Panta Rei (Tutto Scorre), [30/10/07] Prova fandom libero

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RizafromKeron
view post Posted on 9/12/2007, 13:06




Serie: Hagane no Renkinjutsushi (a.k.a. Fullmetal Alchemist, a.k.a. L'Alchimista d'Acciaio)
Personaggi: Edward Elric/Roy Mustang
Rating: Rosso/NC 17
Tipologia: Lunga, luuuuunga Oneshot.
Genere: Introspettivo, Erotico, AU, What if...?, forse angst.
Avvertimenti: Yaoi, sesso, turpiloquio.

Introduzione: "A volte ti svegli la notte col cuore che batte così forte che pare volersi cercare una strada per evadere dalla cassa toracica, e hai paura. Non della morte, né della vita, e neppure dell’inflazione che sale.
E’ il terrore di non essere al sicuro a coglierti.
Quel senso di caducità della vita che ti induce a pensare che nonostante il posto che ricopri, le possibilità di carriera, le tue doti, le belle donne con cui esci e i fedeli sottoposti che ti coprono le spalle e che ti seguirebbero fino all’inferno, potresti ritrovarti senza niente per colpa di un errore da niente."


Note: Questa versione delle note di inizio storia verrà trasmessa in versione ridotta per venire incontro alla mia spudorata pigrizia che mi impedisce di scrivere di più.

1) Considerate i personaggi di questa storia come maggiorenni: Ed ha 18-19 anni, Roy 32-33 (33 è un numero più bello). Se non lo dico nella storia è perché non lo ritengo importante. Se Roy è certo che Ed non possa avere più di sedici anni è per via della sua bass... picc... Oh, insomma! Ed è un NANO! Se non vi va di considerarli maggiorenn nella vostra fantasia, invecei, non posso impedirvelo. Non è davvero importante ai fini della storia secondo me! :rolleyes:

2) Questa storia è una What If...? Ciò significa che in questa storia Roy non conosce Ed, Ed non fa parte dell’esercito, Ed è finito a fare il mestiere più antico e nobile del mondo: quello della dispensatrice d’amore a pagamento (non sto scherzando).

3) L’idea per questa storia mi è venuta guardando Pretty Woman dietro pressanti insistenze di mie amiche, ma non vedrete mai Roy venir fuori dal tettuccio di una Mercedes con un mazzo di fiori in mano e Edward scendere da una scala antincendio. Questo perché in quel caso ho provveduto a dire a una mia amica di spararmi.


Disclaimer e Credits: Nonostante le mie ripetute suppliche e insistenze, quella testarda di Hiromu Arakawa continua a non volermi INSPIEGABILMENTE concedere i diritti di Hagaren in cambio di yaoi come questa, quindi personaggi e situazioni del manga sono ancora tutti suoi (a parte il Generale Mengel che è un nome inventato da me). Con questa storia io non ci guadagno nulla se non in soddisfazione di veder fare porcate a Roy e a Ed.
Panta Rei invece era il nome del mio libro di grammatica greca al liceo, e poi secondariamente è un aforisma di Eraclito.

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PANTA REI
(Tutto scorre)

di RizafromKeron




“Carpe diem
quam minimum credula postero.”

(Cogli l'attimo
confidando il meno possibile nel domani)
Orazio


Dovunque l’uomo voglia vendersi
trova degli acquirenti

Henri Lacordaire


Seguendo la legge della prova e dell’errore,
possiamo facilmente dedurre che il nostro “sviluppo”
è una storia di errori consecutivi.
Quindi, per il futuro,
faremo meglio a rassegnarci.

Anonimo

* * * * *



A volte ti svegli la notte col cuore che batte così forte che pare volersi cercare una strada per evadere dalla cassa toracica, e hai paura. Non della morte, né della vita, e neppure dell’inflazione che sale.
E’ il terrore di non essere al sicuro a coglierti.
Quel senso di caducità della vita che ti induce a pensare che nonostante il posto che ricopri, le possibilità di carriera, le tue doti, le belle donne con cui esci e i fedeli sottoposti che ti coprono le spalle e che ti seguirebbero fino all’inferno, potresti ritrovarti senza niente per colpa di un errore del cazzo.

***

Da quando ti hanno trasferito capita più spesso.
Sarà l’ambiente che non ti piace.
East City non è certo la città in cui pensavi avresti abitato da bambino.
E’ piccola, arida, totalmente fuori dal mondo.
Questo per parlarne bene.
Oppure la casa in cui sei venuto ad abitare.
Hai scelto apposta l’appartamento più piccolo e meno costoso che sei riuscito a trovare nelle vicinanze del Quartier Generale: l’alternativa un pelo meno squallida del restare in dormitorio, cosa che non faresti mai a meno di un reale pericolo di vita perché ci tieni ad avere uno spazio vitale, un posto tutto tuo in cui non farti rompere le palle.
Al tempo stesso non vuoi ambientarti perché sai che non rimarrai qui a lungo.
L’hai scelto tu quel buco, non te l’hanno imposto.
Per cui non puoi neppure dare la colpa a qualcun altro se ti dà un’idea generale di miseria che ti costringe a pensare a cose spiacevoli.
Se non dormi te la devi cavare da solo.
Ti fai la doccia, bevi qualcosa.
Ti addormenti di botto col bicchiere vuoto in mano e con l’accappatoio indosso per poi svegliarti dopo quelli che paiono pochi minuti.
Grondi di sudore, ansimi e il cuore ti batte all’impazzata.
Ti giri e ti rigiri in cerca di un punto fresco sul cuscino su cui appoggiarti.
Non trovandolo ti siedi sul bordo del letto, e solo allora ti ricordi che quel “qualcosa” che hai bevuto prima era una bottiglia intera di whiskey e che ora sei ubriaco fradicio. E con la realizzazione torna la voglia di sdraiarsi, ma non ci riesci perché se solo provi a piegare la schiena all’indietro e a sforzare i muscoli dell’addome ti senti salire in gola tutto quello che hai bevuto da qui al tuo primo sorso di vino a tredici anni.
Poi lo sguardo ti cade sul tuo orologio d’argento.
Lo tieni aperto in bella mostra sul comodino.
Lo prendi tra le dita e strizzi gli occhi per leggere l’ora in quel buio azzurrino, perché di accendere la luce non se ne parla.
L’una di notte.
E’ tardi e sei solo.
Sarebbe il momento adatto per chiamare la tua donna.
Peccato che tu non ce l’abbia.
Ne avevi una, prima.
Regina. Tipa decisamente in gamba.
Bella, formosa, ti lasciava in pace finché non la cercavi tu.
Per un momento pensi che potresti chiamarla comunque perchè in fondo non vi siete lasciati male. Tu dovevi andartene, ti è stato ordinato, e non ti è passato neppure per l’anticamera del cervello di chiederle di seguirti. Ma anche se l’avessi fatto non si sarebbe mai allontanata da Central, dove ha il suo lavoro, gli amici e la famiglia.
Ma lo sai che chiamarla sarebbe un’idiozia.
Perché cosa le diresti? La verità di sicuro non potresti raccontargliela, perchè è sempre pericoloso mettersi a raccontare cose strane a una donna, razza notoriamente pettegola a parte alcune pregevoli eccezioni, su linee telefoniche non protette.
Perché quale sarebbe la verità?
Nemmeno lo sai.
Il tuo è solo un pensiero come tanti.
Tu sei uno straccio, la patetica ombra di te stesso.
Hai bevuto troppo e hai mal di testa, e vieni ossessionato da questi incubi del cazzo che ti negano persino quelle poche ore di sonno che ti ci vorrebbero per acquistare un aspetto decente.
Devi fare qualcosa.
Non ne hai per niente voglia.
E’ troppo tardi per leggere quel libro che tieni sul comodino, o per arrovellarti il cervello su certe carte che necessitano la tua attenzione. E’ troppo presto per alzarsi dal letto e fare qualsiasi cosa che richieda la tua partecipazione attiva, fosse anche la camminata di rito al frigorifero per prendere qualcosa di fresco con gradazione alcolica inferiore ai dodici gradi. Non troveresti sollievo neppure nella masturbazione.
Non funziona, non ti interessa.
Neppure ci provi.
Non serve.
Però una soluzione ti tocca trovarla per forza.
Una maledettamente geniale, altrimenti ti toccherà rendere conto del tuo aspetto pauroso al Tenente Hawkeye, e tu non hai molta voglia neanche di quello.
Poi ti ricordi del biglietto.
Te l’ha dato pochi giorni fa quel matto del Generale Grumman per prenderti in giro, al tuo arrivo. Ti ha stretto la mano accogliendoti in quel posto dimenticato da Dio, ti ha messo a conoscenza del fatto che lì di donne belle come a Central non saresti mai riuscito a trovarne neppure se ti fossi messo a pregare il tuo Dio e poi, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno fosse nei paraggi, si è lisciato i baffi e ti ha detto: “... Ma se le cose si fanno disperate puoi sempre cercare la compagnia di un’allegra professionista.”
Le ha chiamate proprio così.
In quel modo assurdo.
E ti ha ficcato nel taschino un biglietto scritto a mano prima che potessi ridere, ritenendola una battuta.
Ti eri riproposto di buttarlo perché non ne avresti mai avuto bisogno. Non sei mica un vecchio bisognoso di pagare per trovare “compagnia”. Di ragazze ne hai sempre avute più che a sufficienza.
Poi invece non l’hai fatto.
E’ finito a ingiallirsi tra le pagine del tuo libro.
Allunghi la mano e accendi la luce, prendendo il biglietto. Te lo rigiri tra le dita e osservi la carta di grana grossa, un po’ irruvidita dal tempo e strappata ai bordi, con quel numero di telefono senza nome scritto con inchiostro nero. La penna ha sbavato in un paio di punti e non sei sicuro se quello sia un due o un sette, ma opti per un due.
Se l’hai conservato devi avere un motivo.
Non puoi tenerlo lì per niente.
E’ tardi e sei solo.
Non è sufficiente?
E poi ti sembra di non essere nemmeno tu.
E’ come osservarsi dall’esterno, e non è un bello spettacolo.
Quell’uomo con le labbra tirate e gli occhi lucidi e disperati che con le dita tremanti ricerca la compagnia più sincera del mondo, quella a pagamento, non ti piace neanche un po’. A dirla tutta ti fa pena.
E’ solo curiosità, pensi.
Io ho una reputazione da difendere.
E poi potrei avere gratis tutte le donne che voglio.
Ma lo sai benissimo che non è quello a spingerti a sollevare la cornetta.
Ma cos’è esattamente, tanto per cambiare, non sai dirlo con precisione nemmeno tu.
Al secondo squillo risponde una voce seria e professionale, e la voglia di chiudere la conversazione sul nascere si fa prepotente. Però dall’altra parte l’uomo (ed è un uomo pensi con sollievo, perché per qualche motivo avresti trovato imbarazzante parlare con una donna), fa di tutto per metterti a tuo agio dal primo saluto gentile che sembra dire “Non è mio compito giudicarti”.
E’ chiaro che sa come trattare con quelli come te.
E questo ti fa stare meglio.
Ti basta a dargli una possibilità.
E’ rassicurante anche farsi un’immagine mentale cattedratica del tuo intermediario: un professionista d’aspetto piacevole, in giacca e cravatta e con un sorriso incoraggiante in un ufficio asettico. C’è anche una palma da qualche parte. Dà un’idea meno sporca di quel freddo elenco di scelte che ti propone come vini di un menù.
Altezza. Età. Colore di occhi e capelli. Razza.
Puoi avere tutto ciò che vuoi.
Basta chiedere.
E tu lo fai.
Chiedi.
Solo per curiosità.
Perché il prezzo è incredibilmente economico. Le prime scelte costano quanto offrire una cena a una donna in un buon ristorante di Central City. Non ami molto le cene sfarzose e gli ambienti inutilmente eleganti: trovi quegli appuntamenti galanti un preludio al sesso a cui una volta tanto rinunceresti con piacere.
Perché, ti rassicura il meticoloso intermediario, se per qualche motivo non andasse bene potresti sempre rimandare indietro la tua scelta, e in quel caso non dovresti neppure pagare per il servizio come accade di solito con altri “del settore”.
Perché non c’è bisogno di dare nomi via telefono che complicherebbero inutilmente le cose, né il numero della stanza che occupa: basta lasciar detto al custode del palazzo che stai aspettando una nipote. Del resto ne lascia sempre passare così tante, di nipoti, in cambio di una piccola mancia.
E ti convinci che a queste condizioni può anche provare.
Chiedi che ti venga mandato il meglio che hanno.
Usi proprio quella parola.
“Il meglio”.
Arriverà tra poco.
E ti senti subito agitato.
Il ricevitore ti scivola dalle dita un paio di volte nel rimetterlo al suo posto, e senti il bisogno di trattenere il fiato un secondo per fare mente locale su quello che hai appena fatto. Improvvisamente ti coglie un’ansia che ti fa balzare in piedi, perché la sola idea di restare in attesa senza fare niente ti mette a disagio.
Indossi un paio di pantaloni (non quelli della divisa, non vuoi farti riconoscere!) e una camicia pulita, perché non puoi farti vedere in accappatoio, come se fossi a tuo agio in una situazione abituale. Ti lavi di denti e sciacqui il viso finché il riflesso nello specchio del bagno non mostra un giovane e rispettabile ufficiale dall’aria rassicurante.
Ma non basta.
Adesso c’è troppa luce.
Spegni l’interruttore del bagno e la lampada sul comodino.
Infili il guanto che tieni sul bracciolo del divano alla mano destra e sfreghi le dita: al primo schiocco si accende un bel fuoco nel camino, al secondo le candele che tieni in punti strategici della casa proprio per evenienze come la visita di una signora a casa: il bisogno di una luce meno intensa, di creare un’atmosfera tenue e romantica s’è fatta impellenza insopprimibile.
Nel guardarsi intorno ti accorgi che l’appartamento è un casino.
Non è come se portassi a casa molte conquiste.
Prediligi alberghi e locande.
Posti in cui non ti conoscano o facciano finta di non averti mai visto; in cui non si debba rendere conto alla compagna di turno del tuo arredamento o delle tue abitudini insalubri di vita in vuote chiacchiere che servono soltanto a fare da preliminare. Luoghi in cui, ultimo ma non per importanza, ci penserà qualcun altro a dare una pulita prima, ma soprattutto dopo.
Perdio, pensi sbuffando, è solo una puttana.
Di sicuro non farà storie per un appartamento sporco!
Cionondimeno metti in ordine in fretta e furia, perché lei potrebbe arrivare da un momento all’altro: butti la biancheria sporca sotto al letto, quella pulita nell’armadio, getti nei rifiuti gli avanzi di un pasto precotto unticcio e poco salutare, uno di quelli che le donne non approverebbero.
Ce l’hanno nel DNA.
Odiano i cibi poco sani.
Poi tiri su le coperte per dare una parvenza ordinata al letto e nascondi le carte importanti tra i volumi della libreria, lasciando sul tavolo e sulla scrivania tomi inutili dall’aria difficile per darti un contegno.
Passeggi avanti e indietro per il salotto,raddrizzando un quadro o squadrandoti con aria critica negli specchi, sistemandoti una ciocca di capelli o sbottonandoti strategicamente la camicia.
Vuoi piacerle, inutile negarlo.
Vuoi che non ti reputi “uno di quelli”. Perché tu sei diverso. Un uomo speciale di cui parlerà a lungo con le colleghe, qualcuno di cui si ricorderà per tutta la vita tra i sospiri. Un uomo unico. Di sicuro non vuoi darle l’idea di essere uno dei soliti maiali che vengono nell’Est solo per farsi una scopata.
Sono diverso, ti ripeti.
Diverso.

*

E poi bussano, finalmente.
Non al campanello, grazie al cielo.
Fa troppo casino, e se qualcuno sentisse?
E’ un colpetto lieve sulla porta, appena accennato.
Se fossi stato in camera da letto neppure l’avresti sentito.
E quando apri non è per niente quello che ti aspetti. Eri convinto che ti saresti trovato davanti una donna da rivista erotica: di quelle alte e belle, non giovanissime ma con un loro perché, coi capelli logorati da tinte e messe in piega ondeggiare perfetti su spalle tonde; trucco pesante e ciglia finte su un viso piacevolmente corroso dal tempo; vestiti volgari di due taglie più piccoli a fasciare seni grandi e sodi un po’ appesantiti dalla forza di gravità. Quelli che non penzolano ma cadono abbastanza da lasciar intravedere un solco scuro alla base. Ventre teso, gambe lunghe e ben modellate con cui circondarti il bacino nell’impeto della passione, labbra piene a sorriderti lascive, tutte da mordere.
Insomma, una donna da scoparsi contro il muro.
Da prendere senza passare dal “Via”.
E invece la persona che sta in piedi sull’uscio di casa tua non è molto alta (il che equivale ad usare un eufemismo: ti arriverà a malapena alla spalla), non indossa vestiti attillati e non porta trucco pesante.
Anzi di trucco non ne porta affatto.
Resta immobile a fissarti sulla porta in attesa di un segnale d’assenso che se fosse per te non arriverebbe mai, stringendosi in un lungo cappotto rosso troppo grande.
Serra le braccia in una stretta decisa, afferrandosi i gomiti con le mani guantate fino a penetrare forte il tessuto con le dita magre, sottili, e tu non riesci proprio a capirne il motivo.
Fuori non fa freddo.
E’ estate inoltrata, con quell’afa umida e capricciosa che non lascia scampo neppure a notte fonda. Tu hai fatto una doccia solo qualche ora fa e già goccioli, mentre la persona davanti a te no.
Non ha paura di te, e lo sai.
Tu sei soltanto uno dei tanti sfigati che aprono la porta: patetici individui che hanno deciso di regalarsi una serata senza la solita, triste sega solitaria sulla poltrona.
Non è neppure a disagio.
La cosa strana, però, è che ti importi qualcosa.
Non è per niente quello che ti eri aspettato.
Niente sorrisi lascivi o sguardi seducenti.
E anche se non sei un dottore sei sicuro che di seno ce ne deve essere davvero pochino sotto quei vestiti enormi, dal momento che la persona che ti è stata mandata non è nemmeno una ragazza.
E allora guardi il giovane come se lo vedessi per la prima volta, sgranando gli occhi in un impeto di realizzazione che ti colpisce come una martellata alle parti basse, e pensi che deve esserci senz’altro un errore.
Forse è il figlio dei vicini che cerca il gatto scappato di casa.
Forse si è perso o cerca l’elemosina.
Ma sono tutte cazzate per metterti a posto la coscienza in quel primo istante di stupore atterrito, e tu lo sai. Non hai nemmeno bisogno di vedergli quel sorriso gentile, studiato, che lascia trapelare solo un po’ di giovanile impazienza. Basta guardarlo per scorgere in lui una placida consapevolezza. Basta quello a far cadere in te ogni residuo di dubbio che avresti anche potuto avere se fossi stato solo un po’ più idealista.
Ma non hai più diciassette anni.
Sai come vanno queste cose, lo sa anche lui.
Glielo leggi negli occhi che si ostina a tenere bassi contro il tuo petto.
E sei sorpreso di non aver inorridito come avresti dovuto.
Sei solo un po’ sorpreso, niente di più.
Ti ritrovi persino a trovarlo carino.
Ma lo dici lo stesso.
“Scusami, ma credo ci sia stato un errore.”
Perché è giusto dire così.
Non perché ti va.
E’ solo giusto.
E lui ti guarda in silenzio, in attesa.
Forse si augura che scherzi. Forse non parla la tua lingua.
“Sai, un errore.”, borbotti passandoti una mano tra i capelli come non facevi dai tempi dell’Accademia. Tempi che di fronte a quel ragazzino non ti sono mai sembrati più lontani. Cerchi di scandire piano le parole. “Mi capisci? E-r-r-o-r-e.”
“Certo che capisco, non sono s-t-u-p-i-d-o.”, ti dice lui senza riuscire a trattenere quella nota ironica nella voce a fine frase e neppure quella fugace alzata d’occhi al cielo. Piega un po’ la testa di lato mostrando sfacciatamente il collo in una mossa che, se fossi interessato all’articolo almeno un po’, troveresti decisamente erotica.
Ma non sei così disperato da farti arrapare dai mocciosi!
“Vorrei solo sapere che tipo di errore c’è stato. In fretta, se non le è di troppo disturbo, perché farmi passare tutta la notte su questo pianerottolo le costerebbe parecchio.”
Posso permettermelo microbo, pensi, e senza un motivo preciso ti ritrovi irritato al punto che per un secondo te lo trascineresti in casa anche se lui non fosse quello che è e non volesse, e lo terresti premuto sotto di te per un giorno intero solo per fargli rimangiare quelle parole arroganti.
Il rivolgersi a te in maniera insolitamente formale per uno del suo genere dandoti del lei, unito a quel sottile sarcasmo che gli impregna lingua e palato, sa talmente tanto di presa per il culo che ti viene solo voglia di mettertelo sulle ginocchia e sculacciarlo fino a farti male alla mano.
Ma è una puttana, ti ricordi.
Probabilmente non aspetta che quello.
L’idea ti fa scivolare di dosso la rabbia come gocce d’olio.
Adesso resta solo il dispiacere.
“Scusami.”
Forse ti dispiace davvero.
Balbetti, non l’hai mai fatto, e gesticoli troppo.
“E’ solo che non ho chiesto questo. Tu sei un po’ troppo...”
“... Maschio?”, ti aiuta lui sollevando appena un sopracciglio.
“Sì, ma non per colpa tua!”, esclami mettendo le mani avanti, e quando lo senti ridacchiare, di una risata allegra e acuta da bimbo, ti senti davvero un coglione. E sei certo che siete sulla stessa lunghezza d’onda in quel momento, che pensa la stessa cosa. “Non voglio offenderti, ma...”
“... Ma cercava una donna.”
Sembra che ci trovi gusto nell’interromperti.
E ti ritrovi ad annuire in silenzio, con la convinzione di essere tu il più giovane tra voi due, adesso.
“Non si preoccupi.”
Ti capisce più del Tenente Hawkeye.
Ma lo sai, vero, che è stato addestrato a dire così?
Che in realtà di te e delle tue scuse non potrebbe fottersene di meno?
Si, lo sai, ma preferisci ignorare. Ti bei della sua comprensione.
In fondo paghi anche per quello.
“Devono aver fatto casino con le telefonate.”, ti spiega, poi scuote la testa affranto. “Adam è un idiota.”
“Mi dispiace.”
Perché ti stai scusando?
Sembra chiederselo anche lui.
Ti guarda un po’ perplesso, ora. “Non è mica colpa sua.”
Ma ti sorride lo stesso, comprensivo, e per la prima volta non ti viene voglia di prenderlo a sberle.
Anzi ti fa tenerezza.
E questo ti fa sentire colpevole.
Perché è troppo giovane. Perché volevi una ragazza.
Perché non ti sta facendo pesare per nulla la cosa anche se la colpa non è sua. Ma non è nemmeno tua, te l’ha detto anche lui. E’ tutta colpa di quell’idiota di Adam che nemmeno conosci ma senti di odiare un po’ anche tu per il casino che ha combinato.
E lui sembra leggerti il disagio addosso.
Ce l’hai appiccicato alla fronte assieme al sudore.
“Non deve preoccuparsi di nulla, signore, le faccio mandare subito una ragazza. Dovrà solo pazientare un po’...” Si allunga verso di te e istintivamente ti fai indietro, scoprendo solo quando è troppo tardi per dissimulare che voleva solo dare un’occhiata curiosa alla tua camera.
Sorride al tuo disagio.
“... Forse vuole approfittarne per accendere qualche altra candela.”
Senza attendere una tua risposta, che non sai quale potrebbe essere perché quella sua faccia da schiaffi a cui per qualche strano motivo ti sei anche un po’ affezionato ti fa venire in testa almeno dieci reazioni diverse e tutte discordi, ti gira la schiena e si dirige verso le scale.
Tu non riesci a fare a meno di guardarlo.
Ti poggi allo stipite della porta, incroci le braccia al petto e lo guardi.
E’ uscito dal personaggio che ha interpretato per te.
Ha lasciato cadere le braccia lungo i fianchi e ha ficcato a fondo le mani nelle tasche, poi ha curvato un po’ in avanti le spalle strascicando i piedi sul brutto tappeto pieno di macchie. Non è rimasta neppure una traccia di quel vago, acerbo erotismo di cui deve far mostra per lavoro.
Tiene le cosce un po’ divaricate, esasperando il movimento di fianchi e ginocchia, e fa dondolare la testa al ritmo di una canzone che ha cominciato a canticchiare sommesso. Un volgare stornello da osteria.
Adesso sembra davvero un ragazzino.
Mentre ti chiedi dove possa averli imparati raggiunge le scale e lì si ferma.
Dopo un secondo solleva le braccia tenendole perpendicolari al tronco e fa un balzello per poi atterrare due gradini più in basso con un piede, come a Saltacampana. Nell’atterraggio la caviglia gli cede e quasi cade. Riesce ad evitare un brutto capitombolo aggrappandosi all’ultimo secondo contro la ringhiera, ma questo invece di spaventarlo lo fa ridere di cuore. Sghignazza tra sé e sé come un ubriaco.
Sta bene, non c’è da preoccuparsi.
Ma tu l’hai sentito, non negarlo.
Quel clangore metallico, sonoro, quando il suo braccio ha toccato il corrimano di ferro. Lo stridio della sua caviglia. E ammettilo, prima hai sentito anche il rumore disarmonico dei suoi passi.
Non sei tipo da lasciarti sfuggire certi particolari, altrimenti non saresti già Colonnello alla tua età.
Per questo non sei riuscito a togliergli gli occhi di dosso tutto il tempo, e adesso per essere tranquillo ti basta solo una rapida occhiata da entrambi i lati del corridoio, per assicurarti che non ci sia nessuno.
Chi dovrebbe esserci a quest’ora?
“Ragazzino, aspetta un attimo”, gridi.
E senza fare pause, senza perdere un passo, lui si gira e ti viene incontro. Oltrepassa la tua soglia e entra nella stanza piena di candele che ha deriso neanche un minuto prima senza nemmeno guardarti.
Ti passa accanto e borbotta: “Non sono un ragazzino.”
In tutta sincerità dubiti che qualcuno lo vorrebbe se non lo fosse, ma prendi per buona la sua versione perché l’alternativa fa molto più schifo. Ti chiudi la porta alle spalle, assicurandoti di girare la chiave nella toppa almeno due volte e di tirare il lucchetto per via di quelle tue solite misure di sicurezza a cui non saprai mai rinunciare, lo premi contro l’uscio e ti avventi su di lui.
Ma non nel modo in cui si aspetta.
Gli sfili il cappotto dalle spalle e assieme ad ogni manica sfili i guanti dalle dita.
Lo spogli rapido, meticoloso. Con la perizia di un dottore.
Riesci a non sfiorargli la pelle una volta.
Neppure lo guardi.
Continui a fissare un punto nella porta in cui la vernice s’è cominciata a sbrecciare.
E lui se ne accorge che lo eviti: perché non è stupido, perché è dal primo momento che ha dato un’occhiata al tuo appartamento pieno di candele che ha inquadrato che tipo di ipocrita sei, uno di quelli che si scopa i ragazzini fingendo che la cosa lo riempia di ribrezzo. Perché chissà quante volte l’ha fatto lui all’inizio, quando ancora un corpo estraneo lo disgustava.
Ora ti guarda e ride del tuo imbarazzo.
“Guardi che non ho malattie.”
“Sta’ zitto.”, ringhi armeggiando con la cerniera della sua giacca, imprecando contro tutti quegli strati di vestiti.
La sua voce ti dà fastidio.
Se pensi di avere tra le mani una bambola non ti viene da vomitare per quello che stai facendo. E le bambole non parlano.
Lui scuote piano la testa e ti obbedisce.
Si vede però che muore dalla voglia di darti del cretino.
Stringe gli occhi e serra la bocca a trattenere un mugolio istintivo di dolore nel momento in cui, dopo aver armeggiato un po’ con la cintura mentre lui si toglieva la scarpe, gli tiri giù pantaloni e boxer con uno strattone un po’ troppo prepotente che gli graffia i fianchi e glieli abbassi alla caviglie.
Te lo ritrovi davanti, nudo.
Allora lo guardi trattenendo il fiato, accorgendoti solo in quel momento che lo stomaco ti è diventato delle dimensioni di una pallina di gomma.
E non sei mai stato peggio in vita tua.
Anche se te lo aspettavi.
Lo sapevi.
“Sono Automail.”
Non sei tu a dirlo.
La parola ti è rimasta incastrata in gola.
E’ lui a spiegartelo, anche se lo sai benissimo cosa sono. Solleva piano il suo braccio destro, quello che stai fissando da un minuto buono con due occhi sgranati e atterriti da pesce attaccato all’amo, per poi muovere le dita in un blando cenno di saluto per farti vedere che ha il perfetto controllo di quell’arto d’acciaio.
“Com’è successo?”, ti ritrovi a chiedere.
Lui si stringe nelle spalle. “Mah, la guerra...”, ti dice annoiato, senza una traccia d’emozione, nell’istante in cui il suo volto è così spento da dare l’impressione che dietro debba esserci molto di più. Ma sai che non te lo dirà mai, così come sai che probabilmente ha risposto a quella domanda talmente tante volte che ha davvero perso significato per lui.
Poi, d’improvviso, ride.
Come un bambino.
E come un bambino ti guarda.
“Sono molto pratici e comodi, con falangi estremamente flessibili. Quasi non sento la differenza nel momento in cui mi ficco le dita nel culo rispetto a quando me lo fanno gli altri.” E’ volutamente volgare, sa che ti mette a disagio. E mentre ti senti le orecchie bollenti, non solo per il caldo adesso, il suo sorriso si allarga e mostra i denti come un cane pronto ad azzannare al polpaccio, mentre ti fissa pericolosamente in basso. “E poi molti clienti trovano molto più soddisfacente una sega fatta con questa.”
Parla di quelle cose senza tracce di vergogna o umiliazione nella voce. Al di là della presa in giro, ti sta solo mettendo al corrente di un fatto.
Puoi usufruire di un ottimo servizio.
Ma tu non riesci nemmeno a rispondergli.
Prima provavi solo un indistinto senso di pietà.
Mentre lo spogliavi, rabbia mista a interesse morboso.
Adesso nella testa ti si affollano immagini rivoltanti di ciccioni sudati e repellenti che richiedono proprio questo ragazzino, di cui nemmeno sai il nome, per via della sua menomazione. Che lo spingono sopra alle coperte e lo schiacciano sotto il loro flaccidume grugnendo come bestie. Che si fanno toccare l’uccello dall’acciaio.
Tu non sei grasso e neppure repellente, anche se ti manca un po’ di quella sana modestia che a tuo avviso non ti porterebbe mai da nessuna parte, ma adesso lui ti vede esattamente come loro e, Dio, questo vale anche per te. Perché la cosa migliore da fare, la più giusta, sarebbe ridargli indietro i suoi vestiti, scusarti con lui e farlo uscire da quella porta senza fare altro.
Dovresti anche pagarlo per il disturbo.
A costo di umiliarlo, dovresti cacciarlo e tornare a dormire.
Ma la verità è che questi arti d’acciaio imperfetti ti affascinano da morire, perché hai sempre pensato che le cose più belle di questo mondo fossero quelle difettose.
“Posso farle tutto quello che vuole senza alcun problema, non le farò male.”, continua lui, e a riprova delle sue parole allunga il braccio verso di te sfiorandoti il collo là dove l’incavo della laringe fa capolino dalla camicia coi polpastrelli di metallo, in un tocco così lieve da farlo sembrare uno scherzo dell’immaginazione. E il contrasto tra il metallo e la tua pelle accaldata non è affatto come te lo aspettavi.
E’ così piacevole che ti senti in colpa.
Chiudi gli occhi e ti abbandoni al tocco, piegando la testa di lato di modo che abbia più facile accesso alla tua pelle.
Una mano è una mano.
“Visto?”, ti dice lui, e non hai bisogno di guardarlo per immaginargli sul viso quel suo sorrisetto saccente. “E’ bello, no?”, aggiunge, e la mano scivola lungo il tendine, dietro la nuca.
Altrochè.
E’ bravo, cazzo.
Un professionista.
Tu invece sei uno schifoso.
Tutte quelle belle parole moraleggianti...
Ti piace e ti stai eccitando, inutile che lo neghi.
Per un momento pensi persino di lasciarti andare.
Ma sei un adulto e sei perfettamente in grado di controllare le tue pulsioni, anche se ogni secondo che passa senti la tua risolutezza farsi sempre più labile. Per questo scatti prima che si infranga del tutto sotto la pressione di quelle dita leggere: spalanchi gli occhi e sollevi una mano ad afferrargli il polso talmente all’improvviso da farlo sobbalzare un po’ all’indietro contro la porta.
E diventi incapace di respirare.
Ti sembra che il cuore salti un battito.
L’acciaio lucido sembra pulsare alla tua stretta.
Poi, piano, allenti la presa, ma non lo lasci andare come ti sta gridando la tua testa: lasci scorrere su, in alto, verso l’incavo del gomito. Glielo fai piegare e non hai nemmeno bisogno di forzarlo, quel docile pezzo d’argilla. Sali ancora, ti aspetti di sentire il bicipite tendersi sotto il braccio fino alla spalla, dove termina il metallo, ma non osi andare nel punto in cui comincia la carne.
“Sembra che anche a lei eccitino queste cose. Chi l’avrebbe mai detto?”, sospira divertito. E’ come se l’idea di aver scoperto il pervertito che si nascondeva in te lo riempisse d’orgoglio.
Tu non gli rispondi.
E’ così difficile tacere per te?, pensi.
Aggrotti la fronte e gli tappi la bocca con una mano.
L’altra continua imperterrita quei suoi sfioramenti devoti.
Senti sotto il palmo ogni giuntura, ogni vite, ogni pezzo di metallo.
Poi premi quella piastra che gli copre il petto, sopra la clavicola, e lo senti sobbalzare con un singulto.
Subito ti blocchi.
Ti fissano occhi intelligibili.
Devi per forza lasciarlo parlare.
“Ragazzino, ti sto facendo male?”
Lo vedi scuotere la testa in segno di diniego.
“Non sono un ragazzino.”, brontola imbronciato. “E non sento niente.”
Per dare risalto alla sua affermazione batte il pugno un paio di volte contro l’avambraccio, che suona a vuoto.
E tu lo sai, sai che quel gesto serve soltanto a rassicurarti che con lui e col suo Automail puoi fare quello che vuoi, ma invece di sentirti alleggerito vorresti piangere. Lui sembra notare il tuo disagio, perché con la mano buona percorre la linea della mascella e, dopo averti preso il mento tra l’indice e il pollice costringendoti a guardarlo, ti sorride.
“Guardi che non c’è niente di male ad eccitarsi con queste cose.”
Poi recupera la faccia tosta che lo contraddistingue: quella che se vedessi in faccia a una qualsiasi delle tue donne te la farebbe sbattere fuori di casa in un secondo, ma che sul suo viso ti sembra così giusta. Quella di cui ormai senti di non poter più fare a meno. “Certo, è una perversione un po’ atipica, e lei è senza dubbio un depravato, ma il suo segreto con me è al sicuro, caro Colonnello.”
Non fai caso alla frecciata sul maniaco.
Sbatti le ciglia incredulo e lo fissi.
“E tu come fai a saperlo?”
“Che è un maniaco? Esperienza, direi.”
“Che sono un Colonnello!”, sbotti innervosito.
Ma lo sa che intendi, ti prende in giro come al solito.
Sghignazza in maniera volutamente irritante e ti fissa dritto negli occhi perché sia chiaro che la tua rabbia, quella che fa pisciare nei pantaloni i tuoi adulti e vaccinati sottoposti, non lo tocca neanche un po’.
“Siete sempre soldati; ho un sesto senso; questo tipo di perversioni sono tipiche dei Colonnelli. Sono tutti motivi validi, scelga quello che preferisce. Ma se fossi in lei opterei per la quarta alternativa.”, dice con fare complice, stringendo gli occhi e allungandosi verso di te. Poi indica qualcosa alle tue spalle con un cenno del capo. “Se si vuole mantenere l’anonimato non è saggio lasciare in giro la giacca della divisa.”
Lanci un’occhiata oltre la spalla ed eccola lì in bella mostra.
Poggiata sullo schienale del tuo brutto divano.
Soffochi un’imprecazione tra i denti.
Sono i piccoli errori a fotterti.
E’ sempre così.
Ma lui ride ancora.
Di gusto, mostrando i denti.
Per lui è una distrazione da poco.
E ti sorprendi a trovarlo spassoso anche tu.
Te lo meriti proprio, sei stato un vero coglione.
Ti pieghi contro di lui e scuoti le spalle divertito.
I suoi capelli ti fanno il solletico contro le guance e il naso.
Perché ha i capelli lunghi, te n’eri accorto?
Li tiene raccolti in una treccia.
Una chioma biondo scuro e lucido, folta, splendente e sana. Da un lato li attraversa una scia di luce riflessa di una candela poco distante che li tinge di bianco, e di un caldo arancione rossiccio.
Da quanto non vedi capelli così?
Ne inspiri l’odore e ti ritrovi a tremare.
Dio, basterebbe allungare le mani: potresti stringerli tra le dita e farci tutto quello che vuoi. Potresti avere tutto di lui a un cenno, e te ne sarebbe grato.
Perché quello non è una scolaretta con la gonna corta a pieghe che mangia un gelato per la strada. Non è nemmeno una ragazza. Con lui non è una di quelle situazioni in cui guarderesti da lontano e penseresti “Merda, se solo fosse legale” per poi scuotere la testa e non pensarci più: perché è illegale ed è inutile arrovellarcisi sopra più di tanto, perché puoi averne altre dieci gratis e senza rischio di finire processato, e perché qualunque cosa vorresti farci sei in pubblico e non puoi.
Questa volta è un maschio.
Nient’altro che una puttana irritante.
Siete in casa tua, lontano da occhi indiscreti.
Ce l’hai nudo davanti senza neanche il pudore per coprirsi.
Puoi averlo. E’ tuo, se paghi. Puoi fargli tutto quello che vuoi: mettergli le mani sul corpo, la lingua in bocca, e poi l’uccello dentro. Insinuarti in quella stretta fessura, premerti a fondo contro le sue natiche, con le unghie ad artigliargli il bacino fino a far uscire il sangue e la sensazione di freddo del suo Automail contro l’esterno della gamba. E lo immagini a stringere le lenzuola tra i pugni tremanti mentre ti viene incontro al ritmo dei tuoi affondi, mentre preme la fronte contro gli avambracci, mentre geme e sospira il tuo nome, mentre piega la testa di lato per scostarsi dalla faccia una ciocca sudata. Mentre ti guarda di sbieco da sopra la spalla, ti fissa negli occhi e dice: “Scopami.”
Con quella bocca impudente.
Con la sua parlata rozza.
Ha smesso di ridere.
Aspetta solo te.
E’ mio.
E ti piace.
Ti piace da impazzire.
Non l’avresti mai creduto possibile.

*

Sei condannato all’inferno.
E’ giovane, dannazione. Non è un ragazzino e vuoi credergli, ma resta comunque troppo giovane per un uomo della tua età. Dio, è così inconsapevole del fascino che esercita su di te da lasciarti senza respiro.
Gli hai stretto l’Automail tutto il tempo.
Se fosse stata l’altra mano probabilmente gli avresti fatto male.
Senza dire una parola ti sei staccato dall’uscio e te lo sei trascinato dietro lasciandolo incespicare con malagrazia nei suoi pantaloni, che ad un certo punto sono finiti da qualche parte sul pavimento della sala.
Sei entrato in camera aprendo la porta con una spallata e l’hai buttato sul letto con uno spintone che l’ha rovesciato all’indietro. Per poco non ha battuto la nuca contro la testiera di legno, o forse si è fatto male a giudicare dal modo con cui si sfrega il capo sibilando di dolore. Ma a te, in questo preciso momento, non potrebbe fregare di meno.
Lo osservi sdraiato sulle coperte, le cosce divaricate appena.
Si puntella sul gomito d’acciaio, ti fissa imbronciato.
Mentre gli spalanchi le gambe e gli balzi addosso schiacciandolo con il tuo peso d’adulto non sai più se questo è un bene o un male.
E decidi che forse è entrambe le cose. Perché non è come se avessi un uomo tra le braccia, altrimenti non faresti nulla di tutto questo: in vita tua tu non sei mai stato attratto dal tuo stesso sesso neppure negli anni delle prime imbarazzanti pulsioni giovanili, quando tutti i tuoi compagni di dormitorio erano uomini e non avevi ancora stretto a te una ragazza.
Ma poi pensi che se non è un uomo, e ovviamente non è una donna, allora cos’è?
Un bambino.
E questo fa di te un mostro disgustoso.
Scacci quel pensiero premendo i tuoi fianchi contro i suoi in una forte spinta che gli strappa un gemito. Sei duro come non mai e lui neanche un po’, e non sei sicuro che sfregargli il tessuto ruvido dei tuoi pantaloni contro l’inguine possa aiutarlo a trovare la voglia. Ma adesso è il pensiero che meno ti preme.
Quanti anni avrà, ti chiedi, quindici?
Sedici al massimo.
Questo ragazzo è illegale.
Illegale è quella parola che ti obbliga a controllare il tuo desiderio, a tenertelo nei pantaloni a costo di farti scoppiare i testicoli, perché se qualcuno immaginasse quello che c’è nella tua testa ti rinchiuderebbe a vita.
Non è sbagliato volerlo. E’ “illegale”.
Con quella parola ancora sulle labbra che preme per superare la barriera dei denti lo sguardo ti casca sull’incavo delle clavicole, e ti sorprendi a pensare a come il sudore si raccoglierebbe in maniera disomogenea nell’incavo sinistro rispetto al destro, semicoperto dall’Automail che tanto t’ossessiona.
Sospiri e ti chini su di lui.
Gli sfiori gentile il pomo d’Adamo, e quando te lo senti muovere appena sotto le labbra tremi. Perché con le donne non potresti mai sentirlo con tanta definitezza. Perché sotto di te non c’è una donna.
Cominci a succhiarlo, piano.
E ti vengono in mente le parole del tuo maestro.
“Meglio frocio che Cane dell’Esercito.”, ti diceva sempre.
Quando credevi che i suoi non fossero altro che pregiudizi da vecchio.
Ti chiedi come reagirebbe adesso all’ironia della situazione.
Un allievo Cane dell’Esercito E frocio.
Sei condannato all’inferno.
Te lo ripeti ancora.
E ancora.
Perché tu ne sia consapevole.
Altrimenti non saresti meglio di uno di quegli uomini che hai sempre guardato con ribrezzo dall’alto di una morale che credevi invincibile e adesso ti si sfalda tra le dita come oro fuso, e ti rendi conto mentre la pensi che questa metafora è una delle più idiote che potrebbero mai venire in mente a un uomo durante preliminari decisamente poco romantici, ma è quello che ti ricorda la treccia che hai appena sciolto.
I capelli biondi si irradiano sul guanciale, belli come li avevi immaginati, e mentre li contempli un singulto si leva dalle sue labbra.
Chissà per quanti altri geme così.
Tu sei diverso, gridi dentro di te mentre gli afferri i capelli in un impeto cieco piegandogli la testa di lato in un angolo anomalo per affondare il viso nel suo collo là dove si protende la giugulare, e conficcarvi i denti.
E mordi.
Mordi quando lui ti fa capire che non vuole, non gli piace, anche se non ti scansa ma si limita a scalciare a vuoto più volte e a premere il palmo d’acciaio contro la camicia in una spinta fiacca. Potrebbe mandarti contro il muro dall’altra parte della stanza con un pugno se volesse metterci solo metà della forza.
Mordi quando dopo quella flebile ribellione si ricorda che è solo una puttana e non ha voce in capitolo. Quando si abbandona docile ai tuoi assalti lasciandosi sfuggire solo qualche mugolio dalle labbra serrate in una linea esangue.
Mordi fino a lasciargli sulla pelle il tuo marchio, e pensi che se potessi gli imprimeresti tutto te stesso a fuoco nella carne viva, perché non ti basta che possa essere tuo solo per quel poco che pagherai.
Vuoi che sia tuo sempre.
Perché tu sei diverso dagli altri.
Se lo ripeti tante volte forse ci crederai.
Non ti accontenti di questo. Vuoi che te lo dica.
Potresti costringerlo: afferrarlo per le spalle, ordinargli di dire quelle esatte parole e lui ti obbedirebbe senza esitare nemmeno per un secondo, risultando persino convincente se hai inquadrato bene che tipo è. Ma sarebbe una squallida bugia e non potresti mai accettare qualcosa di fasullo. Vuoi piacergli davvero.
Abbandoni la sua pelle con un gemito, hai ancora il suo sapore sulle labbra: un sapore buono di pulito, senza alcun profumo artificiale ad interporsi tra lui e la tua lingua. C’è un vago retrogusto metallico che ti invade il palato, di quando gli hai lambito un istante l’Automail.
E’ maggiorenne, ti rassicuri.
Di sicuro lo vogliono per il suo aspetto, ma è adulto.
Ci vorrebbe così poco a chiedere, ma non ti vengono le parole.
Lo guardi dall’alto con gli occhi che luccicano, quel corpo docile che si solleva sui gomiti e ti guarda come stranito, quel petto che si solleva rapido in pesanti ansimi, quelle labbra socchiuse da cui fa capolino la lingua umida, i capelli appiccicati sulla pelle, e ti trovi a pensare che questo ragazzo forse è giovane davvero o forse è il suo aspetto che trae in inganno, ma in fondo che importa?
Se l’hanno mandato di sicuro non è illegale.
E poi che significa giovane?
Per i criteri di chi?
Duecento anni fa sarebbe stato già padre. Cinquecento, e sarebbe stato considerato già vecchio. Mille anni prima avrebbe potuto essere persino più giovane e sarebbe stato normale per uomini come lui possederlo.
Sulla pelle chiara percorsa da cicatrici grandi e piccole ci sono i segni rossi dei tuoi morsi, e devi combattere per non infierire sulla carne martoriata.
Invece ti chini su di lui e gli baci piano il petto.
Vi guardate negli occhi e tu gli sorridi.
Dio, non cambierebbe nulla ormai.
Sei perduto.
“Colonnello...”, tenta di dire incerto, ma quando gli prendi un capezzolo tra i denti e mordi più forte del necessario tace.
E non sai nemmeno cosa volesse dirti.
Non sai nemmeno se ti piace che ti chiami così.
Colonnello è così formale e chissà quanti ne ha avuti tra le braccia, di tipi come te.
Discendi gentile lungo la linea definita degli addominali.
Ad ogni bacio ti abbandona un indugio.
Ad ogni sospiro un pensiero.
Quando alla fine arrivi all’addome, coi suoi gemiti studiati a scandire il tempo, sai solo che vuoi sbranarlo.
Che non ti sazieresti mai di lui.
Che gli succhieresti l’uccello per ore.
E la cosa non ti sembra strana neanche un po’.
Eppure non sei mai stato un fanatico del sesso orale.
Con le tue donne l’hai sempre fatto solo per educazione. Lei te lo leccava, e tu per correttezza gliela leccavi, oppure tu volevi che lei te lo leccasse e la convincevi premendogli il viso tra le gambe. Non è che ti faccia ribrezzo, anzi, a volte sei riuscito persino a trovarlo piacevole e raramente appagante. Una volta forse sei stato addirittura sincero quando, guardandola negli occhi dopo, ti sei dichiarato contento di averle fatto raggiungere l’orgasmo così.
E’ che non sei mai stato eccitato come adesso.
Pensi solo a come deve essere averlo nella tua bocca.
Gli premi una mano contro il petto per farlo sdraiare completamente sul letto, gli allarghi le braccia e attiri il bacino verso di te. E’ così piccolo che non fatichi a sollevarlo nonostante la pesante protesi di metallo; in una mano riesci a prendergli agevolmente la coscia e il culo senza fatica, mentre l’altra si avvinghia all’incavo del ginocchio. Tiri, e sotto le dita senti la pelle così lucida da far concorrenza all’acciaio che riflette la luce rossastra delle candele.
Hai la chiara percezione dei tuoi palmi callosi che gli graffiano la pelle, delle tue guance ispide che gli raspano la gamba destra. E’ strano, ma in quel momento hai una paura fottuta di fargli male, così gli allarghi ancora di più le gambe, finchè non ti sembra fisicamente impossibile farlo di più. Guardi stupito i tendini dell’interno delle cosce guizzare all’infuori come cavi elettrici. Ne segui il percorso verso il tronco, dove si unisce al bacino e il sesso incontra le natiche.
Non sei stupito di non trovarlo eccitato.
Non lo state facendo per amore.
Ma ti ferisce comunque.
Lo tieni contro di te circondandogli i fianchi con un braccio e con l’altro gli prendi in mano il sesso, lasciando che le tue dita indugino prima sui testicoli finchè non gli strappi un gemito.
Lo soppesi per un po’, incerto sul da farsi.
Poi, con delicatezza e attenzione, tiri indietro la pelle del prepuzio con l’indice e il pollice svelando il glande di un lucido rosa chiaro. Le tue dita, quelle che hanno fatto vibrare di piacere più di una donna, ora ti sembrano solo goffe ed enormi.
Rivoltanti.
Per un attimo lo guardi spalancato sotto di te, ma subito gli risali il corpo. Lui se ne sta completamente immobile, col bacino premuto contro la tua bocca, le gambe sollevate da terra, gli addominali tesi e il petto incavato tra le spalle. Tiene le labbra serrate tra i denti, le mani premute a forza sugli occhi, ed è il riflesso delle candele quello sulle guance o sta arrossendo?
E’ debole e innocente.
Per un attimo non c’è che tenerezza.
Cali la bocca su di lui con un sospiro compiaciuto.
Per un attimo ti chiedi cosa facciano all’inferno a tipi come te. Se c’è un posto per voi o se siate troppo deplorevoli persino per loro.
Poi lo senti gemere.
E ti perdi.
All’improvviso lui ti dà un colpetto sulla spalla con la mano d’acciaio. Ti dà un colpetto sulla spalla di quelli sbrigativi e un po’ dolorosi che si riservano ai tizi in fila davanti a te che arrivati alla cassa ancora non hanno deciso cosa prendere, o a quelli che alla stazione ti scavalcano “solo per chiedere un’informazione” e poi, tra una discussione sul prezzo e una sulle condizioni disastrose del trasporto pubblico, ti fanno perdere il treno. Le tipologie umane di cui si dovrebbe consentire l’omicidio brutale in una società davvero civile.
Alzi lo sguardo verso di lui.
Le tue brutte dita affondano nella peluria morbida.
“Si sbrighi a scoparmi o dovrà pagarmi il doppio.” Te lo dice nel suo solito modo rude e sbrigativo. “Le rimane un quarto d’ora, dovrebbe bastare.”
Guardi al tuo fianco, sul comodino su cui ancora svetta il tuo orologio d’argento e vorresti solo dirgli che non è possibile, proprio non può essere possibile che tu gli abbia tenuto l’uccello in bocca per più di mezzora. Che è un bugiardo. Forse potresti persino gridargli addosso se non avesse maledettamente ragione.
Hai perso completamente il senso del tempo.
Lui no. E’ il suo lavoro riportarti alla realtà.
La cosa non dovrebbe sorprenderti.
Né ferirti.
Le tue labbra abbandonano il suo sesso quasi del tutto teso, e ti scopri a pensare per un momento che manca poco e che ormai è una questione di principio, che sei sempre stato un tipo risoluto e che non la smetterai finchè non sentirai il sapore del suo seme sulla lingua e il suo corpo contorcersi sotto di te in preda all’orgasmo come un foglio di carta divorato dalle fiamme.
Ma non lo paghi per questo.
Non vuole che tu lo faccia stare bene.
Vuole solo che ti prenda quello che devi.
E chi sei tu per deluderlo, questo ragazzino indisponente?
Ti basta lasciargli andare i fianchi, che crollano sul letto con un tonfo sordo, per farlo girare su se stesso, ed eccolo subito a quattro zampe per te, a spingere il culo in alto più che può e a premere spalle e clavicole contro il materasso. I capelli si raccolgono tra le scapole o scivolano in avanti e tu ne osservi ogni disegno sulla pelle, ogni gioco di luce.
Si gira verso di te.
“Ha del lubrificante?”, ti chiede con fare pratico. “Se non ne ha lo vado a prendere, lo tengo nella tasca del cappotto.”
“Sai? Hai il dono di uccidere tutta la poesia ogni volta che apri bocca.”
Lo vedi stringersi nelle spalle, come se non possa farci proprio niente. E tu sai che la sua domanda è stata corretta e più che legittima. Perché, e non te lo ripeterai mai abbastanza, non hai a che fare con una donna stavolta, e per quanto possa essere allenato non puoi pretendere di penetrarlo a secco o che basti un po’ di sputo. Non vuoi fargli male e non vuoi farti male nemmeno tu.
Ma non puoi fare a meno di irritarti.
Con un gesto stizzito ti allunghi su di lui e apri il cassetto del comodino, per poi estrarne una bottiglietta contenente un liquido trasparente vuota per metà che gli agiti un paio di volte davanti al naso.
“Contento?”
“Molto.”, ride lui.
E ti sorprendi a preoccuparti di quello che potrebbe pensare alla vista di quella boccetta. Che non è la prima volta che fai cose del genere, che prima hai fatto tutte quelle scene solo per qualche specie di gioco erotico perverso dei tuoi. La cosa ti infastidisce da morire. Per questo mentre ti sbottoni i pantaloni e te li cali lungo i fianchi assieme alle mutande, ti senti in dovere di specificare che tu quello lo usi con le donne.
“Mi avrebbe sorpreso il contrario. Si vede che è la prima volta.”, ti risponde con fare di circostanza mentre divarica un po’ le gambe e si sistema il cuscino sotto al viso in una posizione più comoda. “Quando mi tocca sembra terrorizzato.”
Ed è vero.
Lo sai che è vero.
Ma sentirglielo dire è strano e ti fa sentire un po’ stupido.
Non sei più quel tredicenne incapace che tremava quando una ragazza gli permetteva di mettergli le dita sotto al reggiseno. Sei un uomo maturo che sa quello che fa, il tipo che hai di fronte lo sa forse meglio di te e non c’è bisogno di essere così accorti, ti ripeti mentre ti versi sulle dita una quantità abbondante di liquido e ti accarezzi piano per un paio di volte. Il necessario.
Sei già duro all’inverosimile.
Un tocco più deciso ed esploderai.
Mentre ti accingi a penetrarlo con le dita, per prepararlo, con gli occhi segui la curva della sua schiena, il solco della spina dorsale, ogni morbido rilievo delle vertebre, risali ogni solco finchè non arrivi alle reni, dove il tutto si affossa nel solco delle natiche. Le tue dita scostano la carne soda e di nuovo sei sopraffatto dal desiderio di averlo nella tua bocca.
Senza rendertene conto ti sorprendi a leccargli l’ano.
“Sbrigati!”, grida lui sotto di te. “Scopami!”
Quella confidenza ti fa quasi venire.
Come la sua impazienza.
Ti spingi dentro di lui con un unico movimento fluido e cominci ad entrare e uscire con forza, premendo più forte e più a fondo. Ad ogni colpo lo senti rispondere con uno strillo acuto da ragazza. Non sai dire se è il dolore o il piacere a fargli contrarre a quel modo i muscoli attorno al tuo sesso, e finisci col decidere che probabilmente si tratta di entrambe le cose.
“Colonnello!”, grida.
Tu storci le labbra disgustato dal tuo titolo.
Ti curvi su di lui con tutto il tuo peso strappandogli un grugnito, gli premi la bocca contro l’orecchio e gli sussurri: “Mi chiamo Roy.”
Ed è così che ti chiama adesso.
Ancora e ancora.
Roy.
Un nome pronunciato non tra acuti e vibranti gemiti di piacere, ma ringhiato roco contro la stoffa del guanciale.
Ha il sapore di un insulto.
Ed è come gettare benzina sul fuoco.
Lo afferri con le unghie e spingi più forte che puoi.
La paura di poterlo rompere, di schiacciargli la cassa toracica contro le coperte, di esercitare troppa pressione sui suoi Automail, di lasciargli una cicatrice sul fianco mentre gli conficchi dentro le dita, di strappargli i capelli mentre gli pieghi la testa di lato per affondare di nuovo i denti sul suo collo, si fa sempre più vago timore finché, dopo quelli che non ti sembrano più di una decina di affondi, vieni e crolli esausto su di lui.

*

Rimani immobile a guardare il soffitto.
L’orologio sul comodino segna le tre passate.
Non c’è proprio possibilità che a questo punto tu possa sperare di dormire. In genere dopo l’orgasmo crolli come uno straccio bagnato, ma sei così sopraffatto dalle sensazioni che potresti persino andare alla scrivania e fare il lavoro di una settimana.
A ripensare a prima ti senti un vecchio.
Gli sei caduto addosso di peso e le sue gambe hanno ceduto, facendovi scivolare entrambi sulle coperte. Hai poggiato la testa troppo pesante per essere sorretta dal collo accanto alla sua, sul cuscino, e hai cercato di recuperare il respiro in lunghi e profondi ansimi sincronizzati ai suoi più controllati.
L’hai guardato e lui ha guardato te, col tuo sesso ancora dentro, con il braccio ancora stretto davanti alla sua bocca e l’Automail ad artigliare sotto il cuscino. Probabilmente durante l’amplesso ha stretto così forte da strapparti le lenzuola, ma non potrebbe fregartene di meno.
Neppure adesso.
Ti ha lasciato dentro di lui per qualche secondo, finchè non hai smesso di tremare e il tuo respiro non si è fatto più controllato.
Poi, lanciata un’altra fugace occhiata all’orologio, ti ha fatto uscire con attenzione prendendoti il sesso esausto almeno quanto te tra le mani; si è pulito le dita sulla coperta e con una lieve pressione del fianco ti ha fatto rotolare di lato.
Sei rimasto immobile come una bambola anche mentre si è alzato in piedi, e quando è andato in bagno a darsi una pulita.
Ti ha trovato lì al suo ritorno.
Era ancora nudo.
Ti ha guardato piegando un po’ la bocca in un sorriso che ti sembra intenerito, come se tu fossi un qualche patetico anziano infiacchito e lui non volesse darti disturbo, ma dovesse farlo.
E ti aspetti che dica che è stato bellissimo.
Che nessuno l’ha mai fatto come te.
Che ti ricorderà per sempre.
Invece dice soltanto:
“Devo andare.”
Ti sei tirato sui gomiti un po’ a fatica, combattendo contro la delusione che ti si era incastrata nella gola come un groppo, e hai preso il portafogli dal diretto tirandone fuori l’equivalente in moneta di una cena elegante, un cinema e forse anche un mazzo di fiori di media grandezza per far bella figura con la signora di turno.
Ti sorprendi del sorriso smargiasso che gli rivolgi.
E delle tue parole.
“Ti pagherò il doppio se resti.”
Rimane a guardati solo un momento.
Forse pensa che tu lo stia prendendo in giro.
Per lui quella deve rappresentare una piccola fortuna.
Poi si avvicina a te a grandi passi decisi e te li strappa dalle mani senza troppe cerimonie, prima che tu possa cambiare idea. Ti volta le spalle e si dirige verso la sala dicendo solo: “Vado a prendere i miei vestiti.”
E tu aspetti.
Stai aspettando da almeno mezz’ora ma lui ancora non torna, al punto che cominci a farti strane paranoie su lui che prende e fugge nella notte col suo piccolo bottino, anche se la porta è chiusa e non hai sentito il clic del chiavistello, e sarebbe idiota gettarsi dalla finestra dal momento che sei al terzo piano e la parete del palazzo è liscia come il retro di una medaglia.
E ti stanchi di aspettare.
Quanto ci vuole a mettersi due stracci?
Ti alzi in piedi con la prontezza di mente di allacciarti i pantaloni, anche se ti lasci i capelli scompigliati e la camicia per metà in fuori. Imperdonabili trascuratezze che non faresti vedere mai neppure a tua madre.
Entri nel salotto semibuio, all’apparenza deserto.
Ma vicino alla porta noti ancora il mucchio informe dei suoi vestiti, per cui deve essere per forza lì da qualche parte. Fai qualche passo verso il camino e per poco non gli inciampi addosso.
“Ragazzino, che fai?”
Ma lui nemmeno ti risponde.
Non è che ti stia ignorando. Non ti sente.
Ti accucci al suo fianco poggiando il peso sui talloni, e lo osservi sdraiato sullo stomaco, col mento sugli avambracci e il naso ficcato in uno dei libri che hai volutamente lasciato sul tavolo. Ti sporgi sulla sua spalla e riconosci quel tomo a una prima occhiata: è roba piuttosto difficile che lasci in giro solo per darti un contegno con gli ospiti occasionali e farti fare complimenti per la tua grande cultura.
La maggior parte della gente non sa nemmeno da che parte cominciare a leggere quella serie di tracciati alchemici, e anche tu hai trovato un po’ difficoltoso affrontare il testo in certi passaggi, la prima volta. Questo ragazzino invece ne è rimasto affascinato al punto che ha dimenticato persino i soldi, che giacciono al suo fianco con noncuranza, e il tempo che passa.
Ti avvicini ancora e lo senti bofonchiare qualcosa.
Ripete tra i denti le formule alchemiche per memorizzarle.
Potresti attirare la sua attenzione con un colpo sulla spalla, come lui ha fatto con te per ricordarti del tempo. Potresti, e lo vedresti abbandonare quell’aria spavalda che ha avuto tutta la sera per rivolgerti uno sguardo impaurito e attonito. Balbetterebbe mille scuse mortificate per il suo comportamento e alla fine con ogni probabilità ti sbatterebbe in mano la metà dei soldi che gli hai dato, rassicurandoti sul fatto che per quel tempo perso non vorrebbe nulla da te.
Sarebbe una bella soddisfazione.
Invece ti alzi da lì con un grugnito e ti allontani.
Ti prendi qualcosa da bere dalla cucina, di alcolico per te perché non imparerai mai a controllarti e nemmeno ti interessa farlo: una limonata per lui nel caso in cui decida di uscire da quello stato di trance.
Posi il suo bicchiere sul basso tavolinetto accanto al divano, sorseggi il tuo e ti siedi per poi osservarlo in silenzio, affascinato.
Sei sorpreso dalla sua capacità di concentrazione.
Perché evidentemente sei convinto che le puttane, maschi o femmine che siano, debbano essere tutte oche giulive. Invece hai di fronte un esemplare piuttosto brillante, per non dire parecchio intelligente.
Forse più di te.
E sorridi.
I segni dell’infanzia non sono del tutto riusciti ad abbandonare quel corpo, e probabilmente non accadrà mai: ha gli occhi piuttosto grandi anche se adesso li stringe per mettere a fuoco le parole, ciglia lunghe e ricurve come quelle delle ragazze e sopracciglia sottili lievemente aggrottate. Le labbra sono troppo piene, il collo sottile, i fianchi stretti e piuttosto informi.
E poi non ha seno.
Non gli crescerà mai.
Tu ami da morire i seni prosperosi.
Ma, Dio, lo trovi comunque sexy da morire.
Quando si accorge di te che lo fissi hai già finito di bere da un pezzo, e non si comporta affatto come ti aspettavi. Per nulla timoroso della reazione che avresti potuto avere nel caso in cui ti fossi sentito defraudato del tuo denaro, sorride sicuro: ti dice che l’accordo non prevedeva dove sarebbe dovuto restare, che aveva detto che sarebbe andato a prendere i vestiti e non che sarebbe tornato, e tu gli dai ragione su tutto. Si solleva in ginocchio sul tappeto e allunga una mano verso di te per farsi portare il suo bicchiere. Perché “gridare a quel modo fa venire una gran sete”.
E tu glielo dai senza dire una parola.
Ti chini accanto a lui e gli scosti una ciocca di capelli che gli è scivolata davanti agli occhi, indugiando col palmo sulla guancia: lui ti osserva tranquillo e si porta il boccale alle labbra tenendolo con entrambe le mani come i bambini, continuando a lanciare occhiatine furtive alla pagina ingiallita.
Ti stupisci del modo in cui riesce a darti filo da torcere.
Persino adesso.
Perché per te dovrebbero essere tutti individui privi di amor proprio.
Degli schiavi del sesso, il cui scopo più alto è offrire piacere in cambio di denaro.
Hai di fronte a te la prova che molti sono esattamente l’opposto.
Fieri, sicuri, orgogliosi. Talmente avvezzi a cavarsela da soli e a prenderlo in quel posto, in senso letterale e metaforico, che difficilmente permettono a qualcuno di fargli mangiare merda. Men che mai a quelli che si scopano per soldi.
Non è come se contaste qualcosa per loro.
Ma tu vuoi rimanergli impresso.
Solo un pochino.
Te lo meriti.
Per questo prendi il tuo libro, quello che hai cercato per mesi nelle biblioteche e che hai potuto acquistare solo dopo mesi di disperati risparmi, quello che hai impiegato mesi a capire e assimilare, e glielo regali.
In cambio però vuoi un bacio.
E lui ti bacia.
Ti bacia sul serio.
Ti cinge con le braccia e spalanca la bocca accogliendoti dentro di sé mentre gli invadi il palato con la lingua, poi cerca di fare altrettanto con te. Non è molto bravo: il che è come dire che non è molto alto, ossia un eufemismo.
Ammettilo, è proprio pessimo.
Vuole fare troppe cose tutte insieme: toccarti, succhiarti le labbra, morderti, ficcarti la lingua in bocca fino alla gola. Un’impresa fisicamente impossibile, da romanzo erotico. Non ci riuscirebbe il più impratichito degli amatori, figurarsi quel ragazzino caotico e poco allenato.
Quei denti sono le cose più appuntite che tu abbia mai incontrato, pensi. E, dannazione, anche le più dure. Quando sbattete l’uno contro l’altro nell’impeto della passione vedi le stelle, e ti lasci scappare un’imprecazione che gli fa soffocare una risata in mezzo alle tue labbra.
Ma non smetteresti mai.
Quelli sono i baci più belli della tua vita.
Non importa che ti vengano dati solo per gratitudine o interesse.
Ti piace che si abbandoni così a te.
Questo suo modo di baciare ingenuo e rozzo, così adatto a lui, così lontano dai gesti studiati e controllati con cui ti ha sedotto, quelli che servono apposta per produrre in te un effetto particolare.
Ti sta baciando per il gusto di baciare.
Quando le vostre labbra si separano, è come la fine di un sogno.
Ma stavolta il tempo è scaduto davvero e lui deve andare.
Si alza barcollando un po’ sulle ginocchia, senza dimenticare il libro che gli hai promesso. Lo appoggia un attimo sul tavolo e si china senza vergogna solo per raccattare i suoi abiti. Poi si veste velocemente, in silenzio, dandoti le spalle.
E’ come se adesso nella stanza fosse solo.
E’ finita, non ti deve più niente.
Nemmeno si lega i capelli.
Ha fretta.
Arrivato alla porta, dopo aver aperto uno spiraglio, si gira un momento e dice: “Mi dispiace per averla interrotta, prima, ma fate tutti così: vi dimenticate di avere a disposizione solo un’ora e poi quando scoprite che è passata senza concludere niente vi incazzate.”
“Non preoccuparti.”, gli dici in tono amabile.
Perché continui a volergli dare l’idea di essere diverso.
Che tu con lui non ti saresti mai incazzato se fosse finito il tempo.
“Ma vorrei che mi dessi del tu.”, aggiungi, sentendoti ridicolo a dirglielo adesso, quando lui è sulla porta e probabilmente non lo rivedrai mai più.
Ma lui non ti prende in giro per quella frase.
Non ti squadra come se fossi matto.
Si limita ad annuire.
“D’accordo..." ti dice sorridendo gentile.
“Se mi vuoi un’altra volta, allora, chiedi di Edward.”
E sparisce.
Non ricordi se hai dormito quella notte.


***

E’ successo di nuovo.
Ti sei svegliato ansante e sudato.
Col petto oppresso dall’inquietudine.
Questa volta ti sei immaginato in uno squallido monolocale, e non per la tua inequivocabile pigrizia che ti impedisce di occuparti di una casa più grande del tuo ufficio, ma per necessità. Facevi un lavoro squallido e insoddisfacente, a impilare scatole e a ripulire banconi con strofinacci luridi. Litigavi con una donna tua coetanea che però d’aspetto somiglia più a tua madre: avvolta in un brutto vestito a fiori, sotto una maschera di trucco, ti gridava contro per stabilire se avreste potuto permettervi di comprare la carne quella sera.
Una semplice bistecca del cazzo.
Rimani sdraiato a fissare il soffitto al buio, il buio giallastro che precede l’alba di Central City, vagamente consapevole della presenza che ti occupa più di metà del materasso e ti irradia calore lungo tutto il fianco.
Non sai chi è.
E non eri nemmeno tanto ubriaco.
La sera prima, a quella festa a cui sei andato di malavoglia, perché è importante fare presenza, ci sono state diverse candidate: segretarie, addette agli archivi, qualche sottoposta che ha sentito delle voci a riguardo di una possibile promozione in via di dibattito e pensa che sia tu l’uomo giusto a darle la giusta spintarella, sorelle di colleghi. Non vedevano l’ora di parlare con te, di ascoltare le tue chiacchiere, di trovare affascinanti battute che avranno sentito almeno mille volte.
Adesso ne hai una sdraiata accanto a te.
Bel problema.
Sai che se non ha la metà dei tuoi anni poco ci manca, perché ti hanno avvicinato solo bambine convinte che la gente di potere, quella come te, possa essere interessata solo a quel tipo di mercanzia. Che se fosse troppo giovane dovresti far infossare un po’ di cose e sarebbero casini. Che se per caso ti sei scopato quella brunetta insistente, la nipote del Generale Mengel , e la scarichi nel modo sbagliato, ti ritroverai sbattuto a pulire il pavimento dei cessi con la lingua tempo un secondo.
Non sai altro.
Il suo viso, il suo nome.
Persino il suo aspetto. Tutto sparito.
Le lanci un’occhiata di sbieco per far mente locale.
Ti volta le spalle e puoi avere solo una visione confusa della sua schiena esile.
E’ piccola e gracile, tutta curve sinuose e spigoli duri.
Ma sono i capelli a colpirti.
Lunghi e biondi.
E in quel momento ti odi davvero.
Per aver accettato dal cameriere quel bicchiere di troppo che ti ha annebbiato i pensieri in cambio di qualche ora di oblio; per averla trascinata via da quel mortorio, incespicando entrambi sui gradini e ridendo come stupidi; per averla quasi presa sul sedile posteriore della tua macchina, di fronte al povero Fury che probabilmente rimarrà traumatizzato a vita.
Per essere venuto.
Per essere stato così debole.
Vorresti che sparisse, chiunque essa sia.
Ma non puoi prenderla e sbatterla fuori.
Quella è casa tua ma non puoi.
Non si fa così, non è corretto.
Deve usare la tua doccia e lasciare il pavimento uno schifo e lo specchio opaco e pieno di ditate. Deve avvolgersi nel tuo accappatoio riempiendolo del suo profumo e farsi una buona colazione, lasciando almeno dieci pentole sporche nel lavandino, aspettandosi che poi tu pulisca quando con ogni probabilità getterai tutto nella pattumiera e ti comprerai altri tegami. Deve lasciarti il suo numero e chiederti di chiamarlo, quando lo sapete entrambi che non accadrà.
Ma puoi sempre andartene tu.
Balzi in piedi e raccatti in fretta e furia dei vestiti da indossare in giro per la stanza o da quella pila informe che giace nel tuo armadio. Non è necessario che sia la divisa militare, oggi non devi andare al lavoro. Vai in bagno in punta di piedi, senza accendere la luce, rischiando di sbattere contro quel fottutissimo comodino che sta sempre in mezzo alle palle e prima o poi ti deciderai a spostare da lì. Sfregati le tracce di rossetto dal viso e di seme dal bacino. Pettinati, vestiti, lavati i denti. Prendi le chiavi, un po’ di soldi e indossa il tuo cappotto.
Le scarpe non metterle, aspetta di essere fuori.
Non preoccuparti per lei, dorme.
Lasciale un biglietto sul tavolo, dove potrà vederlo.
Scrivile che potrà fare come se fosse a casa sua.
Non c’è niente di importante, lì.
Nessun segreto.
Va’ tranquillo.
Chiuditi la porta alle spalle. Vattene.
Giù lungo le scale, per le strade deserte.
Corri più che puoi, perché non hai tanto tempo.
Il primo treno per East City parte tra un’ora.


- FINE - OWARI - FIN - THE END -



Edited by RizafromKeron - 10/12/2007, 00:45
 
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