UNA PARENTESI, fanfiction ispirata al manga Saiyuki

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avalon9
view post Posted on 13/2/2008, 21:09





Fandom:Saiyuki
Personaggi:Cho Hakkai, Genjo Sanzo Hoshi, Sha Gojio, Son Goku , Nuovo personaggio
Rating: Rosso.
Genere:Triste, Malinconico, Introspettivo
Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono di proprietà di Kazuya Minekura che ne detiene tutti i diritti; questa storia è stata quindi scritta senza alcuno scopo di lucro.
Tipologia: One-Shot

Note dell'Autore/Autrice: Questa fanfic nasce in un periodo nero, e di conseguenza è forte una disillusione e un certo cinismo di fondo. Il rating è rosso non perchè indulga a scene erotiche palesemente esplicite o usi un linguaggio volgare; ho scelto di tenere questo rating alto per rispetto a chi non volesse iniziare una storia un po' forte nel contesto generale.
Con questo non voglio dire di esser riuscita a scrivere qualcosa di perfetto e correttissimo, ma voglio evitare di ferire .
In ultimo, ho classificato la fanfic come one-shot perchè, realmente, si esaurisce in un capitolo, che però è molto lungo. Se ritenete errata o fuorviante la scelta della tipologia vi prego di dirmelo e provvederò a modificarla.

Introduzione alla Fan Fiction:In una notte di pioggia, un incontro che sa di sabbia e passato. Il calore di un corpo e l'abbandono al piacere. Una parentesi sospesa nel tempo, nell'illusione e nel cinismo.



Una parentesi




Sanzo...cosa significa che tu non sei mai andato con una donna?”

[...andato con una donna...]



“Stupido! Non dovevi dirglielo, Goku!”

[...con una donna...]



“Ma Gojyo! Lo hai detto tu! Perchè non devo chiederglielo?”

[...una donna...]



“Goku...Non è una cosa molto gentile da chiedere, sai? É sbagliato fare questa domanda a Sanzo”

[...è sbagliato...]



“Ma perchè?! Io non ho capito!”

[...perchè è sbagliato...]



“Sanzo è un monaco, un uomo importante. La sua carica e la sua fede non gli permettono di rapportarsi con le donne come intende Gojyo”

[...sono un monaco...]



“In altre parole, scimmietta, questo bel biondino è un caso disperato, una vergogna per noi uomini! Disinteressarsi così alle belle ragazze...Che spreco!!!”

[...sono un uomo...]



“Vedete di piantarla con questi discorsi idioti, o vi uccido!”

[...cosa sono?...]





*****



Pioggia.
Aumenta gradatamente d’intensità, con una nebbiolina leggera che sale dal terreno a confondere i contorni. Un sibilo nella mente, insistente come una cantilena. Disco rotto. Non si cambia. Non si può cambiare.

Una nenia. Ti resta intrappolata nelle orecchie, nella mente. Assieme all’incubo di una mattina lontana. Il freddo della notte e il sangue dell’alba. Si può fingere di dimenticare; si può ignorare con ogni cellula del cervello. Inutile. I ricordi sono lì, indelebili, carrellate di immagini nelle pieghe della mente. Diabolici. Dolorosi. Insensati.

Patetico...

Getta indietro la testa, mentre l’acqua gli scivola sui tratti del viso, tuffandosi nello scollo della veste. Giù lungo il corpo protetto da un abito ormai fradicio e pesante. Opprimente. Com’era stata soffocante la luce della luna.

Si porta una mano alla fronte, massaggiandosi le tempie che pulsavano selvaggiamente. Emicrania. Maledettamente fastidiosa. Rialza la frangia fradicia, a scoprire il piccolo chakra scarlatto che gli marca la fronte. L’acqua si insinua nei capelli, gocciola lungo il mento duro. Piccole gocce sparse sul viso, vicino agli occhi, sulle mani, sulle labbra.

Appoggia stancamente un braccio alla gamba. Perchè tutto è ritornato così difficile? Perchè quella conversazione lo ha innervosito? I nervi...li ha sentiti impazzire ad ogni parola, ad ogni allusione. Le domande inopportune, gli ipocriti tentativi di cancellarle...Si è innervosito, ma non è il fastidio delle altre volte. É diverso.

La compagnia di quei tre mi sta arrecando più danni del previsto...

Estrae dal pacchetto una sigaretta. Marlboro. Rosse. Morbide. Mastica lentamente il filtro. Sapore tenue di tabacco. Pregusta già il fumo. La nicotina che scende lenta nei polmoni, l’odore acre della carta che brucia. È l’ultima del pacchetto. Un pacchetto così simile a quello. Scrolla le spalle. Che assurdità ripensarci così, senza un motivo.

Accendino.

Primo scatto.

Pioggia fastidiosa.

Secondo scatto.

Dovrò ricordarmi di comprane uno nuovo...

Terzo scatto. Inutile. Esaurito. Prosciugato di ogni rimasuglio di gas.

Dannazione!

Lo getta lontano con un gesto esasperato. Cosa accidenti ci fa sotto quell’albero a quell’ora di notte? Con un acquazzone che ormai lo ha completamente inzuppato e il freddo di fine autunno che ti morde la carne, vincendo con irrisoria facilità l’inutile pesantezza delle vesti sacerdotali.
Spezza la sigaretta. Inutile rimetterla nel pacchetto. É perduta. Rimane a contemplare i frammenti di tabacco che la pioggia lava dalla sua pelle. Che situazione assurda! Lui sotto la pioggia e qui tre idioti all’asciutto, nella loro stanza d’albergo. A bere del buon tè. O del sakè cado.

Si liscia le labbra con la lingua. Lo berrebbe volentieri un bicchiere di liquore. Magari fissando il buio oltre il vetro della finestra. Sarebbe anche disposto a fingere di ignorare le chiacchiere e le stupide discussioni del moccioso e del pervertito.

Voleva solo andarsene. Fuggire. Eccolo, l’assurdo: essere perso più di quando era uscito. Stanco di fuggire, di cercare qualcosa che non riesce neanche a capire cosa sia. Di certo, non è il sacro sutra. Non è la stessa sensazione. Questa volta, è diverso. É...come rimpianto. Ma non fa male, non è il senso di rassegnata impotenza che sente a ripensare alla morte del suo maestro. È una mancanza diversa. D qualcosa di conosciuto e lascito fuggire via. Una malinconica nostalgia.

É uscito esasperato per quel discorso, per quell’insistere ossessivo sulle donne. Gli ha dato fastidio. Senza un motivo vero. Quasi all’improvviso si fosse ricordato del suo ruolo. E che certi discorsi non gli si confanno.

Ridicolo!

Non ha mai fatto nulla per rispettare la veste che indossa, nulla che vada contro il suo pensiero e quell’unico insegnamento del suo maestro. Non si è mai curato di riti, preghiere, tabù e cose simili. Si è solo preoccupato di non distruggere il ricordo del suo maestro e di non essere schiavo di nulla. Nessuna debolezza, se non hai mai avuto qualcosa cui aggrapparti. E lui non ne ha bisogno.

Non crede in un Dio, non crede negli altri, non si aspetta nulla dal mondo. Si accontenta di se stesso, ripone il suo orgoglio nel suo ego, nella fiducia che ha nelle sue capacità. Non pretende di fare l’impossibile, ma non vuole nemmeno dipendere da altri. Conosce il rischio cui si va in contro. E non ha voglia di correrlo.

Nessuna debolezza, nessun appiglio per ricattarlo. L’unica ferita che possono colpire è il suo passato, e quello lo tiene stretto dentro la sua memoria, nei suoi ricordi più lontani. Lo lascia sbiadire nella mente. Non ha amici, non ha illusioni, non ha famiglia. E non ha una donna. Non ha e non avrà mai accanto il corpo di una donna, il suo calore nel letto, il suo respiro sulla pelle.

Tutto perfetto, perchè significa che non si lascia corrompere, che davvero non ha bisogno di aiuto per vivere. Non gli interessa la morale. Non gliene frega niente se è un monaco e non può avere una relazione. Non gli interessa conoscere una donna e magari trascorrere una notte con lei. Sarebbe solo una scocciatura. Dannatamente snervante.

Gojyo non si è mai disinteressato alle ragazze di una locanda, e ha sempre espresso la sua passione senza mezzi termini.

Irritante.

Ottimo solo come scusa per scaricare il fastidio che le loro chiacchiere gli procuravano. Lui ama il silenzio, la calma, la solitudine. Già il dover viaggiare con delle persone gli costa un grande sforzo, anche se, in definitiva, deve ammettere che gli riesce meglio che all’inizio. Ormai,ci ha fatto l’abitudine.

E allora perchè ha improvvisamente sentito il bisogno di evadere? Andarsene da quella stanza satura di fumo e parole, fuggire da quel discorso che stava assumendo una piega troppo fastidiosa. Che lo chiamava in causa direttamente.

Non diciamo sciocchezze! Io non sono fuggito!

Sospira coprendosi gli occhi. In fondo, è una giornata di pioggia. E a lui la pioggia fa sempre uno strano effetto. No. Non è successo nulla di strano. Si è solo stancato di tutto quel fracasso. Come al solito. Tuttavia, anche se camminare sotto l’acqua non ha sortito altro effetto che non infreddolirlo, sarebbe comunque il caso di rientrare. Non può permettere che sparlino di lui ancora; si è stufato. Eppure, non ha la forza di alzarsi.

Perchè doveri farlo?

Chiude gli occhi e tuffa la testa fra le braccia. Sente solo acqua. Uno scroscio continuo e soffocante. Gli entra dentro togliendogli il respiro, scorre sul suo corpo, si insinua fra le pieghe della pelle e i risvolti dell’abito. Disegna i capelli e i muscoli sotto la stoffa chiara.

“Sembra destino incontrasi così...”

Rialza il viso. Quella voce... deve essere solo l’eco della pioggia, le parole di un ricordo affiorato senza volontà. Un’immagine prodotta dall’appannamento di occhi stanchi. Solo un ricordo.

Basta confondersi...

“...non è vero, Genjo?”



*****





“Sanzo non è ancora rientrato...”

Hakkai scuote debolmente la testa, mentre richiude la porta dietro di sè e riprende il suo posto al tavolo. La tranquillità che regna in quella stanza è troppo innaturale. Cozza terribilmente con le facce scure e le espressioni tese. Stride con la consuetudine frenetica cui sono abituati. C’è troppo silenzio. Dannatamente fastidioso.

“Ma si può sapere dove si è cacciato quel dannato bonzo?!”

Gojyo getta sul tavolo con assoluta noncuranza tutte le carte che teneva in mano. Al diavolo anche il giro fortunato! Per una volta che poteva battere Hakkai, il pensiero del monaco gli impedisce di concentrarsi sulla partita.

“Forse, dovremmo andare a cercarlo... É uscito più di quattro ore fa, e adesso sta diluviando...Non vorrei che si fosse trovato nei guai...”

“Sanzo era strano...”

Goku. É da quando il monaco è uscito sbattendo la porta che non ha aperto bocca. É rimasto tutto il pomeriggio alla finestra, la testa tuffata nelle braccia conserte e gli occhi fissi sulle scie che le goccioline tracciavano sul vetro.

“Che vuoi dire, scimmietta?”

“Non lo so...Ma non era più lui...Era diverso...”

Hakkai carezza distrattamente il draghetto che gli si è assopito in braccio. Nonostante le rimostranze di Gojyo, Goku ha ragione. Sanzo era diverso dal solito. Molto diverso. Si è accorto benissimo del suo sguardo quando Goku ha ingenuamente avviato quel discorso sulle donne. Come si è accorto che alla minaccia per troncare quella discussione che lo stava esasperando, Sanzo non ha fatto seguire i consueti colpi di pistola o harisen. Si è limitato a freddarli tutti con un’occhiata, per poi voltar loro le spalle con un’espressione torva in viso.

Sanzo...cos’hai ricordato?



*****





Non voglio pensare...

La preme di più contro la porta. Sente il suo corpo imprigionarla, le sue forme stuzzicargli la pelle contro la stoffa della camicia. La sua bocca spinge di più su quelle labbra carnose e calde. La sta baciando con rabbia, con foga. La sta quasi costringendo a dimenticare il respiro, sfiorandole i denti e le labbra, baciandola come non cedeva che avrebbe mai fatto. Come non credeva di poter baciare.

Cancellami la mente...

Le morde un labbro, facendola gemere. Con un mano le circonda la vita, lasciandole liberi i polsi che le aveva stretto sopra la testa fino a quel momento. Le mani della ragazza scendono lungo la sua schiena, disegnandogli la colonna vertebrale con una lentezza quasi maniacale. Vertebra per vertebra, lisciando la stoffa della camicia. Si insinuano appena nella cintura, liberando il tessuto per poi risalire lungo il torace fasciato dalla stoffa.

Sanzo, intanto, ha lasciato che le sue mani vaghino sul corpo che ancora imprigiona. Sono scese lungo i fianchi, risalendo fino a tuffarsi in quei capelli di rame. La bacia ancora, scendendo ad assaggiare la pelle morbida del collo, in una scia di piccoli morsi che le rendono il respiro veloce e irregolare.

Perdimi...

Si era ritrovato a petto nudo, con quelle mani sottili e delicate a disegnargli i muscoli appena accennati: i pettorali duri, i deltoidi tesi, il trapezio rilassato. Si era ritrovato steso su un letto, mente un istante prima si ricordava in piedi nella cucina di quella casetta.

É bastato un istante in cui la sua mente si è smarrita in quel tocco, in quel respiro sempre più veloce, e la ragazza adesso è sdraiata sotto di lui. Occhi socchiusi per l’eccitazione, labbra rosse e tumide, la casacca che indossa scivolata a mostrarle le spalle, a scoprire il decoltè e l’attaccatura del seno.

Sanzo si ferma a guardarla. La vuole. La desidera. Per la prima volta nella sua vita, il suo lato umano, virile, sta prendendo il sopravvento. La testa pulsa dolorosamente, e il sangue correre ad infiammare ogni centimetro del suo copro anestetizzato troppo a lungo dalla sua volontà. Sente di desiderare quella ragazza come non ha mai desiderato nulla. Vuole il suo corpo, la sua pelle sotto le dita, il respiro a solleticarlo, i suoi gemiti. Senza un perchè.

Fammi dimenticare...il buio, il dolore, la solitudine...Fammi annegare nel piacere...

Si rimpossessa con violenza delle sue labbra. Non c’è dolcezza nei suoi gesti; nessuna attenzione, nessun riguardo. Quella ragazza è solo un corpo, il mezzo per far tacere quel fastidio che gli pulsa nella testa. Vuole dimenticare ogni istante, ogni atomo della sua vita. Vuole affogare. Annullarsi in quel calore strano, in quell’eccitazione mai provata che cresce dentro di lui. Sempre più forte, sempre più intensa.

Fammi scordare...quello che sono.

Scende lungo il collo della ragazza in una scia di baci e morsi leggeri che le arrossarono la pelle. Le mani slacciano con desiderio i bottoni della casacca di seta, corrono al ventre morbido, per poi risalire ai seni, mentre la bocca stuzzica maliziosa, vogliosa, la clavicola, salendo e scendendo lungo la linea della giugulare.

La ragazza affonda le mani nei capelli biondi di Sanzo. Seta. Bellissimi, morbidi. Bagnanti Li arriccia alle dita, tirandoli leggermente per costringerlo a ritornare al suo viso, per risentire sulle sue labbra, dentro di sè, il respiro di quel ragazzo distaccato e cinico. Disilluso.

Inarca leggermente la schiena e soffoca il gemito che le è salito in gola. Un mugolio eccitante. Le labbra di Sanzo sono la perdizione. La seducono, scendendo lungo il suo corpo in linee immaginarie, accompagnate da mani sempre più vogliose di toccare, di scoprire. Ardenti. Violente. Affamate. Spaventate.

Sanzo avverte distrattamente l’adrenalina salire assieme al piacere. C’è qualcosa di pericoloso, di sbagliato, in quello che sta facendo. Qualcosa di spaventoso. Eppure, non riesce a fermarsi, non vuole fermarsi. La schiaccia di più sul materasso, respirando affannosamente contro la sua spalla, lasciando per un istante, un solo istante, che la sua lucidità riaffiori in una mente sconvolta dalla passione e dalla carne.

Cosa diavolo sto facendo? Sono un monaco...un monaco...Io non devo...Non posso...

Le braccia della ragazza gli stringono il collo, mentre quelle labbra maledette giocano con il suo orecchio e scendono lungo i tendini tesi della gola, con malizia e sensualità. Le mani percorrono in una carezza di fuoco le sue braccia, arrivano ai polsi stringendoli quasi per scherzo, prima di risalire lungo i suoi addominali, strappandogli un sorriso di malcelato compiacimento. Ora sono sul petto glabro, su verso le clavicole, aggirano la base della gola e scendono a massaggiargli il trapezio teso e contratto. Giù lungo la colonna vertebrale, segnando con l’unghia ogni più piccolo osso che la pelle lasciava accarezzare.

Io.. .

Afferra la mano che gli accarezza il viso. Gliela solleva di nuovo sopra la testa, premendola contro il cuscino. Ridiscende lungo quel corpo sempre più caldo e coinvolgente. Sempre più pericoloso. Gode del respiro ormai violento e irregolare; si compiace del contrarsi spasmodico di muscoli e tendini. Immagina il suo viso contratto in una smorfia di piacere, le sue mani chiuse attorno alla testiera di ferro del letto. Nocche bianche e dita rosse. Mani lunghe e affusolate dai nervi tesi e duri.

...sono...

Sente quei capelli di rame scivolargli sulla pelle, carezzargli il corpo coperto di cicatrici. Indugiare su ogni ombra chiara impressa sulla sua pelle, disegnarne il contorno con attenzione quasi chirurgica. Il largo taglio che gli definisce l’addome, il risultato dell’irrazionalità di un istante. Quando si era messo in mezzo. Senza un perchè. Solo per difendersi. Ora è sul collo, il piccolo taglio dietro l’orecchio. E poi di nuovo lungo le braccia, lungo solchi che non ricorda neanche di essersi procurato. Anni di combattimenti e di solitudine. Di rimorso e pesantezza.

Il respiro più leggero assieme al fumo che sussurra dalle sue labbra, il fastidio di essere sempre all’altezza, l’orgoglio di essere solo se stesso. Freddo, indifferente, cinico, distaccato. Il sudore scende a disegnargli il viso, sottile cortina di eccitazione che gli rinfresca e incendia il corpo. Alcune piccole gocce cadono dai suoi capelli ancora bagnati, gli percorrono il collo, lungo la linea del tendine, giù fino alla clavicola, sul petto, per poi perdersi contro il seno della ragazza.

Basta giocare. La sovrasta con il suo corpo. Forza. Violenza. Rabbia. Disprezzo. Furore. Mancanza. Increspa un sorriso compiaciuto nello scorgere un canino della ragazza affondare nelle labbra rosse e tumide. Gli occhi chiusi. Stretti. Un sottile rivolo di sangue cola dal piccolo taglio che si sta infliggendo. Si china assetato verso il suo viso, le chiude di nuovo la bocca e ogni possibile voce con un bacio violento e affamato. Nessuna attenzione, nessun rispetto. Nessuna dolcezza.

...un uomo...



*****





“Non ricordavo che fumassi, Genjo”

Sanzo inspira con calma il fumo, gustandolo scendere lungo la trachea a solleticargli la gola. Gli piace fumare. Gli è necessario fumare. Con un colpetto lascia cadere la cenere nel portacenere nero e lucido sul comodino. Spire voluttuose si attorcigliano nell’aria. Nebbiolina leggera e azzurrina nella prima luce del crepuscolo. Disegna il profilo elegante della ragazza distesa nel letto accanto a lui.

“Nemmeno io”

Dicevi di odiare il fumo...

Un sorriso di ironica commiserazione, mentre si avvicina di più al suo corpo. Il lenzuolo è sottile, di seta. Freddo. Il corpo della ragazza, invece, è ancora caldo. Liscio contro le pieghe della stoffa, sodo nelle forme appena velate. Il lenzuolo le lega la carne come una veste preziosa, tracciando ogni curva di un corpo che, solo poche ore prima, ha avuto come fosse stato un oggetto.

Lascia vagare lo sguardo sui suoi capelli sparsi sul cuscino. Una nuvola di rame, incendiata d’oro per la poca luce che filtra dalle veneziane. La vede allungare sorniona il suo corpo nudo, in un conturbante gioco di vedo-non vedo. Maledettamente eccitante. È particolarmente bella. Sanzo non può dirsi un sottile estimatore di femminile bellezza, ma ammette a se stesso che quella ragazza è bella. Carina certo, estremamente piacente e graziosa. Nulla di sbagliato nel suo corpo. Ma anche qualcosa in più. É bella. Ma è una bellezza strana.

Non ha quella bellezza che probabilmente avrebbe ammaliato Goyjo. Certo, il ragazzo non si sarebbe fatto scappare l’occasione di farle qualche avances se l’avesse incontrata per strada, perchè comunque resta una ragazza dal grande fascino seduttivo. Magnetica. Eppure, non è normalmente bella. Anche se possiede due occhi blu che hanno rubato il colore agli abissi del mare. Profondi come possono esserlo solo gli occhi di chi ha vissuto.

“Infatti...Detesto il fumo”

Sanzo spegne il mozzicone, badando bene a frantumare il filtro. Perchè, per quanto ami il fumo, l’odore della sigaretta che agonizza gli da il voltastomaco. Si gira su un fianco e l’attira a sè, premendole il corpo nudo, il seno, contro il suo petto freddo. Strappandole un sorriso di falsa ritrosia. La bacia con ancora in bocca il sapore del tabacco, con il gusto acre del fumo che si scioglie contro di lei, in lei.

Odi il fumo e hai un posacenere in casa...Detesti la nicotina, eppure mi stai baciando...

Il suo bacio è violento, famelico. Carico di rabbia, carico di rimpianto. Brusco. È bacio di uomo, di amante, di voglia e passione. È un bacio del peccato, di lussuria. Lei finge di allontanarlo, non vi riesce. Lo asseconda. Lascia che si nutra della sua bocca, che assaggi ogni centimetro delle sue labbra. Lo lascia fare, reprimendo nel suo respiro i gemiti e il piacere. Ma quando sente una sua mano riposarsi sui suoi fianchi, la allontana.

“...Genjo...”

Non puoi sfuggirmi...Non te lo permetto...

“...sei mia...”

Sente la durezza di quelle parole a fior di labbra. Sente male. Gli occhi del monaco sono velati da qualcosa di terribile. Qualcosa di cui neanche lui ha coscienza. Desiderio. Bramosia. Appetito. Ma non può più lasciarlo fare. É finita la notte, il sogno. É sbagliato.

Lo respinge ancora e si alza a sedere. Sanzo non accetta: le fa cingere i propri fianchi con le sue gambe e affonda le labbra nel suo collo. Lei lo costringe a sollevare la testa e lo bacia di nuovo, illudendolo di aver vinto. No. Non ha vinto. Non c’è nulla da vincere. Solo qualcosa da prendere. Senza riguardi, senza attenzione.

Lo allontana di nuovo e scivola fuori dal lenzuolo, regalandogli la visione del suo corpo nudo nella penombra dell’alba. L’eccitazione della seta della vestaglia che corre sulla pelle, freschezza di stoffa contro calore di desiderio. Sanzo gusta ogni suo movimento, disteso su quel letto sfatto, fra lenzuola arrotolate e disordinate. La contempla dalle pieghe della federa, fra la cortina d’oro che è scesa a nascondergli gli occhi. Una mano sotto il cuscino, l’altra ancora distesa sul posto accanto al suo. Lì dove fino a un attimo prima c’era il suo corpo.

È solo un’illusione...una stupida illusione...


La raggiunge in cucina, sedendosi su una sedia. Le sue vesti sacerdotali ripiegate con cura su una madia. Deve averle appena ritirate. Anche il sutra è diligentemente arrotolato.

Come quella volta...

“Senti...Il tuo ragazzo non è geloso?”

Perchè glielo chiedo? Non mi interessa...

[Davvero?]



Lei gli siede di fronte, allungandogli una tazza di thè. Bicchiere di cotto. Molto caldo. Sa di bisogno di tranquillità, di protezione. Sa di stonato, rispetto alla fine porcellana che ha dato a lui. Dipinta con leggeri e raffinati motivi in azzurro e blu.

“Non ho un ragazzo”. Sorride ironica, ravvivandosi i capelli che le spiovono sul viso. “ Sai...non mi sono mai riusciti i legami duraturi”.

Perchè vorrei sorridere?

[...perchè sei geloso...]



Il thè è buono. Non è cambiata in questo. Il suo thè è e sarà sempre il migliore che abbia mai bevuto. Forte senza essere aggressivo; delicato senza stufare e scomparire dalla lingua troppo presto. Sanzo indugia ancora per il piccolo ambiente. Poche mensole, una grande tela dalle tinte accese alla parete, qualche mobile di fortuna...E un cavalletto con una tela mezza coperta. Si avvicina con finta indifferenza, sollevando svogliatamente il panno sporco.

Una tempesta di blu e neri, con sfumature di grigi gli invade la mente. Linee rabbiose che si attorcigliano con colpi netti di spatola e pennello. Rabbia e frustrazione. Dolore. Solitudine. Un oceano senza scampo, in cui il naufragio è l’unica soluzione. Affogare è la più dolce delle morti, l’ineluttabilità del destino.

Adesso, anche lui deve affogare. Non può restare, non deve restare. La notte appena trascorsa...qualcosa di irripetibile, ma anche di sbagliato. Sanzo sa benissimo di non amarla, sa di averla usata, di essersi approfittato di lei. Sa di non volersi legare, perchè questo è il suo credo. Non ha bisogno di preoccuparsi di qualcuno. Lei continuerà la sua vita e si dimenticherà di lui. In fondo, è stata solo una parentesi. Una folle, insensata, irripetibile, assurda, bruciante, assetata, intensa, sensuale, irrazionale parentesi.

“Genjio...Io...”

“Non resterò con te”

Non posso neanche volessi...e non lo voglio...

[...bastardo...]



Continua a fissare con interesse la luce fuori dalla finestra. Aspetta di sentirla scoppiare a piangere, di sentire la sua rabbia e la sua delusione venirgli vomitate addosso. L’ha presa in giro, l’ha illusa. Si è approfittato di lei. Le ha preso una notte di folle, sbagliata passione. E adesso deve andarsene. Senza più guardarsi indietro. Senza conservare nulla. Si è tolto una soddisfazione, una debolezza. Solo un attimo di sbandamento. Ma adesso basta.

“Non lo speravo”

Sanzo si volta. C’è una rassegnazione gelida in quella voce. Disillusione. La ragazza stringe forte la tazza, la testa nascosta dalla cascata ramata. La vestaglia è scivolata a scoprile una spalla. Bianca. Accecante. Come la luce della luna. Sanzo ha un brivido. Qualcosa di strano, un sospetto che gli fa correre una sensazione fastidiosa sotto la pelle si insinua nella sua mente.

C’è qualcosa di innaturale in quelle parole. Qualcosa di troppo diverso rispetto al passato. Qualcosa che stride con i ricordi che ha. Quella ragazza non è mai stata così vuota. I suoi occhi sono vuoti. Il nulla. Sanzo ha visto molte cose riflettersi negli occhi della gente. Paura, sconforto, gioia, sollievo, terrore, desiderio, follia, disperazione, falsità, ipocrisia, appagamento, felicità, speranza. Gli occhi della ragazza, invece, sono il nulla. Assolutamente vuoti. Desolatamente inespressivi.

“Di chi sono questi vestiti da uomo?”

Perchè ho paura?...

[...perchè conosco la risposta....]



“Ha importanza?”. Solleva un labbro in un sorriso tirato. Genjo vuole sapere. E non avrebbe ripetuto la domanda. Sente i suoi occhi viola trapassarle il corpo. Se lo avesse fissato, questa volta non ce l’avrebbe fatta a reggere il suo sguardo.

“Alcuni sono miei...Gli altri...”

Non fermarti...

[Fa che non sia...dimmi che mi sbaglio...]



“Ma che importa di chi sono?! Adesso sono tuoi!”

Piange. Ha sollevato su di lui gli occhi tremanti di lacrime e lo fissa con disperazione. Non può farle questo, non può costringerla a parlare. Non ne ha il diritto. Lui...lui così perfetto e intoccabile. Lui così importante, così puro. Non può chiederle come se nulla fosse a chi erano appartenuti quei vestiti. Non ne ha il diritto. Nessun diritto.

“Rispondi alla domanda!”

Illudimi ancora...

[Le fai del male...]



“Per dirti cosa?! Che sono degli uomini con cui vado a letto, che sono i vestiti di uomini che mi usano per una notte e poi se ne vanno gettandomi addosso una manciata di soldi?!”

Adesso è in piedi, le spalle sottili che tremano, gli occhi dilatati. La voce esce roca e gutturale, spezzata da lacrime che scendono con fatica nella gola. Muove le mani con frenesia, come a scacciare volti pieni di scherno, annaspando nell’aria come se cercasse di risalire alla superficie invece di lasciarsi andare completamente al buio.

“Vuoi sentirti dire che sono una prostituta?! É questo che vuoi sentire, Genjo?!”

Sanzo non risponde. Continua a fissarla senza espressione, incapace di riconoscere un’ombra su quel viso. Dov’è scomparsa la ragazza di sette anni prima, quella che lo ha accolto in casa febbricitante senza sapere nulla di lui? La ragazzina che era arrossita quando lui si era risvegliato, che gli raccontava di illusioni impossibili in cui si ostinava a voler credere.

Non distruggermi anche tu...

[Sono io che l’ho voluto...]



“Lo sono! Hai capito?! Lo sono! Sono una cameriera, un’operaia quando riesco a trovare un lavoro. Sono una prostituta quando invece non ho niente. Ho svenduto il mio corpo, non ricordo più neanche quante volte. Mi sono concessa per pochi soldi, per un pezzo di pane...”

La vede abbassare gli occhi, quasi calmatasi all’improvviso.

“Sai cos’è la fame, Genjo? Sai cosa si prova a sentire lo stomaco contorcersi e farti piegare dai crampi e non aver niente da mangiare? Neanche una briciola di pane, e intanto che tu agonizzi a terra altri ti passano accanto...e fingono di non vederti. Dai fastidio, con il tuo viso pallido, con il tuo corpo rinsecchito...”

Sanzo continua a fissarla. É diventata una bambola, il passatempo di uomini che hanno visto in lei solo una macchina di piacere. Un oggetto su cui sfogare le proprie voglie e i propri desideri. L’hanno umiliata, irrisa; hanno approfittato di lei. Eppure...eppure quel corpo pluriviolato non si è ancora arreso. Continua a lottare. A resistere. A vivere.

“Sei contento, adesso?” singhiozza senza guardarlo. “Ti faccio schifo, vero? Se lo avessi saputo, non ti saresti mai lasciato avvicinare da una come me. Perchè io sono solo uno scarto, solo un rifiuto...Perchè io servo solo di notte, se un uomo ha troppo freddo nel letto...”

Smettila...

“...e a loro piace che io sia così...io non ho pretese, io mi accontento della mia paga...Meno pesante di una moglie, meno impegnativa di un’amante...Io sono solo un corpo...”

Smettila!

“Qualcosa da prendere e lasciare appena ti ha soddisfatto. In fondo, che importa di quello che sento io? Che importa se piango mentre mi possiedono, che importa se mi mordono, se mi graffiano, se mi lasciano cicatrici sulla pelle?...Io non esisto...Io so solo una prostituta...solo una macchina...un corpo...”

“Smettila!!!”

La tazza si frantuma in mille pezzi. Rumore di stoviglie rovesciate. Sanzo rovescia il tavolo per arrivare a lei e stringerle le spalle. La testa pulsa selvaggiamente e ogni fibra del suo corpo urla per la rabbia.

Non mi fai schifo...non mi fai ribrezzo...

[non potresti mai...]



Le chiude la bocca con violenza, spingendola contro il mobile della cucina, premendole la testa contro le sue labbra. Toglie il fiato. É così che vorrebbe essere baciata. É così che vorrebbe esser toccata. Con violenza, con forza...senza dolcezza, ma anche senza puro istinto, senza puro desiderio.

Tu devi essere baciata...

[...non da me...]



Sono un bastardo...uno stupido, cinico, dannato bastardo...

[sono un approfittatore...]



La trascina con sè sul pavimento, fra cocci di vetro e ceramica che graffiano la pelle. La preme a sè e l’abbraccia. La sente scalciare e dimenarsi, piangere contro il suo petto e picchiare forte i suoi pettorali. La sente urlare disperata e isterica, insultandolo e maledicendolo. La sente calmarsi e le rialza brusco il viso, e la bacia come se fosse in agonia, come se servisse a svegliarlo da un incubo.

Non può essere vero...non deve essere vero...

[voglio dimenticare...]



...la mia ultima illusione...


Le morde le labbra a sangue, stringendo la carne fra i denti finchè non sente un sapore metallico colargli in bocca. Le unghie della ragazza nelle sue spalle, il suo corpo che sussulta fra le sue braccia. Sta perdendo il controllo. Di nuovo. E anche lei. Sanzo si accorge solo di avere le mani affondate nel rame, di sentire lacrime bagnargli le labbra e il suo corpo premere contro il suo. Libero della seta della vestaglia.

È sbagliato...è tremendamente sbagliato...

[non importa...io sono già sbagliato...]



Sono un monaco...

[...sono un uomo...]



É un atto di compassione...

[Ipocrita...è solo desiderio...]



Solo desiderio...

[...desiderio...]






*****



“Genjo...grazie...”

“Di cosa?”

[...perchè?...]

“Di avermi...amata...”

“Ti sbagli”

[...non ti ho amata...ti ho presa e basta...]



“Sette anni fa...quella notte...”

“Non è successo niente”

[...non sarebbe mai dovuto succedere niente...]



“Lo so...”

“...”

[...ti ho usata...]



“É meglio se esci dal retro...”

“Tornerò a salutarti...”

[...ipocrita...falso...]

“Non promettere ciò che non manterrai, Genjo”

“...”

<p align= “right”> [Forza, disilludila completamente...Tanto, che t’importa?... É solo una donna...]



“...Genjo...”

“Hai ragione. Non tornerò. Non avrebbe senso. Però...”

[colpisci]



“...mi hai...”

[ferisci]



“...soddisfatto”

[umilia]



La ragazza sorride. Una smorfia di finta contentezza. Nauseata. Glielo hanno detto tante volte. Le hanno fatto tante promesse. Non ci ha mai creduto. Non si è mai avverato niente. I suoi amanti parlavano, la riempivano di promesse, e appena usciti dal letto ricominciavano a trattarla come un oggetto. Si dimenticavano delle loro parole.

Anche Sanzo dimenticherà. Perchè mai dovrebbe ricordarsi di una stupida ragazza con cui ha trascorso una notte? Lei è il peccato, il male, la perdizione. Lei è fango, è sporcizia, è rovina. Lei non dovrebbe neanche osare alzare gli occhi su di lui, sul monaco di più alto rango. Sul prescelto dagli dei.

[...è sbagliato...]



Le volta le spalle. Non la saluta. Non la guarda. Non le dice niente. Non ha senso, dire qualcosa. Ha goduto di lei, si è divertito. Ha frantumato l’ultimo ricordo. Ha cancellato anche quel passato. Adesso, devo solo riprendere a camminare. Non ci si deve voltare indietro. Non si deve pensare. Si è divertito. Punto. Basta. Discorso chiuso. Lei non esiste più.

[Dimenticala. Perchè ti deve importare di lei?]



Apre la porta.

[É stata solo un notte]



Si ferma senza voltarsi, assaporando l’aria fredda.

[...solo una notte...]



Chiude la porta. Non tornerà. Non ha senso tornare.

[...è solo un oggetto...]



La jeep sobbalza, lo sballottola sul sedile con la forza con cui si è mosso in quel letto nella notte. Lo preme e lo rilassa. Lo alza, lo spinge, lo scuote. Ha la nausea. Si porta una mano alla bocca a reprimere un conato. Forse, ha sbagliato a mettersi in macchina a stomaco vuoto. Dannazione a lui e alla sua fretta! Ha perso una notte, consumata nel piacere carnale. Che ci avrebbe perso a dedicare un quarto d’ora anche allo stomaco?! Assolutamente nulla. Solo, gli sarebbe andata di traverso anche la colazione.

I suoi compagni di viaggio...Non la smettono. Continuano a fissarlo come se non lo avessero mai visto. E gli da fastidio. Un maledettissimo fastidio. Odia attirare l’attenzione. Odia essere al centro dell’attenzione. Preme la mano sulla bocca, piegandosi appena. Sta male. Sta veramente male.

Appoggia la testa al cruscotto e rincorre il respiro. Si sente soffocare. La pelle dei sedili gli da la nausea. Gli ricorda l’odore della sua pelle. Il freddo del vetro sono le sue lacrime salate. La polvere che gli divora la gola l’arsura della passione. Scricchiolii come cigolio di materasso. Affanno di sofferente; affanno d’amante.

La jeep si è fermata. Basta rumore. Basta sobbalzi. È fermo. Seduto su quel sedile. Raggomitolato su se stesso. Gli viene da ridere. Patetico. Dannatamente patetico. Si preme il braccio contro lo stomaco. Un altro conato represso con un singulto. Vorrebbe ridere. Vorrebbe gettare indietro la testa e ridere guardando il cielo. Il suo odioso, intenso azzurro.

Si passa una mano sulla fronte, asciugando il sudore freddo che la bagna. Lentamente, riprende posizione eretta, reclinando la testa sul sedile. Aria fresca fra i capelli, respiro sul collo sudato. Un sorriso gli storce le labbra.

“Hakkai. Torna indietro”

Sto impazzendo!

<p align= “right”> [...non sono un vigliacco...]





*****



Pericolo.

Lo sente nell’aria. Nella calma innaturale del luogo. Resta fermo accanto alla jeep. Qualcosa non va. Qualcosa è sbagliato. Non capisce cosa nè perchè, ma è tutto troppo perfetto. Troppo immobile. La porta chiusa, le tende graziosamente tirate. Le foglie secche sporcano le poche pietre d’ingresso. Sono scivolose, quelle foglie. Lo sa bene. Alza gli occhi: il piccolo scacciapensieri è al suo posto. Un tintinnio d’argento al soffio freddo d’autunno.

Pericolo.

Non va bene. Non va affatto bene. Sente che è in apnea. Sente freddo sotto le vesti calde. La porta si apre sotto la spinta leggera della sua mano. Lei non l’avrebbe mai lasciata aperta. Se non è in casa, l’avrebbe chiusa a doppia mandata. Anche adesso. Perchè non le rubassero i sogni, diceva una volta.

Poca luce. Le persiane chiuse lasciano filtrare lame di sole. Sanzo socchiude gli occhi. Crampi allo stomaco. Adesso sì che ha voglia di vomitare. I suoi compagni lo hanno superato. Girovagano per la stanza messa a soqquadro facendo scricchiolare i cocci e i vetri sul pavimento.

Non respira. Vorrebbe svegliarsi, e sa che non sta sognando. Lo sente sulla pelle. In un angolo, strappati, ci sono ancora i vestiti che lei gli ha prestato. La sedia su cui li aveva gettati è rotta. Tronconi spuntati. Indugia su ogni mobile distrutto, cerca di ricordare la disposizione di ogni cosa. Che strano...ci ha passato una notte in quella casa, e non ricorda nulla. Riconosce solo i frammenti della tazza che aveva scagliato a terra. Ricami azzurri e blu.

E l’altra. La sua tazza. Quella rozza, di coccio. É frantumata in mille pezzettini. Vicino al lavello. Il the gocciola freddo sul pavimento. Una disgustosa macchia giallastra. Di nuovo nausea. Distoglie lo sguardo. Stringe gli occhi. Qualcosa gli fa male. Maledettamente male.

Non sente le domande di Goku, non segue le congetture di Hakkai, ignora le occhiate interrogative di Gojyo. Non avrebbe dovuto portarli, si dice. Ma ormai il danno è fatto. Adesso, è davanti alla porta della camera da letto. É socchiusa. Sanzo si accorge che le sue mani tremano. Che strano. Non ha mai tremato in quel modo.

[Ne sei sicuro?]



Smettiamola di giocare! Ne sono certo!

[Mentire è inutile. Non cambia le cose.]



Quella notte...

Spinge la porta.

Adesso ha davvero voglia di vomitare. E il suo corpo non riesce neanche a tremare.

...Nimei...

[Urlalo]



...Nimei...

[Chiamala]



...Nimei...

[Apri la bocca e chiamala!]



“...Nimei...”

La ragazza volta il viso impaurita. Trema, raggomitolata su se stessa. Una maschera di sangue e lacrime. Gli occhi blu si dilatano nella penombra, mentre le mani corrono a stringere più forte il lenzuolo. Vuole coprirsi, vuole celare il suo corpo violato.

“...Genjo...”

Abbasso il viso, lascia che i capelli le nascondano i lividi e le contusioni. L’occhio gonfio e il labbro spaccato.

“...Non guardarmi, Genjo...Non guardarmi...”

Sanzo è davanti a lei. Le solleva il viso scivoloso. Non accetta quelle parole. Non vuole accettarle. Non può. Scosta il rame, mettendo a nudo il taglio sopra l’occhio, i lividi di un pestaggio violento, le labbra tumefatte e gonfie imbrattate di sangue. Il labbro spaccato. Un taglio che prende tutta la parte inferiore. Dall’angolo della bocca fino al centro.

Le lacrime scendono lungo il collo, scompaiono sotto il lenzuolo rosso e sgualcito. Pioggia rossa e vischiosa. Sanzo sente il desiderio di baciarla, di possedere di nuovo quel corpo martoriato. Vuole dimenticare il sangue, il raccapriccio di quella violenza. Desidera averla, asciugare le sue ferite, leccare il suo sangue e farglielo assaggiare dalla sua bocca. La vuole. E non riesce a pensare ad altro.

Sto impazzendo!

La rabbia sale mentre vince la sua stanca resistenza e riesce a farle scivolare dal corpo i resti del lenzuolo. Si sofferma su ogni livido, su ogni bolla scura che deturpa quel corpo che poche ore prima aveva stretto contro il suo, aveva avuto nel suo. Sfiora i tagli inferti, le sferzate che le segnano la schiena, che le abbruttiscono i seni. Nimei sussulta, mugugna di dolore. Si strappa una manica del kimono e fascia i polsi escoriati. Alla testiera del letto è ancora legata l’altra estremità della corda che l’ha tenuta imprigionata. Doveva essere stretta, e lei deve essersi dibattuta con ferocia e rabbia per segarsi i polsi in quel modo.

La copre con la prima cosa che gli passa fra le mani e la prende in braccio. La sente svenirgli contro il petto, affondando nel battito del suo cuore. La stringe a sè. Senza senso. Senza motivo. Potrebbe lasciarla lì e andarsene. Potrebbe infischiarsene e lasciarla al suo destino.

In fondo, in cos’è diverso, lui, dall’uomo che la ridotta in quello stato? Anche lui si è approfittato della sua dolcezza; anche lui l’ha trattata come un oggetto, concentrandosi solo sul suo piacere, su quello che poteva offrirgli. Anche lui l’ha violata senza farsi domande.

Non l’ha costretta, ma non l’ha neanche trattata come una persona. Solo un oggetto. Una bambolina con cui divertirsi. Anche se era lei. Nonostante quello che lei aveva fatto per lui. Prendendola senza mai neanche chiamarla per nome. Dimenticando volutamente il suo nome in un cassetto della memoria.

Solo corpo. Solo sangue. Solo passione. E lussuria, desiderio, soddisfacimento. Solo materialità. Solo adesso sente quel nome premergli in gola, solleticargli la lingua. E vorrebbe urlarlo. Forte Fino a farsi scoppiare i polmoni.



*****



“La gente mormora, Genjo...”

É nel suo letto, contro il muro. Con la fronte premuta al vetro della finestra; il respiro caldo che si condensa e appanna. Li vede. Fuori. In strada. Dalla finestra di quella locanda che affaccia su una delle vie principali. Persone. Compaesani. Passano e mormorano fra di loro. A bassa voce. Perchè è peccato parlare a voce alta di quelle cose. Li vede passare e alzare curiosi gli occhi, a scrutare le finestre che si aprono nella parete. A cercare. Cercano lei.

Alcuni si fermano, piccoli crocchi che sussurrano veleno e scherno. Lanciano occhiate maliziose e scandalizzate. È sempre così. Finchè è un uomo normale ad andare dietro ad una donna, finchè è una prostituta a subire violenza durante una prestazione, finchè le loro vite non vengono toccate dalla realtà...va tutto bene. Sono anche passabilmente cordiali. Si imbarazzano se ti incontrano, bisbigliano appena hai voltato loro la schiena, elargiscono falsi sorrisi. Sanno chi sei, sanno cosa fai. Ma non importa. Finchè tutto resta nella normalità non importa. Ti lasciano alla tua vita, a patto che tu non scuota la loro. Indifferenza.

Non devi sbagliare, però. Non puoi permetterti di sbagliare. Di gettar scandalo. La città deve conservare il suo buon nome, la gente deve mantenere la sua ipocrita faccia di perbenismo. Ti vendi per pagare l’affitto del tuo tugurio, per arrivare alla fine del mese perchè, se no, i soldi come cameriera non ti basterebbero? Concedi il tuo corpo sempre ad un uomo diverso, ti lasci trattare come l’ultima degli esseri viventi, accetti le loro mani che ti toccano, i loro respiri che ti alitano in bocca, sul collo, lasci che si divertano con te, che ti prendano senza amore? Benissimo. Fatti tuoi. Hai scelto tu quella vita. Sei una perdente, un rifiuto, un’emarginata. Sei sporca, ma va bene. É accettabile. Non sei stata tu la prima, e di certo non sarai l’ultima. Di prostitute ce ne sono in ogni città, di tutti le risme e le provenienze. Finchè ci sarà un uomo disposto a pagare per avere il tuo corpo, quella bocca di bambola su di sè, a godere senza curarsi della propria compagna, allora tu sarai una prostituta e le tue notti nel buio, nel picare amaro di un amplesso, nelle braccia di uomini mai conosciuti, saranno la tua vita. La tua unica vita.

Finchè resti ai margini, nessuno ti disturba. Ti ignorano soltanto. Troppa fatica anche solo criticare il tuo comportamento riprovevole. Tempo perso. Ormai, sei senza speranza. Nessuno ti potrebbe volere come donna. Non sai neanche tu se puoi ancora dirti donna, o se quella fragilità e dolcezza che possedevi se ne è andata, strappata a poco a poco da mille mani diverse, da mille corpi sconosciuti che hanno toccato il tuo, che hanno perduto il tuo. Ormai, non ha senso chiederti se sei ancora qualcosa. Resti prigioniera in quella parola: prostituta. Non importa se prima non lo eri, non importa se hai dovuto iniziare per fame e per disperazione. Non importa se conservi una testa, un cervello che pensa, assieme a quel corpo che freme a comando, che si scioglie per compiacere. Adesso sei solo quello: carne in esposizione. Ferma su uno scaffale che aspetta solo il suo compratore.

E ancora va bene. Ancora puoi sperare di essere lasciata tranquilla nella tua prigione. Detesti guardarti, togli da casa tua ogni specchio, ogni superficie che ti possa riflettere. Perchè, altrimenti, ci vedi l’orrore che sei diventata, vedi quella bellezza che ti ha portato ad avere sempre un cliente nuovo a notte, sempre una bocca nuova nella tua. Ti fa schifo, la tua immagine. Non puoi sopportarla. Anche quando non usi cosmetici e non ti acconci i capelli, anche se vesti dimessa quando sei libera, non puoi in nessun modo cancellare quello che sei diventata. Sei e resti una donna di piacere. Un oggetto solo per soddisfare fantasie perverse e frustrazione virile.

É sopportabile. Ti condannano, ma non ti uccidono ancora. Basta non stravolgere nulla; è sufficiente che tutto avvenga in silenzio: l’amore, il tradimento, la mercificazione, la violenza. Anche la violenza. Non importa a nessuno se una mattina esci di casa un po’ più pallida, con occhiali da sole scuri o vesti troppo larghe. Non importa se nascondi il viso e i segni di un qualcosa di violento. Basta che sorridi e fingi. Basta sempre che tu finga. Tanto, hai mille volti. Mille facce, mille espressioni. L’importante è che tu non pianga mai. E che non sbagli amante.

Hai sbagliato, vero? Hai scelto male: non ti sei accontentata di un uomo; sei riuscita a conquistare anche lui. Un monaco. Il più alto in grado. Un sanzo. Contenta, adesso? Il tuo onorario salirà. Lui ti è venuto a prendere, ti ha portato fuori da casa tua fra le sue braccia, ti ha portato all’albergo dove alloggiava. Lo hai avuto nel tuo letto, e adesso è lui che ti ha nel suo. Sgualdrina. Demonio. Diavolo. Essere sprofondato nel peccato.

Lui non lo dovevi toccare. Lui non hai neanche il diritto di guardarlo, di calpestare la sua stessa strada, di respirare la sua stessa aria. Lui è il prescelto dagli dei, la perfezione, la purezza che divide le tenebre. E tu...tu sei la notte, il tradimento, l’imperfezione, il corrotto. Hai sbagliato. Questa volta, hai sbagliato. E non ti aiuterà il viso profanato, il corpo martoriato a evitare la giusta ammenda. Prostitute ce ne sono molte, e molte hanno compiuto crimini riprovevoli. Ma tu...tu, piccola, squallida ragazza hai fatto lo sbaglio più grande: tentare lui. Adesso lui c’è, ma quando riuscirà a sottrarsi alla tua malia, quando l’influsso del tuo potere sarà svanito, allora ti aspetta la giusta punizione. Te la darà lui stesso. E se, altrimenti, nella sua misericordia, lui ti perdonerà, la gente non lo farà mai. Sarai bandita, sarai picchiata, cacciata; forse lapidata. Perchè non si toccano i monaci. Perchè non si deve toccare lui.

“Ti ho rovinato la reputazione...”.

Affonda la testa nelle spalle. Muoversi le costa fatica. Le ferite bruciano a contatto con la stoffa. Le fa male. Dentro. Non doveva andare così. Non doveva distruggerlo. Non lo ha mai voluto, non ha mai cercato di attirarlo nel suo letto. É successo. Punto e basta. E lei non è riuscita a rifiutare le sue mani assetate, la sua bocca avida di qualcosa che non capiva. Si è lasciata andare senza ricordarsi di chi fosse il suo amante; ha lasciato che la esplorasse, che la sentisse. Che la violasse. Come altri prima di lui.

Lo ha trattato come gli altri. Errore. Lui non è gli altri. Lui è Genjo Sanzo. Un monaco. Il primo fra i monaci. E lei lo ha marchiato. Non voleva. Non voleva. Continua a ripeterselo nella testa. Anche se adesso è inutile. Prima. Avrebbe dovuto pensarci prima. Allontanare le sue mani, fermare la sua bocca, ignorare il suo respiro. Avrebbe dovuto cacciarlo via, invece di accoglierlo. Avrebbe dovuto sorridergli fra le lacrime e fingere che andava tutto bene. Che si era fatta male in qualche modo. In uno stupido modo. Falso come la più ipocrita delle scuse. Avrebbe dovuto inventarsi che era caduta dalle scale, oppure che era inciampata in qualcosa finendo contro uno spigolo. Meglio di tutto: aggredita da un cane. Ce ne sono molti che vagabondano randagi ai margini del villaggio. Rinsecchiti dalla fame, rabbiosi e violenti.

Non lo ha fatto. Gli ha permesso di sollevare il suo viso rovinato, lo ha lasciato osservare il suo corpo umiliato. Non lo ha allontanato quando l’ha presa in braccio sporcandosi del suo sangue, della sua perdizione. Ha solo stretto piano le braccia ed è affondata contro di lui.

Perchè te l’ho permesso?

(Perchè sei rimasto lo stesso di allora, per me...)



“Stupidi idioti senza cervello”

Sanzo rilascia tranquillamente il fumo della sigaretta. Non gli è mai importato molto dell’opinione altrui. Meglio curarsi solo di essere fedeli a se stessi. Preferisce una parola sgarbata sbattuta in faccia all’ipocrisia di un sorriso.

É una farsa.

Lo sa benissimo. Quelle persone non aspettano altro che un agnello da sacrificare all’altare. Qualcosa su cui scaricare la paura e l’angoscia per una vita in bilico, mentre il mondo attorno a te va a rotoli. E hanno scelto lei. Senza un motivo. Solo perchè è diversa. Stupidi! Come lui. Offe loro l’occasione di gettare paglia sul fuoco, di affondare di più il coltello nella piaga.

“Non c’è alcuna reputazione da rovinare”

Nimei sorride scuotendo piano il capo. Non lo prende sul serio. Crede che stia cercando di confortarla, di alleggerire la situazione pesante. Non sa che si sbaglia, che davvero non gli importa di quello che possono dire su di lui. Lo chiamino eretico, lo accusino pure di immoralità. Se glielo chiederanno, non tacerà di esser stato con una donna. Volontariamente. Di esser stato lui a iniziare a baciarla, a stuzzicare la sua pelle. Perchè lo voleva. Perchè sentiva di volerlo.

Nimei...Sanzo continua a sbirciarla. La camicia larga, da uomo, che le nasconde le forme, ha i primi bottoni slacciati a lasciare intravedere l’attaccatura del seno. Accarezza con gli occhi la linea armoniosa della coscia. Su fino alle rotondità dei fianchi che spariscono sotto l’orlo bianco. Ha le gambe nude e segnate da contusioni. La destra ripiegata sul letto, la sinistra lasciata distesa, con il piede che sfiora appena il pavimento di legno. Senza malizia. Senza provocazione. La vede passarsi una mano nei capelli, sollevando il rame a mostrare il viso ancora gonfio e arrossato. La manica scivola a scoprile il braccio bianco solcato di blu e fasciato al polso.

La vede allungare una mano fino al tavolino, per raccogliere la tazza di thè caldo. Decide. Spegne la sigaretta nel posacenere e si siede sul letto. Accanto a lei. Le prende il bicchiere e le passa una mano nei capelli che le ricoprono la nuca. La costringe a voltargli il viso e le avvicina il bicchiere alle labbra. Lentamente. Nimei inizia a bere, con calma, e sente gli occhi di Sanzo indugiare sulla sua gola, sul suo alzarsi e abbassarsi ad ogni sorso. Il the scivola lungo le labbra gonfie e provocanti, scende a disegnarle la gola.

Nimei non ha neanche il tempo di pensare al modo per asciugarlo che le labbra di Sanzo le percorrono la gola. Dannatamente seducenti e vogliose. Ha lasciato cadere la tazza e adesso la preme contro il muro, freddo e ruvido. Sanzo la vuole, la vuole disperatamente...La mani del monaco corrono sulle sue gambe, sfiorano le ferite appena rimarginare, premono sugli ematomi strappandole gemiti di dolore e piacere. Nimei reclina la testa, il respiro incontrollato che agonizza in bocca. La stoffa scivola sul seno, la labbra di Sanzo disegnano con malizia ogni centimetro della sua pelle, indugiano sul sangue appena rappreso, su vecchie e nuove cicatrici.

“...Genjo...”

Il nome muore sulle sue labbra, fra i suoi denti voraci. Le preme la bocca con violenza, la bacia con desiderio e fame. Non vuole sentirla parlare. Solo ansimare sotto le sue mani, respirare sulle sue labbra, graffirgli il corpo e gemere nel piacere. É così calda, coinvolgente,

“Chi è stato?”

Perchè glielo chiedo?...Non mi riguarda...

[Non illuderti]



La sua camicia scivola a terra, assieme al lenzuolo, raggiunge quella che indossava la ragazza. La preme sul cuscino e ricomincia a stuzzicarle il collo, risale fino al lobo dell’orecchio e ridiscende lungo un percorso che solo lui vede. Che solo lui riesce a disegnare strappandole sempre un singulto più forte, più intenso. Occhi dilatati di desiderio, assetati di piacere. Labbra dischiuse e tumide. Bagnate di passione.

“Un forestiero”.

Soffoca un gemito mordendosi il polso fasciato. Distende i muscoli delle gambe e lo costringe a risalire verso la sua bocca. Vuole di nuovo il suo sapore, le sue labbra a stuzzicarle il viso, a disegnarle il mento delicato. Sanzo sente le mani della ragazza tracciargli il profilo del mento, risalire agli zigomi e stringerli forte, costringendolo alla sua bocca, alle sue labbra.

Forestiero come me...Cosa voglio dimostrare?...

[Che non sei come lui. Che non la ami, ma non ti abbassi a violentarla per averla]



“Aveva occhi e capelli cremisi”



*****



Attorno a lui è tutto buio. Gli fa male la testa, e ha una voglia matta di piangere. Senza sapere il perchè. Cerca di sollevarsi a sedere e l’unico risultato è il violento capogiro che lo fa piegare su un fianco. La mano corre alla bocca. Sapore acido sulle labbra, sulla lingua.

Non ricorda dove si trova, non sa neanche come ci è arrivato, in quel letto. Era vicino ad un villaggio. Avrebbe accorciato di molto tagliando per il borgo, ma non gli andava di vedere gente. Non sopporta di incontrare qualcuno. Detesta sentirsi fissare, detesta che notino il chakra che gli segna la fronte. Per questo ha fatto crescere i capelli. Li lascia ricadere disordinati sulla fronte. Se non si vede, non può far male. Non così tanto. Se lo ripete di continuo.

Riesce a mettersi seduto contro la spalliera. La stanza è piccola, scura. Deve essere notte. All’improvviso, ha paura. Sente lo stomaco contrarsi. Non sarebbe strano se fosse in una prigione. Se qualcuno lo avesse catturato e sbattuto lì. Quanti aggressori ha ucciso, in qui tre anni che vagabonda? Non ricorda neanche il numero. Li ha uccisi e basta. Per vivere. Per continuare a vivere. Non ne è contento. Per niente. Ogni morto gli pesa sulla coscienza. In modo opprimente. Soffocante.

La testa pulsa in modo sempre più doloroso. Fa dannatamente male. Il suo copro non risponde. Lo sente pesante, freddo, lontano. Percepisce qualcosa, crede di sentire qualcosa. Non riesce a capire. Muove le mani freneticamente. La pistola...dov’è la pistola? L’hanno presa, gliel’hanno prese. È disarmato. Inerme. Finito.

Vede luce, e poi buio.

Sanzo riapre gli occhi. La testa fa male, ma sembra più sopportabile. Si passa una mano sulla fronte. Bagnato. Ritira un fazzoletto umido d’acqua. È quello ad avergli alleggerito il cerchio alla testa. Volta piano la testa, e la vede. O meglio, riesce a definire una cascata di rame che gli sfiora le mani, un corpo accartocciato su una sedia, reclinato accanto al suo.

[Diluviava quando Nimei mi aveva trovato vicino a casa sua, febbricitante. Ero svenuto e sporco di sangue, le vesti stracciate. Avrei potuto essere chiunque: un assassino, un manico, un delinquente. A lei non è importato. Mi ha portato fino a casa sua, mi ha curato e accudito durante il delirio. É rimasta accanto al mio letto per due giorni. E non sapeva nemmeno chi fossi o come mi chiamassi. Sapeva solo che avevo una pistola e che ero coperto di sangue. Eppure, mi disse che l’unica cosa che aveva notato era il mio pallore e che avevo la febbre alta].

“Perchè non provi a riposare un po’, Genjo?”

Sanzo si gira su un fianco. Nimei lo chiama per nome. Adesso sa che è un monaco. Adesso sa che porta il più alto dei titoli monastici, eppure lo chiama per nome. Gli piace. Non sa perchè, ma sentirglielo pronunciare, sentirglielo dire senza parole di venerazione, senza falsi ossequi gli piace. Vuole che lo chiami così.

[Mi aveva lasciato il suo letto. Mi aveva lasciato libero di riposare. Ma dopo che la febbre era scesa, le mie notti si consumavano insonni. Se solo riuscivo ad addormentarmi, gli incubi e l’angoscia mi divenivano compagni. Sognavi di fuggire, di uccidere. Vedevo persone cadere sotto i colpi della mia pistola, sentivo le loro grida di agonia. Gli spari della mia pistola erano una marcia assordante. Continua. Sognavo di puntarmi la pistola alla tempia e sparare. Sognavi di metter fine alla mia vita con la stessa facilità con cui sotterravo quella degli altri. Eppure, è così difficile avere il coraggio di premere un grilletto quando ti senti la canna fra i capelli]

“Fermati!”

Il cane è sollevato. L’indice sul grilletto. Il proiettile al suo posto nel tamburo. Basterebbe un solo istante, e tutto si macchierebbe di rosso. La sua pelle, i suoi capelli biondi, le sue vesti scure. Tutto rosso.

Sarebbe tutto finito. Tutto dimenticato. Tutto passato. Ma Nimei non glielo permette mai. Non lascia mai che prema quel grilletto. Arriva sempre in tempo. E gli ruba la morte. La pistola riposa sulle sue ginocchia, fra le lenzuola di un letto sconosciuto. Il primo su cui dorma da tre anni. E sulle sue mani sono strette altre mani. Le uniche che lo possono toccare. Le uniche che non riesce a scacciare.

Nimei gli stringe le dita lunghe e magre. Gli preme la fronte sui polsi ancora deboli. È inginocchiata accanto al letto, Nimei. Questa volta, ha avuto paura. Terrore di non arrivare in tempo, di sentire la detonazione e trovarlo morto. Di non riuscire a fermarlo. Invece, il proiettile si è conficcato nel soffitto, e lui rimane seduto sul letto, gli occhi vuoti che navigano nel nulla. Lui rimane vivo.

[Non mi ha mai chiesto nulla di quello che mi fosse successo. Per tutto il tempo che mi ha ospitato non mi ha mai chiesto nulla. Non ha cercato di salvarmi, di svegliarmi dal mio abbandono, ma ha vegliato su di me. Mi ha impedito di lasciarmi andare, di smettere di respirare. Anche quando, in un attimo di follia, le ho puntato contro la mia pistola Nimei non ha avuto paura di me e non è scappata. Una sciocca e testarda ragazzina! Avrei potuto ucciderla, e lei si limitava a sorridere e a stringermi a sé]

“Posso dormire con te, Genjo?”

Il temporale si riversa nel buio. Scrosci gelidi e continui, accompagnati dal rombo dei tuoni e dall’intensità del lampo. Nimei ormai ha imparato che Sanzo non sopporta la pioggia. Lo mette di pessimo umore. Lo rende inavvicinabile. E il viola dei suoi occhi è ancora più cupo e vuoto del normale.

Però...però quella notte non se la sente di lasciarlo solo. Lo ha appena riaccompagnato in casa. Era fuori. Sotto la pioggia gelida di fine autunno. Vomitava. Aveva appena fatto un’altro dei suoi incubi ed era uscito per respirare. Al diavolo anche l’acqua! Non era la prima volta che fantasmi e ossessioni lo svegliavano di notte e lo costringevano a rigurgitare anche l’anima, disgustato da quello che era, dai ricordi che aveva. Quella volta, però, Nimei lo aveva raggiunto sotto il temporale, si era seduta accanto a lui nella terra fangosa e bagnata e gli aveva tenuto la fronte mente i conati gli dilaniavano la gola.

[Non ha avuto schifo di me, non si è ritratta neanche quando ho iniziato a vomitare sangue per il troppo sforzo. È rimasta accanto a me sempre, asciugandomi lacrime e sudore che si confondevano con la pioggia. Non si è neanche accorta che piangevo, tanto il mio viso era bagnato. Non si è mossa nemmeno quando il freddo mordeva la carne e le mani erano ormai viola].

Lo ha riaccompagnato a letto, lo ha aiutato ad asciugarsi e ad indossare un kimono pulito. Ha fatto tutto lei. Sanzo lo sa. Lui non ha mosso un muscolo. Troppo svuotato, troppo smarrito. Non si è curato che Nimei tremava di freddo mentre lo asciugava, ha ignorato le sue labbra violacee scosse da brividi, le sue mani di gelo che gli sfioravano il copro e lo frizionavano con l’asciugamano. Continua a fissare il vuoto davanti ai suoi occhi. Le immagini di tre anni di incubo.

[Non ha aspettato che le rispondessi. Si è sdraiata al mio fianco, nel suo letto. Mi ha posato la testa sul petto e si è stretta a me per ricevere un po’ di calore. Io non ho fatto nulla. Ho lascito che restasse accanto a me per tutta la notte. Non ho capito se lo ha fatto perchè aveva davvero freddo, perchè provava qualcosa o perchè non voleva lasciarmi solo. Ricordo però che è rimasta sempre con me. La prima volta che una donna ha dormito con me. Respirando sulla mia pelle, toccando il mio corpo, sfiorandomi con le sue labbra].


“É stata l’unica volta, da quando era morto il mio maestro, prima che assumessi il controllo del tempio di Keiun, che ho dormito sereno. Senza che gli incubi mi assillassero”.



*****



Sanzo si preme la lattina contro la guancia. Gli fa un male del diavolo! Spera solo che il freddo impedisca che gli resti il livido. Non sarebbe molto decoroso e poi...Al diavolo! Gli starebbe più che bene, invece! E la cosa gli brucia da morire, questa è la verità.

“Adesso cosa dobbiamo fare, Sanzo?”

Sanzo non capisce. Lo sguardo di Hakkai sembra normale, perfettamente rilassato e tranquillo. Gli sembra impossibile. Forse si aspettava che lo prendessero per un depravato, forse si aspettava che gli urlassero contro tutto il loro disgusto. Un monaco che cede al piacere della carne, lui che si atteggiava a superiore indifferenza, che scherniva con disgusto la debolezza di Gojyo...Lui, Genjo Sanzo, si è lasciato prendere dal piacere carnale e dalla lussuria.

Invece, nulla. Sono seduti a quel tavolo come se niente fosse. C’è odore di dolciastro di fumo. Gojyo sa esagerando con le sue hi-light. Ne ha fumato un pacchetto in due ore, e il loro profumo riempie l’ambiente. Sanzo ha la nausea, ma non gli dice niente. Fissa la lattina vuota che ha usato come portacenere. Una latina di birra. Come quella che lui si preme sulla guancia.

Ha raccontato loro di Nimei. Ha raccontato di come l’ha conosciuta, quattro anni prima. Una ragazzina ancora piena di sogni. Una ragazzina che non si è fatta problemi a ospitarlo in casa sua, a dargli da mangiare anche se con il suo stipendio riusciva appena a provvedere a se stessa. Diceva che era un amico, e che gli amici vanno trattati con ogni riguardo. Sopratutto se ammalati.

Adesso, che illusioni hai Nimei?

[...Conosci la risposta...Gliela hai letta negli occhi...]



Non riusciva a credere che fosse lei. Rivederla sotto quell’acquazzone gli era sembrato un’illusione. Aveva rivissuto tutto di nuovo: Nimei che lo prende per mano e lo porta a casa sua; Nimei che gli sorride preparandogli qualcosa di caldo e gli dice di farsi un bagno; Nimei che gli presta abiti da uomo e glieli toglie come se fossero vento. Lui che la bacia contro quella porta, che la trascina sul letto. Lui che la vuole senza un perchè, solo per soddisfare un desiderio, per dimostrare a se stesso che non è solo il monaco di alto livello.

Sanzo si prema la mano nei capelli. É andato con lei solo per il suo orgoglio, solo per dimenticarsi per una notte di quello che è. Non gli è importato del perchè fosse così a Ovest rispetto al villaggio dove l’aveva incontrata. Non gli è importato di quello che le è successo. Non gli interessava sapere dov’è finita la luce che le accendeva gli occhi. La presa senza preoccuparsi se lei volesse o meno. non l’ha costretta con la forza, ma non le ha neanche lasciato la possibilità di andarsene. L’ha trattata come la trattano tutti gli altri: un oggetto cui prendere senza dare nulla in cambio. Solo da usare.

Stringe alcuni ciuffi biondi, nasconde parte del viso contro l’avambraccio. Quando gli ha detto quello che era, quando gli ha detto quello che aveva dovuto diventare...Sanzo non ricorda bene cosa ha provato. Però ricorda che ha solo desiderato averla di nuovo. Con rabbia, violenza, passione. Ricorda di aver vinto la sua resistenza, di averla sentita piangere. Ricorda che voleva dimenticare le sue parole, quella realtà che gli sembrava impossibile. Soffocarla nel piacere, nei gemiti, nell’estasi.

L’ho desiderata come nient’altro in vita mia...

Nimei adesso riposa nel suo letto, nuda fra ruvide lenzuola di cotone grezzo e lana. L’ha costretta di nuovo a sè. Se n’è fregato che si fosse appena ripresa, se n’è fregato che l’avessero appena violentata e picchiata. La desiderava e l’ha presa. Le ha strappato gemiti e lacrime premendo la pelle profanata, l’ha nutrita di piacere e dolore. Si è nutrito di lei. Non riesce a cancellare dalla mente il suo corpo bianco bagnato di sudore, teso nel piacere, arrossato e profanato. É eccitante. Terribilmente eccitante.

Adesso...adesso è tempo di svegliarsi. Ha un viaggio da proseguire, e lei non può farne parte. Non avrebbe dovuto neanche entrare nella sua vita. Potrebbe andarsene lasciandola in quel letto. Potrebbe uscire senza dirle nulla, come ha già fatto due volte. Se n’è sempre andato senza salutarla. Quattro anni prima e poche ore fa.

[...credi che se fossi rimasto sarebbe cambiato qualcosa?...]



Sciocchezze! Non mi riguarda!

[E allora perchè sei tornato indietro?]



Zitto! Non l’ho fatto per lei!

[Puoi mentire agli altri, anche a te stesso...ma le tue azioni parlano per te]



Non m’importa nulla di lei. Ma non sopporto chi usa la forza per ottenere ciò che vuole. Soprattutto se l’avversario è più debole.

Si alza cercando per la stanza una giacca qualsiasi. Trovata. Il giubbotto di Gojyo. Se lo getta sulle spalle nude e si ravviva i capelli con la mano. La pistola riposa su un comodino. Apre il tamburo e lo carica.

Primo proiettile.

“Hei, bel biondino! Si può sapere che intenzioni hai?”

“Non rompere! Non sono affari tuoi”

É un faccenda solo mia.

[Perchè?]



Secondo proiettile.

“Non conveniamo con te, Sanzo!”

“La cosa mi è indifferente”

Voglio cancellare la faccia di quel maledetto.

[Lo sai perchè lo detesti anche se non lo hai mai visto?]




Terzo proiettile.

“Tu...Quello va in giro come me, e non mi riguarda?! Mi sta rovinando la reputazione!”

“Non sarà un grave perdita”

Lei l’ha provata sulla pelle il costo della tua reputazione

[Sei sicuro che volessero colpire Gojyo? In fondo, sei stato tu prima ad averlo quasi ammazzato]



Banale scambio di persona. Se fossi riuscito, comunque, avrei eliminato un idiota. Non sarebbe stata una grave perdita.


Quarto proiettile.

“Sanzo...Io credo che sia tu il bersaglio. E il sutra”

“Ovvio”

Touchè. Hakkai, possibile che colpisci sempre così bene?

[Ti senti in colpa vero?]



Non diciamo sciocchezze!


Quinto proiettile.

“Vengo con te!”

“Non ci provare, o ti uccido! Ti ho già detto che non ti riguarda!”

Perchè mi ostino? In fondo, non sopporto di essere coinvolto in qualcosa che non mi riguarda

[Davvero non ti riguarda?]



Lei e io abbiamo solo passato la notte assieme. Non c’entra con me. Con il mio compito.

[Fa differenza, se serve ad attirarti in trappola?]



No. Non fa differenza...


Sesto proiettile.

“Sanzo...”

“Che vuoi scimmia?”

[Sai perchè vuoi risolvere da solo la questione?]



Prova a dirmelo tu...

[É facile...Perchè non vuoi perderla]



Ridicolo!


“Sanzo...Nimei...Tu...le vuoi bene, vero?”

Tamburo carico. Inserito.

“Cosa vai farneticando?”

“Insomma! La ami, giusto?”

...la amo?...

[Rispondi!]



..so cosa vuol dire amarla?...

[Non lo hai forse fatto?]



No. Non l’ho amata. L’ho usata.

[Sicuro?]



Sì.


“No”



*****



“Ron”

La pedina si abbassa. Un tonfo leggero. Goyjo continua a fumare; ormai, ha consumato un altro pacchetto. Detesta che qualcuno lo usi. Non sopporta che ci sia una persona con la sua faccia che se ne va in giro a violentare le donne se non lo vogliono. Va bene correr dietro ad una bella ragazza, farle la corte, farle qualche proposta anche un po’ volgare...ma una donna non si deve toccare se non lo vuole. Non importa se è normale o se è una prostituta. Se non ci sta, ti fai passare la voglia o ne cerchi un’altra. Non si deve costringere una donna.

Vorrebbe essere anche lui lì fuori. Girare per ogni bettola, per ogni stanberga di quel dannato villaggio per scoprire chi è il cretino che se ne va in giro con la sua faccia. E se lo potesse trovare gli darebbe una bella ripassatina. Gli farebbe passare la voglia di picchiare le donne. Vorrebbe restituirgli con gli interessi i cazzotti che Sanzo è riuscito a mandare a segno.

Accidenti a quel bonzo! Era furioso quando è uscito dalla sua camera. Stralunato, a torso nudo, i capelli arruffati e sudato. Gli aveva sorriso malizioso e lo aveva stuzzicato un po’. Nimei era proprio una bella ragazza, e non ci voleva molta immaginazione per capire cosa avessero fatto nel tempo che Sanzo era rimasto nella sua stanza. Si era aspettato che lo avrebbe minacciato di morte, che lo avrebbe colpito con l’harisen. Si era spettato di vederlo scrollare le spalle e afferrare una sigaretta.

Lo aveva scaraventato a terra, invece. Sanzo aveva caricato a testa bassa e lo aveva rovesciato dalla sedia, rotolando con lui sul pavimento, cercando in tutti i modi di divincolare una mano e sferrargli un pungo. Sembrava uscito di senno. Perchè qualcuno con la sua faccia, con i capelli e gli occhi del suo stesso colore aveva violentato quella ragazza.

Gojyo non aveva mai visto Sanzo in quello stato. Lui sempre cinico e indifferente. Non lo aveva mai visto perdere il controllo a quel modo. Si era stufato di incassare e gli aveva rifilato un destro che lo aveva scaraventato contro un letto. Sanzo aveva ringhiato di rabbia, ma alla fine Hakkai era riuscito a riportarlo alla ragione. Gojyo non poteva essere il responsabile di quanto successo a Nimei: non aveva mai visto quella casa prima che ci accompagnassero lui, non aveva mai lascito Goku e Hakkai per tutto il tempo che lui se ne era andato.

“Ma non mi consoci ancora?! Credi davvero che sarei capace di violentare e picchiare una donna?!”

No. Sanzo lo sapeva bene. Ma aveva avuto bisogno di sfogare la sua rabbia su qualcuno. Qualcuno che fosse un perfetto capro espiatorio, ideale per impedirgli di pensare che la colpa di tutto, in fondo, era solo sua. Che non aveva solo giocato con Nimei, ma l’aveva anche coinvolta.

Accidenti! Spera davvero che Sanzo lo trovi, quel bastardo. E che la lezione che gli darà non se la scordi tanto presto! Spegne la sigaretta e beve un sorso di birra. La partita sta andando decisamente male. Hakkai è imbattibile come al solito.

“...Non c’è Genjo?...”

“Ah, si è svegliata, signorina Nimei. Come si sente?

“Meglio, grazie...”

Nimei abbassa gli occhi. É a disagio, con quella camicia larga che arriva a coprirle appena metà della coscia. Sente gli occhi di quegli uomini sul suo copro. Non le piace. Non le è mai piaciuto come gli uomini la guardano. Sembrano sempre volerla spogliare con gli occhi. Sembrano sempre aspettare il momento ideale per portarsela a letto.

Si stringe nelle braccia. Vorrebbe che ci fosse Genjo in quella stanza. Forse non la degnerebbe di uno sguardo, probabilmente la ignorerebbe continuando magari a leggere il suo giornale, ma almeno ci sarebbe. Non sarebbe sola.

“Senti...Perchè chiami Sanzo Genjo?”

Goku ha il viso a pochi centimetri da quello della ragazza. Nimei lo fissa senza capire. Quel ragazzo avrà si e no diciott’anni. E una spensieratezza negli occhi che lei, a quell’età, non ricordava più cosa fosse. Erano due anni, ormai, che era costretta a vendersi. Due anni in cui la sua innocenza era un ricordo, scivolata via dal suo corpo con le lacrime che versava quando restava sola; strappata dalla sua anima senza possibilità di ritorno.

“È il suo nome, no?”

“Bhè, sì...Ma non lo usa mai nessuno...”

Sanzo non vuole esser chiamato per nome

Nimei trema. Non capisce perchè, ma si sente a disagio. C’è un’aria strana, in quella stanza. Pesante. Di attesa. Vede la veste di Genjo su un letto; manca la pistola. Ha paura. Inizia a capire cosa sta succedendo. Cosa stanno aspettando. Chi.

“...dov’è Genjo?...”

Ditemi che non è come penso...Vi prego, ditemelo!

(Cosa speri che cambi, Genjo?)



“É andato a togliere un po’ di arroganza a un tizio che non sa tenere le mani a posto”

No...

Nimei arretra sbarrando gli occhi. Trema. Sa che Genjo è forte, sa che ha già ucciso molte persone, demoni o esseri umani, con la sua pistola. Ricorda il lampo che gli aveva attraversato gli occhi quando le aveva puntato la pistola contro, in una notte lontanissima nella memoria. Ricorda il suo dolore e la follia disperata di quegli occhi viola. Vuoti. Smarriti. Terrorizzati.

No...Non serve a niente...

Si porta le mani alla testa, la preme, affonda le dita fra i capelli scarmigliati. Scuote il capo con violenza, lasciandosi scivolare a terra contro la parete. Ansima forte. Sempre più forte. Non ha aria. Non respira.

Non cambierà niente Genjo...Non cambierà mai...

Sente il cuore battere tanto da assordarla, le orecchie ronzano. Vorrebbe urlare, ha la bocca spalancata, ma non riesce a emettere un suono. La gola brucia terribilmente. É secca e raschia ogni respiro che le riesce. Si sente scuotere, ma non reagisce. Si sente chiamare, ma non risponde.

Puoi anche trovarlo, Genjo...potrai anche scaricargli contro la tua pistola...Non ha importanza...Domani, ce ne sarà un altro...E io sarà di nuovo violentata e picchiata, legata al mio letto e costretta a subire...

Non lo puoi cambiare, Genjo...Oggi sei qui, ma domani io sarò di nuovo sola...A piangere fissando il soffitto mentre corpi estranei si muovono sul mio, nel mio...mentre sento labbra sporcarmi e mani continuare a toccarmi...Mentre sento la mia voce affondare in gola, gemere nella finzione...


Nimei non sente le lacrime che le disegnano il viso. Non le sente correre sulle guance pallide, sfiorale il mento e scivolarle lungo la gola in tracce umide e sottili. Si perdono nel colletto della camicia, si insinuano sotto la stoffa, nell’incavo dei seni. Scompaiono nel suo corpo. Come è svanita la sua fanciullezza. Come si sono dissolte le speranze che raccontava, in fredde notti d’autunno, a un ragazzo condannato all’insonnia del rimorso.

Non puoi cambiare più nulla, Genjo...

“Signorina Nimei...Non deve preoccuparsi per Sanzo. Vedrà che presto sarà di ritorno”

Braccia che la stringono, che cercano di frenare i suoi singhiozzi. Hakkai avvicina la ragazza al suo petto e la culla come se fosse una bambina. Nimei ha appena ventidue anni. E negli occhi una disillusione e una rassegnazione profonde come il nulla. Non coltiva più niente dentro di sè, non fa nulla per svegliarsi dall’incubo in cui si è vista precipitare. Sanzo ha raccontato loro di una ragazza timida e riservata, ma forte delle sue fantasie, di speranza verso un futuro che le si dipingeva davanti.

Hakkai la stringe di più. Forse, solo Sanzo sa cosa ha passato in quei sette anni in cui si è venduta, o forse neanche lui lo può immaginare. Non si può descrivere l’umiliazione e l’abbrutimento cui gli uomini possono condannare. Nimei deve aver seppellito ogni violenza, ogni profanazione, ogni sopruso nel fondo della sua anima. Dimenticare ogni cosa per non lasciarsi uccidere dal rimorso e dal passato.

Piangi, Nimei...Piangi finchè lo vuoi...hai bisogno di piangere...



*****



“...Sanzo...”

Sanzo scruta per un istante l’oscurità che ovatta la stanza. Non c’è luna, quella notte. Nè stelle. Il cielo è un mantello di inchiostro, cupo e minaccioso. É profondo come la perdizione, è come gli occhi bui e vuoti di Nimei.

Finge di ignorarla mentre si toglie la giacca lercia di fango e sangue. Alla fine, è riuscito a trovarlo quel dannato bastardo. E chi era? Un maledetto essere umano, che non aveva altro divertimento, nella vita, che andare per postriboli a soddisfare i suoi bassi istinti. Il mondo forse starà meglio senza di lui. Gli ha dato davvero il voltastomaco.

Disgustoso

Lo ha trovato rintanato in uno squallido bordello, ubriaco fradicio e mezzo svestito. Non c’è voluto molto a riconoscerlo, anche se non lo aveva mai visto. Si stava vantando che il modo migliore per addescare una donna e fingersi un demone. Dei demoni le donne hanno paura. E allora si lasciano prendere senza troppe storie. Lui, poi, si era fatto costruire una parrucca rossa e aveva rimediato anche un paio di lenti dello stesso colore. E le mostrava come il trofeo di una caccia.

Sanzo non ci aveva più visto. Lo aveva scaraventato per terra dalla panca con un calcio, fra stoviglie, birra e avanzi d cibo. Gli aveva chiesto se era stato lui a violentare Nimei. E quello stupido spaccone, nonostante la pistola puntata in fronte, aveva iniziato a ridere lisciandosi il mento. Certo che era stato lui l’ultimo nel letto della ragazza. L’aveva picchiata per bene, e per un bel po’ non avrebbe più mostrato il suo bel faccino. Così imparava, aveva detto. É solo una yotaka, senza alcun diritto di fare la schizzinosa. L’avrebbe pagata bene, e invece lo aveva messo alla porta. Ma lui non è tipo da lasciar correre.

Ce n’era voluto per metterla sotto, aveva urlato e scalciato impazzita, ma alla fine le sue mani avevano avuto ragione di quella ragazzina. Si era anche divertito, con lei. E magari sarebbe tornato a trovarla, appena fosse stata in grado di ricevere di nuovo. Voleva proprio vedere se gli avrebbe chiuso di nuovo la porta in faccia, e se gli fosse ripassata per le mani avrebbe saputo lui come farla divertire, aveva esclamato accompagnando le parole con un gesto osceno.

Sanzo aveva ridotto gli occhi a due fessure, prima di allontanare la pistola e omaggiarlo di un pugno che aveva portato l’uomo lungo disteso sul pavimento. Del resto non aveva voluto ricordare altro. Solo il terrore di quegli occhi mentre gli scaricava l’arma in viso, in quel vicolo lurido dove si era conclusa la loro lotta.

Un bastardo della peggior risma

[E tu cosa sei?...]



Sanzo sente gli occhi di Nimei sulla sua schiena nuda. É seduta sul suo letto, con il viso appoggiato ad una mano e i capelli goffamente raccolti sulla nuca. Sa che farebbe meglio a uscire, anche a costo di passare la notte in stanza con Gojyo. Sa che dovrebbe dimenticarsi di lei e del suo viso, del suo corpo. Sa che è maledettamente sbagliato quello che sta per fare, l’errore che sta per ripetere di nuovo. Sa che non potrebbe stringerla fra le braccia, gustare il suo sapore.

Sul tavolo, accanto alla sua mano nervosa, c’è il sutra. La sua vita. La sua maledizione. Il suo ruolo e il suo passato davanti ai suoi occhi; alle spalle, una ragazza che lo fa bruciare, che lo conduce al delirio della carne. La sua ossessione.

“...Sanzo...”

Sanzo volta la testa e finalmente la guarda. Si è seduta sul bordo del letto, in attesa. Muove appena i piedi scalzi sul legno del pavimento, giocherella con le maniche troppo lunghe della camicia, liscia nervosamente le pieghe delle lenzuola. Fissa quel viso profanato, quegli occhi vuoti. Fissa il sutra.

Respira. Va bene. Ha deciso.

Raggiunge la porta e la chiude a chiave. Lentamente, gli scatti della serratura echeggiano nella stanza e si spengono.

Ti voglio ancora...per l’ultima volta...

Si avvicina ai piedi del letto, mentre Nimei si raggomitola contro la testiera. Sa che non ha paura, ma sa anche che non vorrebbe che la prendesse. Lo capisce da come preme le ginocchia al petto, da come stringe le mani a pugno. Pugni così piccoli, come quelli di un bambino.

Sa che non vorrebbe che lui si avvicinasse, ma sa anche che non lo rifiuterà. Non lo ha mai rifiutato. Si lascerà toccare, prendere, usare. Si lascerà liquefare da un piacere falso e ipocrita. Inesistente. Lascerà che lui prenda quello che vuole dal suo corpo, senza far nulla per fermarlo. Assecondandolo, purchè tutto possa finire in fretta. Senza ricordi, senza pensieri.

“...Nimei...”

Sanzo cammina carponi sul letto. La stoffa è un fruscio impercettibile, assieme alle molle del materasso. Si ferma e fa scorrere le mani fino alle caviglie della ragazza. Sono sottili e fredde. Stringe all’altezza del malleolo. Trascina.

Nimei affonda con la testa nel cuscino, le sue gambe attorno al corpo di Sanzo, la bocca a pochi millimetri dalla sua. Sanzo intreccia le loro dita, è sopra di lei, le braccia tese a sostenere il suo peso. Si china a sfiorale le labbra, solleticandogliele con la lingua. Gioca un po’ col suo viso, prima di soffocare ogni parola in un bacio affamato e violento. Capelli nei capelli, mani sul viso, labbra su labbra, respiro nel respiro.

Scende a stuzzicarle la gola, per poi risalire dietro l’orecchio, sulla pelle del collo. La sente bruciare sotto le sue mani, la sente ansimare di piacere e affanno.

“...Sanzo...”

“Perchè mi chiami così?”

Il suo respiro rovente le alita all’orecchio, le soffia sulla pelle sempre più coinvolta e infiammata. Le mani scendono ai bottoni della camicia, slacciandoli con sadica lentezza, accompagnando ogni gesto da un bacio sempre più malizioso e irriverente.

“I tuoi amici ...mi hanno detto...che non vuoi esser chiamato...diversamente...”

Nimei inarca la schiena. Sanzo ha semplicemente posato la testa nell’incavo del suo collo, eppure quella sensazione, il respiro del monaco sulla pelle, le sue labbra che le disegnano la clavicola, sono più eccitanti di ogni carezza.

“Continua a chiamarmi Genjo”

Solo tu...Voglio sentire il mio nome solo sulla tua bocca, voglio assaggiarlo dalle tue labbra...

[Fermati, prima di ferirla]



Non lo farò...

[Falso. Ipocrita. Sai che non la ami. Sai che è solo corpo per te]



Lo sa anche lei...

[Ne sei sicuro?]


Sì...

Riprende a baciarla con foga, lascia che le mani di Nimei esplorino di nuovo il suo corpo. Tocco leggero e inebriante, come il profumo del mosto d’autunno. È una droga per la sua mente, una condanna per il suo corpo. La vuole, la desidera. Vuole sentire la sua pelle sulla sua, le loro labbra che si rincorrono, i loro capelli confondersi.

Strofina il viso contro il suo, lasciando che Nimei gli affondi la mano nei capelli della nuca, gli stringa i fianchi.

[Disilludila]



“Io non ti amo”

“Lo so”

Sanzo preme le mani contro la sua colonna vertebrale, risale alle spalle e la costringe seduta. La camicia è ormai aperta e lui l’accompagna lungo le spalle, le braccia, avendo cura di sfiorare ogni centimetro di pelle che gli passa sotto le dita.

[Uccidila]



“Domani, me ne andrò”

“Lo so”

Nimei lo stringe al suo corpo, lo trascina con sè sul letto ormai sfatto. Lo tiene premuto al suo petto, accarezzandogli la testa come con un bambino. Beandosi di quel calore che emana da lui. Non si è mai accorta di quanto possa esser caldo il corpo di un uomo, di quanto possa dare sicurezza e offrire solidità. Anche se è solo un’illusione.

[Spaventala]



“Sono un monaco”

“Lo so”

Nimei gli sorride, gli cinge il collo con le braccia e lo attira alle sue labbra. le gambe gli stringono i fianchi, e lui la preme sempre di più nel cuscino, la fa affondare in un letto d’amante.

“...Nimei...io...”

Gli mette un dito sulla bocca, carezzandogli le labbra con attenzione maniacale.

“Godi di me, Genjo...godi ancora di me...”

Per l’ultima volta

[Per l’ultima volta]





*****



“Ti aspetterò”

“Potrebbe essere lunga, come attesa”

[Potrei non tornare]



Nimei scrolla le spalle. Non le importa per quanto non lo rivedrà. Le basta sapere che, prima o dopo, il tempio di Keiun lo accoglierà di nuovo. E lei sarebbe stata lì ad aspettarlo.

“Sai che sarà diverso, vero?”

[Sono un monaco]



“Lo so Genjo...Non ti recherò disonore”

[Stupida...Non intendevo quello...]



“Io non ti amo, e se speri che con il tempo...”

“Non spero”. Nimei si stringe le gambe al seno nascosto nell’ampia camicia. “Sono anni che ho smesso di sperare”

Sanzo lascia cadere a terra la sigaretta con un gesto rassegnato. Non si possono cambiare le persone, e Nimei non tornerà più quella dei suoi ricordi. Resterà sempre scottata dalla vita, defraudata di se stessa. E lui non esiste per fare il giustiziere, per riparare ai torti di un mondo che non gli ha mai dato nulla e gli ha preso tutto.

[Proprio tutto?]



“Genjo...Credi che mi prenderanno a servizio nel tuo monastero?”

“La lettera che ti ho dato è un ordine inviolabile”

Nimei sorride come una bambina con un nuovo giocattolo in mano. Lascerà quel villaggio, lascerà il nulla che riempie la sua casa e andrà ad Est. L’estremo Est. Lì dove lo ha incontrato per la prima volta. Ha in tasca una lettera per il superiore del tempio di Keiun, e le chiavi della casa di Gojyo e Hakkai. Potrà fermarsi lì, almeno finchè non troverà un alloggio per sè.

“Genjo...Perchè non te ne sei andato prima che mi svegliassi, come l’altra volta?”

Nimei fissa il cielo d’argento. Presto verrà a nevicare, e tutto sarà bianco. Adora la neve. Le è sempre piaciuta. L’ha sempre invidiata perchè, per quanto la si sporchi e la si tocchi, lei in fondo resta sempre bianca. Inviolata.

Si era aspettata di svegliarsi sola nel letto. Sette anni prima, Genjo se ne era andato senza dirle una parola, lasciandole solo il vuoto di un saluto mai pronunciato. Nimei non si illudeva che sarebbe stato diverso. Non si illudeva che tutto potesse cambiare solo perchè lui l’aveva avuta nel letto.

Aveva allungato la mano ad occhi chiusi. Il posto accanto al suo era vuoto e freddo. Aveva tuffato la testa nel cuscino. Aveva ancora il suo odore, di sigarette e incenso. Anche la prima volta che lo aveva incontrato Genjo profumava di incenso.

“Buon giorno”

Nimei aveva sollevato la testa e lo aveva visto. A petto nudo, seduto sul davanzale della finestra, mentre fumava tranquillamente la sua sigaretta. Le era sembrato bellissimo e irraggiungibile, ammantato da un alone di luce che glielo rendeva intoccabile.

Invece, Sanzo aveva gettato il mozzicone agonizzante e l’aveva baciata un’ultima volta, facendole assaporare di nuovo il suo sapore di tabacco e mirra. Il suo gusto di uomo.

[Perchè non me ne sono andato?...]



“Perchè devo farti una domanda”

[E solo tu hai la risposta]



Nimei lo fissa incuriosita. Crede che la stia prendendo in giro.

“Io sono un sanzo, ho la più alta carica cui un monaco possa aspirare, il titolo che può unificare tutto il Togenyo. Custodisco un sutra che ha in sè una parte stessa dell’universo...”

Nimei lo ascolta senza capire. Quel discorso non riesce ad avere un senso. Non ha nè capo nè coda, e non è da lui. Non è da lui declamare i suoi titoli.

“Chi hai amato questa notte?”

[Dimmi chi sono]



“Ho amato l’uomo”


Sanzo fissa il villaggio sparire nello specchietto retrovisore, e una figura farsi sempre più piccola e lontana. Nimei è scomparsa. È entrata nella sua vita quando era nel buio più nero e gli è stata accanto senza chiedergli nulla in cambio.

Lo ha accolto nel suo letto anche se sapeva chi era, anche se sapeva che non l’avrebbe mai amata. Anche se era cosciente che sarebbe stata solo un divertimento, un gioco, il piacere di una notte. E lei, violata, umiliata, frantumata, ha continuato a tenersi stretto lo splendore che porta con sè. Fisso e accecante anche in mezzo alla sua disillusione.

Sanzo spera che Nimei si dimentichi di lui, che sotterri nel suo cuore quei sentimenti che le farebbero solo male. E sa anche di averle dato il pretesto per soffrire ancora, ad aspettarlo al suo tempio. Ma, forse, è meglio così che saperla costretta a vendersi di nuovo. Non la può salvare, ma non ha neanche voluto abbandonarla.

“Sanzo...Mi dici perchè Nimei ti poteva chiamare per nome?”

[...il mio nome...]



“Ah, la scimmietta non ci arriva! Poverina!”

“Piantala Gojyo! Perchè? Tu lo sai, invece?”

[Dillo solo tu, il mio nome]



“Ecco, dunque...perchè...Hakkai!!! Tu lo sai, vero?”

[Te lo dissi la prima volta che ci incontrammo. E tu lo preferisti al mio titolo]



“Perchè non lo chiedete a Sanzo?”

Sanzo solleva lo sguardo sui suoi compagni. La curiosità è scolpita nei volti di Goku e Gojyo, e anche Hakkai continua a sbirciarlo, con quel suo sorrisino snervante. Aspettano tutti una sua parola. L’ultimo tassello di quella piccola avventura.

Distende le labbra in un sorriso di scherno.

“É un segreto”


“Ho amato te, Genjo.”



 
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