pareva che per un attimo avesse ripreso la sua consueta maschera di calma. Ma non c’era calma nella sua voce quando mi prese il volto tra le sue mani e mi disse: “Guarda la realtà in faccia. Io vengo qui tutti i santi giorni, e tutti i santi giorni io non sono felice e tu non sei felice, e lo sappiamo entrambi ma mentiamo a noi stessi, e io che ti porto regali per… per farti felice… anzi no! Basta mentire… io ti porto regali sperando che tu capisca che non sono cose tra amici, queste!”
Finì al limite dell’isterismo. Ma non tolse le mani; continuò a guardarmi negli occhi, incapace di fare qualsiasi altra cosa.
Ed io sentii quelle mani sulla mia pelle; allora capii cosa si provava a sentire il tocco delle mani di Harry su di una donna, su di me. Bruciavano come se fossero fatte di fuoco, quelle mani, bruciavano come se invece di una morbida carezza mi avesse tirato uno schiaffo. E bruciavano i suoi occhi, che avevo sempre pensato avessero l’essenza dell’acqua, e invece mi rendevo conto solo allora di come ero stata stupida. Perché quelle iridi erano fiamme, ardevano di una passione tutta rivolta a me, ora lo sapevo.
E il senso di colpa aleggiava impassibile, una presenza immobile ed impalpabile nell’ombra di quel salotto, di quella casa.
E noi lo mettemmo a tacere. Oh sì, lo mettemmo proprio a tacere, il senso di colpa.
Forse ci osservava guardingo da un angolo, forse ci rimproverava in silenzio, chissà. Ma non lo ascoltammo di certo, perché io lo baciai, e lui baciò me, e prima che uno di noi due potesse prendere una decisione sensata, avevamo entrambi intrapreso la decisione più insensata e seducente di tutte.
Dieci minuti dopo eravamo lì, accasciati su quel sofà, che ci aveva accompagnato per tutto il tempo col suo sordo rumore di cianfrusaglie e di cose passate. E noi eravamo abbracciati, felici ed infelici.



She lay in the shadow of a wave
hazy were the visions overplayed
sunlight in her eyes, but moonshine
made her cry every time[…]

Green is the colour, Pink Floyd

E così, l’avevo presa. La decisione sensata, intendo.
Ero ritornato indietro, a casa, perché non ne potevo più di fare il debole e di lasciare che gli altri gestissero la mia vita. Dovevo fare la cosa giusta, questa volta.
Avevo bussato, ma nessuno era venuto ad aprire. Forse Hermione stava accompagnando Ingrid all’asilo. Meglio, pensai, così avrei avuto tutto il tempo per prepararle una sorpresa. E poi avremmo parlato, finalmente.
Salii su per le scale, il cuore che aveva preso a battere a suo piacimento, e una nuova determinazione nello sguardo. Infilai le chiavi nella toppa ed aprii.
“Hermione!” dissi con enfasi, quando la vidi stesa su quel divanetto mezzo sfasciato. Era sudata come se avesse corso chilometri, e non si stupì quando mi sentì entrare. Mi sentì, già. Perché non si degnò di alzare il suo sguardo altero e fiero verso me.
“Che ci fai qui?” chiese, ed avvertii una cadenza nervosa nella sua voce. Mi accorsi delle spalle tese; sarebbe bastato un solo dito per mandarle in frantumi. Le mani frenetiche giocherellavano con le pieghe della stoffa che lei soffocava col suo corpo. Era insolito trovarla distesa lì. Lei odiava quel divano. Ma non vi badai più di tanto, non in quel momento.
“Io e te dobbiamo parlare.” Nell’istante in cui riuscii a pronunciare queste parole mi sentii pago di me stesso. Dopo quell’importante decisione tutto sarebbe andato sicuramente da sé. “Dovevamo farlo molto tempo fa. Ma non l’abbiamo fatto, ed è tempo di recuperare.”
Mi avvicinai a lei che guardava ad una parte del pavimento, con incredulità forse. Un cigolio ed ero accanto a lei. “Hermione.” Non lo dissi, il suo nome; glielo sussurrai accostandomi al suo orecchio, non troppo perché lei si potesse scostare. La fissai con uno sguardo colmo d’amore, di calore. Una cosa che avevo dimenticato da tempo come si facesse. “Hermione… ti va di parlare con me? Ti va di mettere fine a tutto questo?”
Poi accadde l’assurdo.
Lei scosse il capo, e all’inizio pensai si trattasse di un temibile diniego. Mi ci volle qualche secondo per realizzare che quel movimento della testa era dovuto a singulti, singhiozzi silenziosi.
La sua voce proruppe così, soffocata da gemiti che ferivano il petto, spine di una rosa bella e terribile. “No, Ron, non capisci?! È troppo tardi! Troppo tardi…” e le lacrime che traboccavano copiose da quegli occhi bruni e cupi, tristi. “Guardami, diamine!” strillò sull’orlo della disperazione. Provai a farle una carezza per tranquillizzarla, e dirle che eravamo ancora in tempo, ma si scostò così bruscamente che fu come se mi avesse preso a pugni.
Nello sconforto, e nell’incapacità di gestire quella situazione, presi inconsapevolmente ed ingenuamente in mano un paio d’occhiali abbandonati sul divano. Poi un guizzo, un ronzio nella mente.
Ma Hermione non porta gli occhiali…
E allora di chi erano quegli occhiali? Sembravano… sembravano quelli di… erano quelli di Harry. Ne ero sicuro. E cosa ci facevano gli occhiali di Harry su quel divano, tutto disfatto, inutilizzato… cosa ci faceva la mia Hermione tutta sudata coi capelli in ribelle disordine, come solo io in passato ero riuscito a scompigliarli…
Bella e così crudele.
Ecco come mi parve in quel momento Hermione. Ecco come mi parve la realtà dei fatti, sbattutami in faccia.
Mi alzai con una rabbia insaziabile che mi stringeva il petto e mi permetteva a fatica di respirare. “Dov’è? Dimmi dov’è!” urlai; il mio cuore piangeva sangue, inarrestabile, il mio animo graffiato e lacerato in mille frammenti.
Hermione non rispose; piangeva e piangeva, ed io piangevo e piangevo.
Cercai per tutta la casa, sbattendo porte ed ante, come un folle. Dov’era quel maledetto bastardo? Quello che credevo un amico… colui che si era portato dietro di sé la nostra amicizia e mia moglie.
Era una morte a piccole dosi, una sofferenza insostenibile che strisciava nel silenzio, sotto la pelle. Volevo trovarlo e fargli più male possibile, o volevo farmi più male possibile, non lo sapevo.
Uno stridio di qualcosa che sbatacchiava richiamò la mia attenzione. Fissai impotente la porta sul retro: era socchiusa, e sbatacchiava, martellava sul suo asse, insoffribile.
Non ne aveva il diritto. No, non aveva nessun diritto Harry Potter di andarsene fuori dalla mia portata. Doveva rimanere, doveva farsi prendere a pugni, perché adesso non sapevo davvero su chi sfogare il mio dolore, la mia rabbia.
Ritornai nel salotto dove Hermione, imperterrita, continuava a gemere abbattuta. Mi parai davanti a lei, immobile e senza dir nulla.
Mi sentivo stranamente goffo: forse per le braccia pesanti come macigni, abbandonate lungo i fianchi, o forse per l’incapacità di articolare un qualsiasi suono, o ancora per i miei occhi che dovevano sembrare scolpiti nel marmo tanto erano duri, ed impenetrabili.
Piangemmo. Fu l’ultima cosa che facemmo insieme.



Green is the colour of her kind
quickness of the eye deceives the mind
envy is the bond between the hopeful and the damned.

Green is the colour, Pink Floyd

Tre settimane dopo…

Una sottile ed insistente pioggia tamburellava sul terriccio.
Nemmeno gli scrosci improvvisi che mi sferzavano il viso riuscivano a placare la mia sete insaziabile di lacrime. Corsi, corsi per un tempo infinito, i minuti si succedevano l’uno all’altro ed io correvo instancabile.
Avrei voluto che quella pioggia così linda che lavava le cortecce degli alberi spogli avesse lavato anche l’orrenda macchia che m’insudiciava da giorni ormai i pensieri. Mi fermai soltanto quando il respiro mi venne meno e, accasciatami sull’erba diradata, rotolai disperato nella fanghiglia.
Gocce che non appartenevano a quel cielo cinereo scivolarono dai miei occhi inumidendomi gli zigomi e strisciarono sinuose e malvagie come serpi nei loro covili.
Grondante sudore, sporco, mi rialzai in piedi e ripresi la mia corsa, verso casa stavolta. Avevo lasciato molti metri a dividermi dalla Tana, perciò affrettai ancor di più il passo. Poche ore e la notte avrebbe avvolto quel paesaggio incolto, lo avrebbe cullato con le carezze del vento.
Qualche minuto dopo arrivai davanti casa, aprii ed entrai in silenzio, sperando invano di esser visto.
Ginny mi venne incontro sbucando dal bel nulla. “Oh, eccoti! Mi stavo preoccupando…”
“Ginny.” constatai con voce malferma ed affannata. “Sono un po’ stanco.”
“Volevo solo darti questa.” Disse fuggente, evitando accuratamente di guardarmi. Era una scatola più o meno grande- per l’esile corpo di mia sorella- decorata fino al più piccolo spigolo. “E’… di Hermione.”
“Non la voglio. Gettala pure.” Risposi sicuro, con un tono che suonava estraneo alle mie stesse orecchie.
Ginny esitò, mentre mi apprestavo a salire in camera mia. “Sai, credo dovresti aprirla. Non è… non è quello che credi.”
Non è quello che credo. Non era uno stupido regalo, per farmi credere quanto tenesse a me? Non era uno dei tanti che avrebbe solo arrecato una ferita in più nel mio cuore già estremamente dilaniato?
Tuttavia la curiosità prevalse. Buffo come in momenti come questi una cosa sciocca ed insulsa come la curiosità possa sovrastare ogni altro pensiero.
Me la porse ed io la presi. Sì, la presi. “Beh, significa che ti arriverà dritta in faccia se è qualcosa che non mi piace. Sei stata tu a convincermi; te ne assumi tutte le responsabilità?” dissi beffardo.
Ginny mi sorrise debolmente. “Ti piacerà.”
Aspettai di essermi sbarrato in camera e di aver chiuso le tendine alle finestre, per aprirla. Era una cosa molto personale e non volevo che nessuno notasse con quanta curiosità toccavo quella scatola. Quanto desiderio si accendeva nei miei occhi, quanta speranza mi addolciva l’animo.
La scatola recava scritti tutti i motti, le frasi, le lettere, le frecciatine… tutto ciò che ci eravamo detti di significativo, di frizzante, di spiritoso, di affettuoso, in quegli anni passati sotto lo stesso tetto, condividendo un amore ed una bimba meravigliosi. Sollevai il coperchio, e mi sorpresi della delicatezza con cui facevo tutto quanto, quando fino ad allora avevo strappato, squarciato, ogni cosa mi fosse capitata alle mani. Ma sentivo che fare del male a quella scatola, era fare del male a me stesso. Perché quella scatola mi conteneva. Conteneva me e lei.
Dentro c’erano foto su foto, tutti i regali che le avevo fatto, biglietti di partite di Quidditch viste assieme, la sua fede, finanche il velo del nostro matrimonio, ed un fiore che le avevo raccolto in una gita di campagna.
C’era tutto di noi. Tutto.
E poi una lettera. Attesi non so quanto, forse secondi, minuti, o intere ore prima di leggerla.


Le scuse non bastano. Le parole non bastano. E non basta neanche dirti “ti amo”. Perché è tutto più grande, più immenso, ed insostituibile. Il mio cuore è legato al tuo. E se tu hai deciso di prendere questa decisione senza ascoltare ciò che voglio io, hai tutte le ragioni di questo mondo. Ma il nostro amore è più in alto del mondo, è al di fuori di esso. Perciò se provi ancora un piccolo minuscolo sentimento per me, ti prego, non gettarlo via. Nutriamolo insieme e forse un giorno ricrescerà, e sboccerà come era agli inizi, o anche di più. Puniscimi, se devi. Ma tra una punizione e l’altra, tra un pensiero di vendetta ed un altro, concedimi il tuo perdono e accoglimi con un bacio, come una volta. Per sempre tua. Hermione.





Tenevo tra le mani tremanti una sigaretta.
Non avevo mai fumato in vita mia, ed avevo iniziato così. Perché era inaccettabile per me l’idea di non poter muovere le mani per modificare quella situazione in cui mi ci ero gettata da sola, lo dovevo ammettere.
La stanza era ormai impregnata da quell’olezzo e nonostante sul tavolino fosse poggiato un portacenere in marmo, non me ne curavo, spargendo la cenere sul pavimento freddo.
Non ricordo di essere mai stata così male.
Ero raggomitolata più che mai in un angolo di quel divanetto, gli occhi gonfi e rossi dal pianto, le unghie di solito ben curate erano mangiucchiate a sangue.
Ingrid dormiva placida nella sua stanzetta. Anche il salotto dormiva, ed il silenzio che avanzava come una coltre di velluto, comprimendomi in quell’angolo.
Era polvere di assenzio quella che mi bruciava l’animo e mi provocava fitte al petto in un senso d’impotenza e di sconfitta.
Ron non entrava ormai da più di tre settimane in quella casa; aveva preso tutte le precauzioni per non incontrarmi, anche accidentalmente. Persino per vedere Ingrid, mandava Ginny a prenderla.
E gli avevo fatto quella scatola, gliel’avevo fatta ricevere proprio una di quelle volte in cui Ginny era venuta qui. Glielo avevo spiegato cos’era, l’avevo pregata d’insistere perché Ron la vedesse.
Ma non mi aveva fatto sapere nulla.
Mi alzai con difficoltà; avrei fatto quattro passi per calmarmi, se tutto ciò poteva realmente servire a qualcosa.
E fu quando aprii la porta di casa, che rimasi basita. La scatola era lì.
Mi ci gettai contro. Sollevai il coperchio, mentre un’ansia crescente dirompeva in me.
Non c’era nulla delle cose che vi avevo messo dentro. C’era solo una lettera.
Chiusi gli occhi, li riaprii. Respirai profondamente, trattenei il respiro. La presi, la riposai.
Infine la lessi.

Mi sono arrogato il diritto di prendermi le cose che c’erano dentro. Spero non ti dispiaccia. Ma che dico, spero ti dispiaccia da morire. E sai cosa ti dico? Se proprio le rivuoi indietro, mi sa che non c’è altra soluzione. Devi venire assolutamente a prendertele qui da me. Anche perché hai dimenticato un’altra cosa importante, una cosa che è solo tua. Ron.

Sorrisi al nulla. Forse c’era ancora della speranza.

 
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