La Città del Vento, [23/04/08] Alternate Universe

« Older   Newer »
  Share  
eLyshina
view post Posted on 20/5/2008, 17:32




Fandom: Tsubasa Reservoir Chronicle
Rating: Giallo
Personaggi/Pairing: Kurogane, Fay, Others - Kurogane/Fay
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: Allora, faccio una piccola dissertazione. I miei programmi, su due computer diversi, mi danno un numero di parole diverse. Io vi metto quelle di entrambi da questo computer (fisso). Secondo Office sono 12509 parole per 20 pagine. Secondo Abiword sono 12490 per 20 pagine. Io mi scuso, se il vostro conteggio supera il limite che era stato imposto squalificatemi pure. Non ho windows né word, faccio il possibile. ^^
Avvertimenti: Shounen ai, AU
Genere: Triste, Fantasy
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono ma sono di proprietà delle Clamp che ne detengono tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e, viceversa, gli elementi di mia invenzione, non esistenti in Tsubasa Reservoir Chronicle appartengono solo a me.
Credits: La frase contrassegnata con un asterisco grassettato è una piccola rielaborazione di una frase realmente detta da Fay nel manga, volume (mi pare) 6.
Titolo ed ispirazione a cura di Kaze No Machi He, nona track della seconda OST di Tsubasa Reservoir Chronicle.
Note dell'Autore: Inizialmente doveva essere una storia nc17, ma dati gli ovvi problemi tempistici della trama, alla fine ho evitato.
Un ringraziamento particolare va alle giudicesse del concorso: devono elle sapere che desideravo da un sacco scrivere una storia che traesse ispirazione da quella meravigliosa canzone della soundtrack di Tsubasa, e grazie a loro ho potuto farlo.
Ringrazio inoltre Shanny e Princy, che mi hanno supportato nel (breve) periodo di stesura della storia; comunque vada, come si dice, sarà un successo.
Per quanto invece riguarda i luoghi citati nella storia, il Ben Nives, Fort William e la pianura Great Glen, mi sono informata su di loro e sulla loro geografia per non sparare cavolate. I nomi delle due comparse della storia sono estrapolati, per essere coerente con la collocazione, dall'antico Gaelico scozzese.
Mi sono presa, ovviamente, delle licenze tempistiche per poterci far entrare ogni cosa e spero me le perdoniate.
L'identità del Dio Vento, anche se altamente prevedibile, la lascio come punto interrogativo in sospeso: chi indovina, vince la bambolina di Kuroppi gnudo. *sìsì*
Di questa storia esiste un OMAKE che, a discapito di quanto chiesto nel topic del concorso, ho deciso di non postare per non indurre le giudicesse a considerarlo nonostante tutto, del quale ho messo il link con il permesso di Sonia.
Grazie a tutti coloro che gradiranno. ^^
Introduzione alla Fan's Fiction:
Un giovane storico alle prese con una strana leggenda, degli eventi al limite del paranormale e delle rovine di una città.
E un Guardiano Magico, che custodisce un prezioso tesoro da quattrocento anni, sulla cima di una montagna...

La Città del Vento



Circa cinquecento anni fa, in una zona non ben definita della Scozia, esisteva un monte conosciuto come Wind Mountain, sulla cui cima sorgeva la Città del Vento, creata dal popolo che, per primo, si era insediato sulla vetta della montagna dove il vento non cessava mai di soffiare.
I Ventosi, come si definivano gli abitanti di quella strana città, erano conosciuti in tutto il mondo grazie alle loro arti magiche, uniche nel loro genere, che facevano sì che i maghi adulti viaggiassero spesso per aiutare coloro che richiedevano i loro servigi, chiedendo in cambio oro.
Grazie agli innumerevoli guadagni e alla magia caratteristica della popolazione, la Città del Vento divenne una delle città più belle e splendenti di tutta la regione e oltre.
Il loro nome veniva ricordato di generazione in generazione, e i Ventosi lodati per la loro bravura e per la disponibilità con cui i maghi si mettevano a disposizione di chi avesse bisogno; ma all'interno della città, era l'avidità a manovrare le fila del popolo.
Erano così presi dal loro modo di vivere avaro e avido che non si accorsero dell'aumentare repentino del vento, presenza costante ma spesso fiacca e debole, sulla cima del Wind Mountain e sulla loro bella città.
Era stato il Dio Vento a donare loro i poteri magici e fu il Dio Vento a toglierglieli, cent'anni dopo.
In pochi giorni, sulla Città del Vento infuriò un uragano che spazzò via i tetti e distrusse le case, aiutato dal vento forte e gelido guidato dalla mano della divinità troppo spesso dimenticata, che cancellò da quelle che erano ormai soltanto delle rovine ogni traccia di insediamento umano.
Soltanto un mago sopravvisse, riuscendo a sfuggire all'ira del Dio Vento e rifugiandosi nella pianura sottostante; egli operò un ultimo incantesimo per racchiudere in un Globo di cristallo nero l'essenza della magia donata ai Ventosi dal Dio molti anni prima, poi creò un Guardiano Magico e lo rese il custode di quella preziosa sfera, incaricandolo di proteggerla a costo della propria vita dall'avidità degli uomini, e di consegnarla soltanto ad un discendente diretto del popolo magico ormai scomparso – se mai vi fosse stato.
In ultimo, eresse attorno alle pendici del monte una Foresta di Salici Piangenti, per ricordare a chiunque vi si fosse addentrato della sofferenza dei Ventosi, morti per aver osato offendere un dio.
La magia svanì subito dopo dal suo corpo, lasciandolo privo di forze sotto la pioggia torrenziale di quel giorno, e da allora le tracce della discendenza dei Ventosi andarono perdute, come anche la loro magia.
La leggenda narra che nessuno è mai tornato dopo aver tentato di oltrepassare la Foresta di Salici, ma che coloro che sono riusciti ad avvicinarsi così tanto da osservare la montagna, hanno visto uno strano bagliore diffondersi nella notte come un faro. E, da quel che ne sappiamo, quel faro continua a brillare da quattrocento anni, ogni notte, sulla cima del Wind Mountain.

* * *

Kurogane sbuffò e, in un moto d'ira, gettò a terra i libri e gli appunti sparpagliati sul tavolo di cucina, che rappresentavano l'eredità lasciatagli da suo padre.
Discendere da una famiglia di archeologi fissati, che avevano dedicato la loro vita a cercare stupide fantasticherie, era un peso che non era del tutto convinto di riuscire a sopportare.
C'erano leggende che si tramandavano di generazione in generazione da almeno trecento anni, nella sua famiglia, e lui era stato quello che meno di chiunque altro figlio maschio cresciuto nella menzogna vi si era interessato, al punto da scegliere la storia come strada della propria vita.
In quanto storico era tenuto ad ammettere che nelle vecchie leggende dovesse esserci un fondamento di verità, un po' come nella mitologia greca, ma non era mai stato disposto ad accettare che suo padre prendesse quei racconti per bambini come verità assolute, cercando di fargli credere altrettanto; fortunatamente aveva una propria capacità di giudizio e poteva riconoscere da solo che c'erano leggende che erano soltanto stupidaggini, e che sarebbero rimaste per sempre esattamente quello che erano: leggende popolari.
Sbatté violentemente il pugno chiuso sul tavolo, ritirando subito la mano e massaggiandosene il dorso con l'altra.
Maledizione a lui e al suo senso dell'onore!
Se non avesse promesso sul letto di morte di suo padre di continuare la ricerca del Wind Mountain al suo posto – promessa che il vecchio gli aveva estorto con la forza –, se ne sarebbe completamente disinteressato per tutta la vita; aveva già un lavoro e insegnare storia al liceo dove aveva studiato era molto più soddisfacente di quanto avesse mai pensato. Non si era mai lamentato dei ragazzi maleducati che avevano tentato di farlo impazzire i primi giorni – si era limitato a fissarli tutti con i suoi atipici occhi rossi per tenerli buoni come agnelli – e, alla fine, era riuscito a catalogare come tollerabile la scuola e i suoi ritmi monotoni.
Non aveva bisogno di mettersi a fare l'archeologo amatoriale per sentirsi appagato, come avevano fatto molti dei suoi avi.
Scoccò ai libri e ai fogli di appunti sparsi sul pavimento un'occhiata che, se avesse potuto, li avrebbe inceneriti all'istante; aveva troppo buon senso per mettersi a studiare le fantasticherie di famiglia, ma si sentiva vincolato – dannatamente – dal senso dell'onore: lui era una di quelle rare persone che, senza lasciarsi intaccare l'anima dal declino della razza umana, erano ancora capaci di mantenere una promessa fatta ad un morto.
Si alzò dalla sedia e si inginocchiò sul pavimento, ammucchiando tutte le cose che aveva gettato a terra con gesti veloci e rabbiosi: c'erano libri con la copertina di cuoio sdrucito, alcuni molto usurati e che bisognava toccare delicatamente, oltre a fogli di appunti vecchi e ingialliti, molti ormai illeggibili.
Mise tutto sul tavolo, sedendosi nuovamente e appoggiando i gomiti sulla superficie di legno per poi prendersi il setto nasale tra due dita e sospirare.
In realtà aveva già letto la maggior parte dei testi che suo padre gli aveva lasciato, considerato che erano pur sempre le storie che gli venivano raccontate quando era piccolo, e ricordava bene sia la leggenda che i tanti studi e le troppe ricerche che i suoi antenati avevano fatto sul Wind Mountain e la famigerata Città del Vento. Su quasi tutti c'erano scritte le stesse cose: si parlava della montagna sulla cui cima sorgeva l'unica città di maghi del mondo, i quali si trovavano spesso a viaggiare per aiutare le popolazioni della terra con la loro potente magia; avendo causato l'ira della divinità che aveva fatto loro dono di quel talento, videro la loro città venir distrutta da una calamità naturale e spazzata via dal vento feroce. Era sopravvissuto soltanto un mago, il quale aveva dotato la montagna di numerose difese magiche poiché, si diceva, sulla cima del Wind Mountain era stato nascosto un prezioso tesoro, potente quanto lo era stata la magia dei Ventosi. Si parlava di una Foresta di Salici Piangenti da cui nessuno aveva più fatto ritorno e, inoltre, si parlava di una specie di luce accecante che illuminava la cima della montagna di notte, da quattrocento anni.
Alcuni libri o appunti si differenziavano per alcuni particolari – alcuni parlavano di un guardiano magico, altri di un mostro malefico che uccideva chiunque osasse penetrare nella foresta – ma in sostanza la storia era quella.
L'unica conclusione certa a cui erano arrivati tutti i suoi antenati, però, era stata localizzare il Wind Mountain come un'improbabile monte nelle Highlands occidentali, grazie ad una raffigurazione trovata in uno dei libri più antichi e che sembrava somigliare vagamente alla montagna.
Gli ultimi appunti scritti da suo padre identificavano la montagna come il Ben Nives, vicino alla cittadina di Fort William.
Kurogane sospirò, alzandosi in piedi e cercando la sua ventiquattrore dispersa chissà dove nel disordine della sua casa; mentre riponeva le cose del defunto, pochi giorni prima, aveva trovato dei biglietti aerei per la Scozia e, quando aveva chiamato l'agenzia per disdire la prenotazione, gli avevano detto che non era più possibile farlo. Suo padre aveva prenotato una stanza in una locanda nel centro storico di Fort William per tre settimane, evidentemente convinto di riuscire a risolvere il mistero di generazioni e generazioni di uomini e donne che ci avevano provato in meno di un mese, e, se fosse vissuto, non avrebbe esitato a lasciare sia sua madre che il lavoro per mettersi alla ricerca di un sogno antico come la loro famiglia.
Trovò la ventiquattrore nascosta sotto il lenzuolo del letto sfatto e recuperò le chiavi dal tavolo, uscendo di casa per recarsi al lavoro; be', aveva tante di quelle ferie arretrate che una vacanza primaverile in Scozia l'avrebbe fatta più che volentieri.

Alla fine, seguendo l'itinerario che suo padre aveva scritto sul proprio diario, si era ritrovato in un villaggio sulla Great Glen, la pianura che si stagliava sotto il Ben Nives: un agglomerato di case pieno di capre, pecore, vecchi pastori e pelosi cani da gregge.
Decisamente fantastico!
Mentre camminava per la pianura, maledisse nuovamente il senso dell'onore che aveva sempre condizionato la sua vita.
La locanda a Fort William era risultata comoda e confortevole, dove le persone sembravano farsi gli affari propri senza fare domande; era rimasto chiuso nella sua stanza per due giorni, cercando di riprendersi dal fuso orario, poi aveva iniziato col chiedere in giro quanto distasse la montagna e se, intorno ad essa, ci fosse un agglomerato di salici piangenti che poteva sembrare inavvicinabile.
I locandieri e alcuni dei clienti abituali rispondevano sempre allo stesso modo: salici pochi, montagne tante e il Ben Nives è poco lontano.
Sospirò, aprendo il suo zaino da campeggio e tirandone fuori una bottiglia d'acqua: nonostante il clima ancora freddo, il sole che illuminava la pianura e le cime delle montagne che poteva vedere in lontananza era molto caldo.
Si sedette su un masso all'ombra di un albero e bevve avidamente; sarebbe tornato presto a Fort William per chiedere dove poteva trovare qualcuno disposto ad accompagnarlo oltre la Great Glen, fino alle pendici del Ben Nives.
Semmai vi fosse stato qualcuno disposto a farlo, dato che quella non era la stagione del turismo.
Anche se, ne era convinto, non si poteva trovare qualcosa che non esisteva, tanto meno se non si credeva fermamente che esistesse.
Rimase per un attimo a contemplare il meraviglioso panorama che si stagliava davanti a lui e, mentre spostava lo sguardo verso la cima delle montagne, gli sembrò di intravedere un bagliore luccicante risplendere nel sole.
Si convinse che era soltanto un'illusione ottica e si alzò in piedi, deciso a tornare a passo svelto alla locanda per non prendersi un'insolazione.
“Ehi...”
Una voce gracchiante lo costrinse ad immobilizzarsi e a girare sul posto per guardare chi lo avesse chiamato. Seduto sul masso occupato da lui poco prima, c'era un vecchio; Kurogane lo guardò perplesso, stupito dell'inaffidabilità dei suoi sensi che non gli avevano fatto avvertire il suo arrivo. Il vecchio gli sorrideva, mettendo in mostra una bocca completamente sdentata; a giudicare dalle rughe di vecchiaia scolpite sul viso abbronzato e dalle mani grinzose che stringevano un vecchio bastone da pastore, doveva avere all'incirca novant'anni.
“Ehi tu. - Ripeté il vecchio con quella sua voce sgraziata – Avvicinati.”
Kuroganze alzò un sopracciglio con fare diffidente e il vecchietto rise di gusto, una risata gracida che sfociò in un attacco di tosse.
“Lo vedi che non ho denti? - Chiese, quando la tosse svanì – Non potrei morderti neanche se volessi, giovanotto.”
Kurogane dovette ammettere che sembrava inoffensivo, ma restava un mistero il come avesse fatto ad avvicinarsi così silenziosamente. Tornò sui propri passi e raggiunse l'uomo anziano, lasciando che la sua ombra coprisse ogni spiraglio di sole.
“Come ti chiami, figliolo?” Chiese nuovamente il vecchietto con un sorriso sdentato.
“Kurogane.” Rispose lui, ritenendo inutile dovergli fornire anche il proprio cognome.
“Io mi chiamo Murchadh Ruadh.” Disse l'uomo, tendendogli la mano dal basso della roccia dov'era seduto.
Kurogane la strinse, sentendone le grinze sotto le dita, e continuò a guardarlo col suo solito cipiglio scocciato di sempre.
“Ho sentito dire che stai cercando un passaggio per arrivare al Ben Nives, - riprese il vecchio – e si dà il caso che io abbia un nipote che può accompagnartici.”
“Ah sì? - Kurogane alzò nuovamente il sopracciglio destro e i suoi occhi scoccarono all'uomo uno sguardo irato. - Si dà il caso che non abbia ancora detto a nessuno di aver bisogno di un passaggio per quella montagna.”
Il vecchietto proruppe di nuovo nella sua gracchiante risata. “Noi non abbiamo bisogno di sapere sempre tutto per dedurre le cose, figliolo. - Rispose – Domattina Iain partirà da qui alle nove in punto. Se sei interessato, be'... - rise di nuovo e un brivido inspiegabile serpeggiò lungo la schiena del ragazzo – fatti trovare davanti a questo maledetto sasso. Anche se ciò che cerchi è dietro il monte, se capisci cosa intendo dire. - Gli fece l'occhiolino e Kurogane sgranò gli occhi completamente stupefatto - Ora, se non ti dispiace, aiutami ad alzarmi; le giunture non sono più quelle di una volta.”
Kurogane aiutò il vecchio ad alzarsi dalla roccia e lo guardò camminare lentamente appoggiato al bastone, verso il boschetto di sempreverdi, scorgendo una casetta che sorgeva poco distante. Si voltò e riprese a camminare in direzione della locanda, dimenticando il caldo e la possibile insolazione: c'era qualcosa in quel vecchio che lo inquietava. Come aveva fatto a sapere che aveva bisogno di superare rapidamente la pianura? Come poteva sapere che stava cercando qualcosa?
Ricordò il bagliore che aveva notato brillare sulle cime delle montagne e si sentì improvvisamente sepolto sotto uno strato di mistero e paranormale che non poteva più essere ignorato.

Il nipote del vecchietto del giorno prima si trovava davvero davanti al masso all'orario stabilito; quando Kurogane chiese un passaggio fino alle pendici del Ben Nives, Iain accettò. Nessuno dei due menzionò l'uomo anziano e Kurogane ne dedusse che Murchadh Ruadh non esisteva e probabilmente non era mai esistito.
Salì sulla jeep del giovane e nessuno dei due parlò per molto tempo, tranne per le generalità legate all'acqua e al cibo; Kurogane aveva fatto scorta di provviste sufficienti per una settimana, prevedendo di tornare alla locanda molto prima.
Arrivarono alle pendici del Ben Nives intorno a mezzogiorno e, dopo averlo ringraziato pagandogli un prezzo simbolico per il trasporto, lo storico si fece lasciare da Iain il suo numero di telefono nel caso avesse bisogno di un passaggio per tornare a Fort William.
Quando il giovane ripartì, Kurogane si trovò solo in mezzo al nulla, alle pendici di una montagna di cui, alzando la testa, non riusciva a vedere la cima; i suoi occhi, però, scorsero di nuovo quello strano bagliore che sembrava provenire da un posto indefinito lassù in alto.
La cosa più evidente, però, era che suo padre e i suoi avi prima di lui avevano preso una sonora cantonata nell'identificare il Ben Nives come il Wind Mountain: fin dove poteva spaziare il suo sguardo, infatti, non c'era traccia di salici piangenti o anche di qualcosa che gli assomigliava lontanamente.
Kurogane sospirò, gettandosi a sedere sul suolo erboso della Great Glen e prese una bottiglia d'acqua dal suo enorme zaino, poi cercò gli appunti di suo padre e depennò il riferimento al Ben Nives, scrivendo accanto un'annotazione poco simpatica per i futuri poveracci che si sarebbero ritrovati a compiere quel pazzesco viaggio alla ricerca del nulla.
Improvvisamente gli tornarono in mente le parole che il vecchio gli aveva detto il giorno prima: «Anche se ciò che cerchi è dietro il monte, se capisci cosa intendo dire.»
Alzò di nuovo i suoi inquietanti occhi rossi verso la cima della montagna, imprecando tra i denti; sembrava così imponente che, come minimo, ci avrebbe messo giorni per girarle attorno. E se, dopo averlo fatto, non avesse trovato nemmeno il tronco secco di un salice, avrebbe cercato quel maledetto nonnetto per tutta la Scozia pur di farlo pentire di aver sottratto del tempo alle sue sacrosante ferie.
Imprecò di nuovo, maledicendo se stesso e l'onore, per l'ennesima volta da due settimane a quella parte, e si alzò in piedi, iniziando a camminare intorno alla vetta più alta dell'Inghilterra.
Nel pomeriggio aveva perso completamente il senso dell'orientamento: non che fosse mai stato una cima a capire la direzione e l'ora dalla posizione del sole, ma, dannazione!, era un professore di storia, uno studioso, non passava la sua vita a vagabondare per il mondo alla ricerca di oggetti sepolti sotto il fango essiccato, come avevano fatto almeno quattro generazioni prima della sua; si fermò sotto il sole cocente per cercare una bussola, ma scoprì, con un'altra serie di bestemmie, di averla lasciata nella sua stanza a Fort William. A quel punto proseguire era completamente inutile: per quello che ne sapeva poteva aver girato intorno alla montagna tre o quattro volte, oppure nessuna; prese il telefono dalla tasca e, iniziando nuovamente a camminare intorno alle pendici del Ben Nives, tentò di chiamare Iain per chiedergli quando sarebbe passato per tornare a casa. Quando notò che non c'era campo, gli scappò un sorrisetto ironico: come se fosse stato tratto da uno dei migliori film catastrofici, il cellulare era da dichiararsi morto e sepolto, visto che era anche scarico. Ci mancava soltanto che arrivasse una bella nevicata fuori stagione, un uragano, un tifone, la piaga delle cavallette... per quanto si sentiva fortunato, sarebbe potuto arrivargli uno tsunami dritto sulla testa.
Continuando ad imprecare contro il vecchio, i suoi antenati, il suo cellulare, il suo orgoglio e la sua stupidità, riprese a camminare tenendosi vicino alle pendici della montagna; quando giunse la notte, stava ancora camminando senza meta intorno a quell'immenso ammasso roccioso. Prese la torcia dallo zaino e iniziò a cercare della legna secca per accendere un fuoco e cucinare qualcosa; mangiò due patate controvoglia e si lasciò ricadere sul sacco a pelo. Non si era accorto di avere tutti i muscoli indolenziti. Si addormentò quasi subito, lasciando la torcia a portata di mano nel caso qualche bestia selvatica avesse deciso di farsi una scampagnata notturna, e sognò.

Il vecchio Murchadh Ruadh era seduto su una roccia, esattamente come quando si erano incontrati la prima volta: lo guardava con gli occhi quasi ciechi e sovrastati dalle rughe di vecchiaia che gli scavavano la fronte, sorridendo con la sua bocca priva di denti. Tra le mani stringeva il vecchio bastone.
“Non mollare, giovanotto. - Gli disse – Sei molto più vicino di quanto pensi. Aguzza la vista e l'udito, ti serviranno nella Foresta di Salici. Ti lascio un regalino per la scalata: fanne buon uso. - I suoi occhi si rabbuiarono – Non credo che ci rivedremo mai più, figliolo, per cui buona fortuna... e addio.”


Si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Il sole non era ancora sorto, ma i suoi raggi iniziavano già a rischiarare l'oscurità della notte; ripensò al sogno con il nonnetto fantasma e sorrise ironicamente tra sé: era buffo notare quanto il subconscio potesse lavorare in maniera misteriosa, di notte. Quando si alzò, sfiorò con una mano una superficie solida e legnosa. La ritrasse di scatto, guardando allarmato ciò che aveva toccato, e i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di puro stupore quando vide il bastone che il vecchietto aveva tra le mani nel suo sogno. Si strofinò gli occhi, incredulo di fronte a quell'ennesimo avvenimento inspiegabile; si sentiva inquieto, a giusta ragione quella volta, non soltanto per il vecchio che gli appariva in sogno e gli dava consigli, ma perché l'aria dell'alba si era fatta pesante e irrespirabile.
Per calmarsi, si gettò ciò che restava della penultima bottiglia d'acqua sui capelli neri e si chiese con rabbia chi gliel'avesse fatto fare di abbandonare la sua casa sicura e priva di qualsiasi tipo di fenomeno paranormale.
Riprese a camminare dopo aver fatto colazione, sperando che la giornata fosse più positiva di quella precedente, anche se il cellulare continuava a non avere campo e lo lasciava isolato dal mondo.
Inseguire quelle fantasticherie di famiglia cominciava a diventare un po' troppo faticoso e impegnativo per i suoi gusti, maledetto suo padre e le promesse che gli estorceva anche in punto di morte.
Fu soltanto nel tardo pomeriggio che riuscì a vedere la Foresta: una fitta coltre di salici piangenti che proteggeva le pendici di una piccola montagna, nascosta dall'imponenza del Ben Nives; quando Kurogane alzò gli occhi verso la cima e vide il bagliore del faro citato nei suoi libri risplendere di una fulgida luce bianca, si sedette a terra, gettandovi anche lo zaino e il bastone, e si prese la testa tra le mani, scosso dall'incredulità.
Era arrivato alle pendici del Wind Mountain.
Era riuscito là dove tutti i suoi avi avevano fallito.
La scoperta della veridicità dell'esistenza di almeno quella parte di leggenda lo rese più sicuro di sé e, dopo aver mangiato un boccone velocemente, si rimise lo zaino in spalla, riprese il bastone del vecchio, e si inoltrò tra gli alberi creati dal dolore di un mago e di un'intera stirpe.

La Foresta di Salici si presentava esattamente come una normalissima foresta, salvo per la stranezza degli alberi che la formavano.
Il sentiero che passava attraverso due file di alberi nodosi sembrava che non fosse mai stato calpestato da piedi umani, ma vi erano tracce del passaggio di qualche animale selvatico inoffensivo.
Kurogane sperò che cervi e maiali fossero le uniche creature che abitavano la foresta, vanificando mentalmente uno degli avvertimenti trovati tra gli appunti di carta ingiallita, che vedeva la Foresta protetta da una creatura discretamente pericolosa. Sembrava, invece, tutto tranquillo: gli uccellini fischiettavano allegramente, svolazzando attorno ai rami, e gli scoiattoli balzavano da albero in albero in cerca di cibo. Il moro si domandò il motivo del non ritorno di molti dei suoi avi da quella foresta, ma non gli venne in mente niente che potesse rispondere alla domanda... a meno che non fossero morti mentre scalavano il monte sbagliato o attraversavano una foresta diversa.
Esisteva, però, anche l'eventualità che a sbagliare fosse stato lui.
Scosse la testa per scacciare quell'idea: non poteva permettersi di pensare di aver sbagliato, né poteva pensare di star seguendo una fantasticheria inesistente. Non al punto in cui si trovava adesso, quando la sua curiosità si era risvegliata, lasciando che in lui si sviluppasse, forse, anche un po' dello spirito d'esplorazione proprio della sua famiglia.
Proseguì lungo il sentiero, beandosi della frescura che l'ombra degli alberi proiettava su di lui, finché non si trovò di fronte ad una diramazione; non c'erano cartelli stradali o indicazioni che recassero incisa la strada per raggiungere la Scalinata della Vetta, c'era semplicemente una croce di legno piantata in mezzo ai due sentieri.
Si avvicinò per osservarla, notando delle incisioni sul legno antico che però non riuscì a leggere; da che parte doveva andare? Facendo mente locale su tutti i film catastrofici che aveva visto di sfuggita, decise di andare a sinistra, perché la via a destra, solitamente, nascondeva la morte certa.
Si incamminò sul sentiero scelto, aguzzando la vista e l'udito – proprio come il nonnetto gli aveva detto – per percepire qualsiasi cambiamento, ma non ve ne fu nessuno di sostanziale. Pochi metri dopo, però, fu costretto a ricredersi: i salici si infittivano maggiormente, annodandosi tra loro come un macabro tetto di piante, e il sentiero svaniva per lasciare spazio allo sterrato. Si accorse del silenzio che pervadeva quella zona della foresta soltanto quando ruppe involontariamente un rametto con lo stivale, avvertendo il rumore del legno spezzato come una stilettata nelle orecchie; un brivido gli serpeggiò lungo la schiena e si passò le mani sugli avambracci per scacciare il freddo dovuto a una brezza leggera, che si era alzata in mezzo al groviglio di salici.
Evidentemente non ricordava molto bene i film catastrofici: aveva scelto la strada sbagliata.
Proseguì sullo sterrato guardandosi intorno con circospezione, cercando di ascoltare quel silenzio assordante per capire se si stesse avvicinando qualcosa, ma non sentì niente oltre ai suoi passi sulle foglie secche dei salici.
Poi udì uno scalpiccio lontano, come se qualcuno – o qualcosa – stesse correndo nella sua direzione; appoggiò a terra l'ingombrante bastone e tirò fuori la pistola di suo padre, fermandosi ad osservare il folto della foresta davanti a sé con un'espressione determinata negli occhi inusualmente rossi e un ghigno di sfida stampato sulle labbra.
Sbucarono dal nulla come dei rumorosi fantasmi e lo accerchiarono, sbavando sul terreno e guardandolo minacciosamente con i loro occhi gialli: lupi. Un branco di lupi famelici attendeva che facesse una mossa falsa per assalirlo e ucciderlo, e Kurogane sospirò, pregustando sulla lingua la parola “morte”; a quel punto, anche la pistola che si era portato in caso di emergenza era del tutto inutile: se avesse sparato a una di quelle bestiacce, sicuramente le altre gli sarebbero saltate addosso per sbranarlo. Gli venne da ridere per l'assurdità di ciò in cui si era cacciato e strinse la presa sul calcio dell'arma; il ringhio sommesso dei dieci lupi grigi gli riempiva le orecchie, unico rumore in mezzo al fragoroso silenzio che li circondava. Alzò la pistola davanti a sé e alcune bestie si mossero verso di lui, mostrando i denti affilati. Avrebbe sparato al tre, e succedesse ciò che doveva succedere: uno... due... due e mezzo... non era mica tanto sicuro di voler morire lì... due e tre quarti...
Un fischio penetrò l'aria e il silenzio, come un suono proveniente da un mondo antico e lontano: i lupi alzarono i loro tartufi neri e umidi per aria, iniziando ad ululare come per rispondere al richiamo di un padrone inesistente.
Kurogane abbassò l'arma, senza distogliere lo sguardo dalle bestie fameliche che, quando l'eco del fischio si dissolse completamente, smisero di ululare e tornarono a guardarlo con i loro occhi gialli, saltandogli poi addosso e iniziando a leccargli la faccia come degli adorabili cuccioloni; le bestie che non riuscirono a raggiungere il suo viso con la propria lingua, si misero a scodinzolargli vicino, come in attesa di una carezza, o a saltellargli attorno uggiolando di gioia.
“Porc...” Iniziò a imprecare cercando di scacciare via quelle bestiacce bavose dal suo corpo, ma i lupi erano tanti, forti, e sembravano immensamente desiderosi di lavarlo completamente con la lingua viscida. Si comportavano come degli stupidi cani che facevano a gara a chi riusciva per primo a mostrare all'umano quanto fossero felici di vederlo, chiedendo in cambio soltanto una carezza tra le orecchie. E pensare che lui, i cani, li detestava.
Riuscì a liberarsi dell'assalto delle bestie dopo alcuni minuti di dura e faticosa lotta, poi si alzò in piedi per non essere travolto da una possibile seconda mandata di lupi, armati di lingua e saliva, e recuperò la pistola, il bastone e lo zaino da terra.
A quel punto si aspettava di tutto, ma ad essere guidato dall'intelligenza di un branco di animali selvatici non era preparato: i lupi gli si strinsero attorno e il capo branco si mise alla testa del gruppo, guidandolo attraverso la fitta coltre di salici che nascondeva il sole. Kurogane era sempre più inquieto e perplesso: non aveva paura, ma tutto quello aveva del ridicolo; quando si sarebbe svegliato, avrebbe ricordato quel sogno come uno dei più assurdi della sua vita, addirittura più assurdo di quello con le banane giganti.
Ma, quando il lupo grigio fece fermare lui e la sua sottospecie di scorta a quattro zampe davanti ad un arco di rami, dietro al quale c'era una scalinata scavata nella montagna, dovette svegliarsi per accorgersi che non sognava.
Le bestie si congedarono con degli uggiolii tristi e tornarono correndo nel folto della foresta, per proteggere quella stessa scala sulla quale si sarebbe avventurato lui da improbabili visitatori indesiderati: perché l'avessero fatto passare, tuttavia, restava un mistero paranormale che si aggiungeva a tutti quelli a cui aveva assistito da quando aveva messo piede nella Great Glen.
Avere un'idea precisa di quanto tempo fosse passato da quando era entrato nella foresta era a dir poco impossibile, per cui ascoltò i bisogni del suo corpo e decise di accamparsi davanti alla scalinata per mangiare e riposarsi, rimandando la salita a quando si fosse svegliato. Non prese nessuna precauzione per la notte, come la torcia appoggiata accanto a sé della notte prima: nessuno sarebbe riuscito a raggiungerlo fin lì e sembrava che le bestie feroci che popolavano la Foresta di Salici lo proteggessero, anziché fargli del male. Dormì un sonno inquieto e ricolmo di incubi, in cui un vento forte spazzava via i tetti delle case e i cadaveri di persone vestite con strane tuniche nere, e il sangue versato sull'asfalto della città colava giù dalla cima di una montagna.

La scalata del Wind Mountain gli sembrò più facile di quanto pensasse: niente scale che si trasformavano in scivoli se metteva il piede in fallo, soltanto gradini scavati sul fianco della montagna e che conducevano tranquillamente alla cima. Il bastone del nonnetto si rivelò comunque molto utile: quella scala doveva essere stata usata per l'ultima volta qualcosa come quattrocento anni prima, i gradini di pietra erano completamente ricoperti di vegetazione e, man mano che saliva, anche di neve. Indossò il giaccone pesante a metà della salita, sentendosi ugualmente gelare le ossa a causa del vento che soffiava sempre più forte e che gli si infilava dentro il cappuccio e le maniche; il bagliore sulla cima della montagna sembrava intensificato e pulsava ritmicamente, come una solitaria lucciola in un campo, d'estate.
Per quanto potesse sembrare surreale, ormai non aveva più alcun dubbio sulla natura di quella luce luminosa: doveva trattarsi del Globo in cui era stata racchiusa l'essenza magica dei Ventosi, che brillava così tanto da riuscire ad illuminare la notte anche attraverso il cristallo nero. Guardò in basso, osservando il panorama delle cime dei salici, e si pentì di non aver mai comprato una macchina fotografica per poter immortalare quel panorama inquietante e bellissimo, ma che, purtroppo, non avrebbe potuto condividere con nessuno: se fosse stato ancora vivo, suo padre gli avrebbe dato dello stupido, come al solito, ma sarebbe stato ugualmente orgoglioso di lui per la prima volta nella sua vita.
A circa tre quarti della salita, si sedette sui gradini per mangiare qualcosa e bevve l'ultimo sorso d'acqua che gli era rimasto; stava iniziando ad appassionarsi a tutta quella strana vacanza ai limiti del paranormale, così annotò tutto ciò che gli era accaduto da quando era arrivato in Scozia sul retro di un foglio ingiallito scritto dal suo bisnonno, probabilmente, mentre le mani nude che stringevano la penna si gelavano a causa del vento che soffiava sempre più forte.
In quanto storico, se avesse potuto confermare una leggenda popolare, sarebbe stato ampiamente soddisfatto di sé: dopotutto, lui l'aveva sempre sostenuto che ogni leggenda aveva un fondo di verità.
Quando ebbe finito, nascose tutto sul fondo dello zaino, sperando che il vento non portasse nuvole di pioggia e lo bagnasse completamente, poi riprese la scalata e, verso il calar della sera, raggiunse la cima del Wind Mountain.

Solitamente non era un tipo che si stupiva. Ciò che ammirò sulla cima del Wind Mountain, però, fu uno spettacolo che avrebbe ricordato per il resto della sua vita.
Edifici in rovina, abbozzi di case sepolte sotto rampicanti e neve, pietre spezzate che si alternavano alle erbacce sul terreno polveroso e arido: si respirava aria di morte, come se il terreno fosse ancora intriso del sangue versato dai Ventosi quattrocento anni prima.
Kurogane mosse qualche passo in mezzo a quella che era stata la Città del Vento, ammirando con stupore quei ruderi antichi che incutevano soggezione anche a lui che non vi aveva mai creduto. Non c'era vita, lassù, o almeno non c'era ovunque potesse spaziare con gli occhi.
Camminò tra gli edifici spaccati con timore reverenziale, cercando di imprimersi nella memoria quelle immagini di devastazione, mentre il vento soffiava feroce sulle sue mani nude e sul viso. Rabbrividì, mentre i suoi piedi lo portavano nel centro della città; si sentiva osservato, come se qualcuno stesse spiando i suoi movimenti da una casa o da qualche alto punto situato più in alto. Si guardò intorno per capire se ci fosse qualcuno o meno e notò qualcosa che prima non aveva visto: su una piccola altura rocciosa, la punta esatta del Wind Mountain, sorgeva un castello di un bianco latteo che risplendeva agli ultimi raggi di sole. Iniziò a correre verso l'edificio, lasciando che lo zaino e il bastone cadessero sul terreno polveroso, senza curarsi del vento che gli sferzava il viso e gli faceva lacrimare gli occhi; quando fu abbastanza vicino da vederne l'entrata, notò il Guardiano.
Si immobilizzò, mantenendo lo sguardo fisso sulla figura davanti a lui. Se non fosse stato il benvenuto, il Guardiano lo avrebbe ucciso senza pensarci due volte; meglio lasciare che fosse lui a fare la prima mossa.
Il Guardiano sorrise e iniziò a corrergli incontro.
“Benvenuto Kuro-pooooooooon!!!” Urlò, mentre prendeva velocità per slanciarsi su di lui.
Kurogane si sentì prendere da un capogiro dovuto allo stupore, ma non riuscì a staccare gli occhi da quello che, apparentemente, sembrava un ragazzino di vent'anni o giù di lì; il Guardiano continuò a correre sempre più forte, poi i suoi piedi inciamparono nell'orlo della tunica bianca e ruzzolò a terra. Kurogane accorse al suo fianco per aiutarlo a rialzarsi in piedi e, dopo che l'ebbe fatto, il Guardiano gli saltò al collo e lo strinse in un abbraccio caloroso.
“Oh, Kuro-sama! - Disse – Ho aspettato a lungo che tu venissi.”
Kurogane cercò di staccarselo di dosso sciorinando una serie di imprecazioni degne del suo bisnonno, ma il Guardiano non accennava a lasciarlo andare.
“Piantala!” Gridò, e l'eco delle sue urla si diffuse per la montagna e tra le rovine.
Il biondo lo lasciò andare, guardandolo con due strabilianti occhi azzurri dall'espressione rammaricata. “Mi dispiace. - Disse – Dopo un po' di solitudine è bello avere qualcuno per cena.”
Si voltò di spalle e gli fece strada dentro il palazzo d'avorio, e Kurogane si prese quel momento per osservarlo meglio: indossava una tunica che prima doveva essere stata di un bianco brillante, ma che adesso era ingiallita e ingrigita dal tempo. Aveva i capelli biondi che gli si adagiavano sulle spalle e che si muovevano al vento, creando una trama splendente; i suoi occhi, di un azzurro chiarissimo, erano ipnotici ed erano così espressivi che Kurogane pensò che non li avrebbe mai più dimenticati per il resto della sua vita. Camminava sul terreno desolato a piedi nudi e sembrava non sentire il vento gelido che soffiava sulla montagna.
Il biondo, che probabilmente aveva capito la sua esitazione, si fermò e si voltò ad osservarlo. “Vieni Kuro-rin, vieni! - Lo chiamò con un gesto della mano – Ti ho preparato la pappa.” E così dicendo saltellò sui gradini del palazzo emettendo un verso che somigliava vagamente a un fischio.
Il Guardiano Magico della Città del Vento, appariva in tutto e per tutto un perfetto cretino.
Kurogane sospirò tra sé, salendo le scale a due a due per seguire quel tizio stupido che sorvegliava le rovine e il tesoro.

L'interno del palazzo, a differenza della Città, era perfettamente intatto: l'avorio era rimasto bianco e i mobili, sotto lo strato di polvere secolare che li ricopriva, sembravano perfettamente conservati.
Il Guardiano lo attendeva nell'atrio e lo scortò nella sala da pranzo, iniziando a stordirlo con discorsi di cui faticava a cogliere il senso logico. Proprio mentre iniziava a parlargli della noia che aveva provato per tutto quel tempo, arrivarono in sala da pranzo, una stanza dal soffitto molto alto e decorato con vari affreschi che, ad osservarli, facevano passare la voglia di mangiare.
Kurogane distolse lo sguardo dalle pareti e si sedette alla tavola imbandita di ogni cibo possibile e immaginabile, e il Guardiano gli si affiancò, appoggiando il mento su una mano e guardandolo di sottecchi.
“È buono?” Gli domandò sorridendo.
Kurogane annuì e si accorse di essere affamato: si servì una porzione di qualcosa arrostito e iniziò a mangiare con foga.
“Io mi chiamo Fay. - Disse il biondo mentre lo osservava mangiare – L'ho scelto da solo perché nessuno ha avuto il tempo di darmi un nome. Ti piace? Se non ti piace lo puoi cambiare.”
Kurogane alzò un sopracciglio. “Fay va bene.” Disse, tornando a concentrarsi sul cibo.
Fay sorrise, ma il moro non poté fare a meno di notare che il suo sorriso aveva un retrogusto amaro, triste... quasi disperato.
“Quando hai finito di mangiare procediamo?” Chiese ancora il Guardiano, fissandolo con i suoi occhi azzurri, e Kurogane restò interdetto per un attimo.
“A fare cosa, esattamente?”
Fay lo guardò perplesso. “Oh... - si fece pensieroso, poi sorrise di nuovo – Dimenticavo che tu non sai niente di niente. Me l'aveva detto anche il vecchio Murchadh me l'aveva detto, prima di sparire. - Si interruppe un attimo, poi batté le mani insieme – Vorrà dire che faremo una seduta intensificata di storia dei Ventosi, Kuro-cippi!” Esclamò con gioia.
“Smettila di chiamarmi con quei nomi assurdi!” Esclamò e, prima che l'altro potesse parlare ancora, gli salì spontanea una domanda.
“Come fai a sapere il mio nome?” Chiese.
Fay sorrise. “Ti ho seguito, Kuro-chu... - Rispose – Vi ho seguiti tutti da quando sono stato creato.”
Allo sguardo perplesso e scettico del moro, il Guardiano riprese. “Iniziamo il corso accelerato sui Ventosi! - Esclamò – Vedi... la leggenda narra che le tracce della dinastia dei maghi furono perdute, ma non è andata proprio così. Io ho sempre saputo dove eravate e cosa facevate, grazie a uno specchio di mia invenzione davvero carino, che poi ti mostrerò. - Disse – Tu, Kurocchi, sei l'ultimo. L'Erede del Globo, colui per il quale si aprono gli accessi alle rovine della Città del Vento e colui al quale si inchinano i guardiani.”
Kurogane non capiva e fulminò il biondo con occhiata omicida. “Stai mentendo. - Rispose – Per generazioni e generazioni la mia famiglia ha cercato queste rovine e i più sono morti nell'impresa di attraversare la Foresta.”
Fay si fece pensieroso, poi la sua espressione divenne consapevole. “Oh, ma tu stai parlando della parte sbagliata di famiglia, Kuronmi. - Rispose – A proposito, mi dispiace per i tuoi parenti da parte di padre, ma non ho davvero potuto lasciarli salire. Alcuni se li sono mangiati i lupi della Foresta, altri hanno scordato cosa facevano alle pendici della montagna e sono tornati indietro, altri ancora... - davanti allo sguardo inviperito di Kurogane, continuò con l'argomento principale – Io stavo parlando dei tuoi avi da parte di madre. Loro sono i discendenti dei Ventosi e tu sei l'unico che abbia provato interesse per questa Città al punto da venire quassù per reclamare ciò che è tuo di diritto. Doveva esistere anche una profezia a proposito di te, un tempo, ma credo sia andata perduta un giorno, chissà quanto tempo fa, mentre stavo leggendo sui gradini e il Dio Vento è venuto a farmi un po' di compagnia. - Sorrise – Te lo sarai domandato, qualche volta, da dove arrivino i tuoi occhi così inusualmente rossi, no?”
Il Guardiano parlava con una leggerezza tale di cose tanto importanti che Kurogane fu colto da uno scatto d'ira; sbatté il bicchiere sul tavolo con violenza tale da romperlo in mille pezzi, ferendosi la mano con il vetro rotto. Subito Fay scattò in piedi.
“Ma guarda cos'hai fatto, Kurocchi! - Esclamò con il tono usato dalle madri con i figli discoli – Fammi vedere quei tagli.”
Kurogane era riluttante a dare la sua mano ferita a quello stupido tizio sconosciuto, ma il Guardiano gliela prese con una forza stupefacente; tolse le schegge di vetro rimaste nella carne, poi la strinse tra le sue mani e Kurogane sentì un calore irradiarsi da esse per trasmettersi alla sua. Quando l'altro lo lasciò andare, il suo arto era completamente guarito.
Per la prima volta da quando era arrivato in Scozia, a discapito di tutte le cose strane, paranormali e sovrannaturali che gli erano accadute, si trovò a prendere piena coscienza della magia.
Si sentì stordito e rimase immobile a fissarsi la mano, incredulo di fronte a quel prodigio taumaturgico, finché Fay non lo toccò su una spalla riscuotendolo dai suoi pensieri.
“Credo che dovresti riposare, Kuro-chibi. - Disse – Ormai è notte e domani ci aspettano tante cose da fare.”
Lo scortò fino alla sua stanza, una camera principesca ma affrescata con lacrime e sangue come la sala da pranzo, e si congedò da lui con un “Buonanotte, Kuro-bau” che lo fece arrabbiare così tanto da fargli pensare seriamente di ucciderlo nel sonno. Se fosse stato possibile assassinarlo, ovviamente.
Stanco e piuttosto sconvolto, si lasciò scivolare nel letto con i vestiti da viaggio ancora addosso – gli altri erano rimasti tra le rovine, chissà dove – e si addormentò subito. Nessun sogno o incubo gli fece visita quella notte, soltanto la costante sensazione di essere osservato – o, per meglio dire, braccato.

Quando si svegliò era già mattina inoltrata. Si alzò a sedere sul letto, tirando via le coperte con un movimento rabbioso, e le prime cose che vide furono il bastone e lo zaino, che erano stati portati in camera. La sua camera era dotata di un bagno e ne approfittò per lavarsi e cambiarsi i vestiti sporchi per il viaggio; finì un'ora dopo, tornando in camera profumato e con i capelli ancora umidi, sentendosi pulito come non gli capitava da un pezzo.
Uscì dalla sua stanza meditando su ciò che gli era successo nell'ultimo giorno.
Non aveva motivo di dubitare di ciò che gli aveva detto il Guardiano. Non più.
Molte cose si spiegavano, come se finalmente tutti i tasselli di un puzzle fossero tornati al loro posto: il vecchietto, i lupi che da bestie fameliche si erano trasformati in cucciolotti servizievoli... Il Guardiano che, dall'alto del Wind Mountain, l'aveva seguito ogni giorno della sua vita per scoprire se sarebbe stato lui il primo ad arrivare al suo palazzo...
Durante la notte doveva aver metabolizzato l'idea, perché ormai non si sentiva più stupito o stranito, semmai costantemente osservato, una cosa, quella, che cominciava davvero a infastidirlo.
Passeggiò per i corridoi deserti, guardando le pareti affrescate con disegni di distruzione e morte, sentendosi inquieto.
Del Guardiano stupido non c'era traccia e Kurogane si sentì in diritto di vagabondare per il grande palazzo aprendo porte e portoni. Nonostante tutto, aveva ancora molte domande che aspettavano una risposta.
Arrivò davanti a un grande portone di legno massiccio e spinse forte per aprirlo e per curiosare all'interno della stanza; riuscì a spalancarlo con uno sforzo abbastanza notevole, e ciò che vide lo affascinò. Gli affreschi alle pareti recavano ancora le stesse scene di quella che, aveva dedotto, doveva essere la distruzione dei Ventosi, ma la stanza era diversa, più bella di tutte quelle che aveva visto. Più curata, forse.
Non c'erano mobili, ma un'erbetta fitta e piacevole che cresceva sul pavimento bianco, sormontata da alti alberi; in mezzo alla stanza c'era una piscina scavata nell'avorio e illuminata da alcune lanterne fluttuanti nell'aria.
Stupefatto, Kurogane si avvicinò al bordo della piscina, ma dall'acqua uscì di scatto il Guardiano completamente nudo, facendogli fare un salto all'indietro.
Grondando acqua sull'erba, Fay si voltò e sorrise. “Buongiorno Kuro-pon. - Disse – Ho fatto il bagno e mi sono cucito una tunica nuova per rendermi più presentabile.”
Le guance di Kurogane si arrossarono leggermente e il moro si voltò di spalle di fronte a tanta disinvoltura.
“Vestiti.” Disse in tono brusco.
“C'è qualcosa di sbagliato?” Domandò Fay osservando il suo corpo nudo e non riuscendo a capire come mai l'altro avesse avuto quello scatto d'ira.
Kurogane scosse la testa, decidendo di vestirlo lui stesso; poteva anche essere una creazione magica, non umana, ma chi l'aveva messo al mondo gli aveva indubbiamente creato tutto al posto giusto. Si voltò, cercando di guardarlo il meno possibile e raccolse la tunica nuova, di un bianco splendente, da terra.
“Non ti asciughi?” Chiese poco dopo, vedendo che il biondo non accennava a muoversi.
Fay scosse la testa. “Non sento né il freddo né il caldo.” Rispose.
Kurogane gli fece passare la tunica sui capelli e l'indumento aderì al corpo bagnato diventando quasi trasparente; alla fine, farlo vestire non era servito a molto.
Deglutì e rimase un attimo a guardarlo colpito da tutta quella bellezza in una sola creatura, poi si schiarì la voce.
“Sono abituato ad avere a che fare con soggetti vestiti.” Disse.
Fay sorrise. “Ho cucito un vestito nuovo anche per te, stanotte, Kuro-sama.” Disse, prendendo dall'erba quello che sembrava un ammasso di stoffa nera.
“Non hai dormito?” Domandò Kurogane, afferrando la tunica che l'altro gli porgeva e guardandola con uno sguardo piuttosto incerto.
“Io non dormo. - Rispose Fay semplicemente – Non ti piace? E dire che l'ho cucita con le mie manine pensando intensamente a Kuro-tan...” Disse poi con tono piagnucoloso.
“Non è che non mi piaccia, ma...” Iniziò Kurogane, ma fu costretto a tacere perché non sapeva cosa dire per non offenderlo. Non che fosse mai stato uno a cui importava di ferire o meno le persone, ma gli dispiaceva infierire su chi, dalla vita, non aveva avuto nient'altro che solitudine. Cambiò argomento.
“Questa stanza?” Domandò.
Fay si riprese e sorrise di nuovo con quella sua malinconia indelebile. “L'ho creata io, - rispose – come tutto questo posto. Ho letto sui libri che esistevano alberi e prati, e ho cercato di creare un posto simile a un'illustrazione che ho visto; peccato per la piscina... avrebbe dovuto essere un lago, però...”
Kurogane lo interruppe. “Con la tua magia?” Chiese.
Fay scosse il capo. “Non è la mia magia, è la tua.”
Kurogane non seppe cosa rispondere e voltò le spalle al Guardiano, avviandosi verso la sala da pranzo e lasciandolo indietro; poco dopo, sentì la sua presenza seguirlo in rispettoso silenzio e non seppe se essere felice di potergli porre ancora domande, o se essere furioso contro la sua servizievole persona.

Nonostante il vento forte, la giornata era calda e il sole piacevole. Dopo colazione, consumata in silenzio, erano usciti fuori per passeggiare tra le rovine della città.
Fay aveva detto a Kurogane di aver affrescato il palazzo con le immagini della distruzione della Città del Vento perché erano stati i suoi primi ed unici ricordi per circa centocinquanta anni; aveva parlato di fallimento magico dovuto allo shock, spiegandogli che il mago che l'aveva creato, mentre formulava l'incantesimo, aveva pensato intensamente alla tragedia appena compiutasi, trasmettendo alla sua mente le immagini che lui, poi, aveva dipinto sulle mura del palazzo per non lasciarlo completamente vuoto. Il castello, invece, l'aveva creato per noia e perché si era stancato di vivere tra edifici diroccati; poi aveva creato la biblioteca, il giardino interno e tante altre cose, ispirandosi ai libri che leggeva. Era convinto, a proposito di quest'ultimi, che il Dio Vento avesse provato pietà per lui, ispirandogliene la creazione per aiutarlo a trascorrere quel tempo infinito nella maniera più gradevole possibile.
L'idea dello Specchio, però, era venuta da sola: di cristallo nero come il Globo della Magia, non rifletteva immagini, ma mostrava soltanto i volti, i nomi e i cammini dei discendenti dei Ventosi; l'aveva costruito pensando che sarebbe stato utile sapere chi fossero o meno gli eredi, in modo da spalancare per loro le porte e permettergli di raggiungere la montagna con facilità. Ci aveva messo un po' a crearlo, ma alla fine il lavoro era risultato pregevole; il cristallo nero l'aveva trovato dentro una rovina, un edificio che aveva ospitato in passato il consiglio dei maghi o qualcosa del genere. Per il resto era sempre stato completamente, totalmente, da solo.
Kurogane si chiese a cosa fosse dovuto quel senso di malessere all'altezza dello stomaco, apparso dopo che il Guardiano gli aveva raccontato come aveva trascorso i passati quattrocento anni, ma non ci tenne a darsi una risposta logica: forse aveva esagerato con il cibo.
Erano seduti su un pezzo di pietra delle rovine da non sapeva più quanto, beandosi del sole che li scaldava nonostante il vento gelido.
“Non hai mai provato a lasciare questo posto?” Chiese Kurogane dopo alcuni minuti di silenzio.
Fay scosse la testa e incrociò le dita dietro la nuca.
“Sarebbe inutile tentare. Non posso lasciare la montagna. Sono il Guardiano Magico del Globo, devo proteggerlo dai malintenzionati e darlo soltanto all'Erede. A te, per la precisione.”
“Ma cos'ha di importante questo Globo?” Domandò ancora il moro, guardando l'altro con i suoi occhi rossi che splendevano al sole come fiamme.
“Be'... - iniziò Fay, ricambiando lo sguardo con i suoi tristi occhi azzurri – Racchiude la magia dei Ventosi.”
Kurogane maledisse la sua stupidità. “Sì, - disse – questo lo so anch'io. Ma cosa rende così ambita questa magia?”
“Ambita non direi. - Rispose il Guardiano – In quattrocento anni soltanto i tuoi avi hanno provato a salire quassù, ma soltanto per il gusto dell'esplorazione. A nessuno di loro è mai interessato impossessarsi del dono del Dio Vento. Ma qualcun altro avrebbe potuto provare a prendere la magia con la forza, usandola per scopi tutt'altro che onesti, come i Ventosi hanno fatto prima di essere distrutti. Il Dio è molto geloso dei suoi doni e si sarebbe già ripreso anche questo se l'essenza magica non fosse stata legata con un incantesimo a quel Globo e a me.”
Ci fu un attimo di silenzio, poi il biondo riprese a parlare.
“Pensa a un potere immenso, più grande di quanto potresti anche solo osare immaginare. Pensalo racchiuso in una persona malvagia o avida e pensa a come potrebbe usarlo. Potrebbe decidere di dominare il mondo e stabilire un imperituro regime dittatoriale, oppure potrebbe distruggerlo e decidere di ricrearlo come piace a lui. L'essenza magica chiusa nel Globo è la magia di molti: guarda cosa posso fare io con una minuscola, infinitesimale, parte di essa – e così dicendo indicò il palazzo, inglobandovi tutto ciò che conteneva – e immagina cosa potrebbe fare qualcuno con tutto l'intero.”
Kurogane si sentì ad un tratto molto intimorito alla prospettiva che qualcuno, un politico o un capo di stato folle, potesse prendere la magia racchiusa nel globo per usarla contro i suoi simili; deglutì a fatica.
“Ovviamente per te questo discorso non vale. - Continuò Fay con un sorriso dolce e al contempo triste nella sua direzione – Il Globo ti appartiene per diritto di nascita, non potrei rifiutarmi di dartelo anche se tu volessi distruggere tutto. Non mi è concesso un totale libero arbitrio, sono stato creato per consegnare il Globo a te e a nessun altro, a prescindere dalle intenzioni.”
Kurogane ghignò. “E se io quella magia non la volessi?” Chiese.
Fay fece spallucce. “Puoi rinunciarci e restituirla al Dio Vento. - Rispose – Lui sarebbe felice di riaverla per sé.”
“È lui che mi osserva da quando ho messo piede nella Foresta?” Domandò di nuovo il moro, spostando lo sguardo verso il cielo terso – azzurro come gli occhi di quello scemo guardiano centenario.
Il Guardiano annuì. “Sta solo aspettando per vedere cosa vuoi fare con la magia. - Disse – Scenderà a combatterti e a sfidarti in entrambi i casi e non sarà una passeggiata. Non è molto avvezzo al perdono.” Concluse con una nota di tristezza nella voce.
Kurogane abbassò la testa, stringendosi il setto nasale tra pollice e indice: bella fregatura! Che la volesse o meno, la magia, il Dio Vento si sarebbe ugualmente arrabbiato al punto da discendere sulle rovine.
Fay sospirò, alzandosi in piedi. Calava la sera sul secondo giorno trascorso assieme a Kuronmi e lui non poteva che sentirsi immensamente triste: non pensava che avrebbe rinunciato alla potente magia dei Ventosi, anche se per un istante – uno minuscolo se paragonato ad un'attesa di quattrocentocinque anni, per essere precisi – aveva davvero sperato che quell'omone burbero ma dal cuore gentile gli regalasse la libertà. Magari non sapeva nemmeno che il Guardiano poteva essere sciolto dalle catene che lo incatenavano alla cima della montagna, ma lui non poteva far nulla; gli era permesso di parlare delle condizioni che lo legavano al Wind Mountain e alla Magia, ma non poteva chiedere all'Erede – né conseguentemente poteva desiderare – la libertà.
“Kuro-tan, torniamo al castello. - Disse, tendendogli una mano nuda e gelida – Stasera ti porto sulla torre nord a guardare le stelle.”
“Stupidaggini da ragazzini.” Sbottò Kurogane alzandosi da solo e avviandosi verso il palazzo d'avorio col suo solito fare scorbutico.
Fay sorrise malinconicamente e lo seguì con la sua camminata silenziosa e quasi fluttuante, senza sporcarsi i piedi sulla polvere del terreno arido: le stelle e la notte erano pur sempre qualcosa che faceva riflettere, e il Dio Vento solo sapeva quanto Kuroppi ne avesse bisogno.

Kurogane non si era mai soffermato a guardare il cielo di notte, tanto meno dalla cima di una montagna in terra straniera. Certo, aveva guardato le stelle quando aveva dormito alle pendici del Ben Nives, ma non le aveva viste davvero.
Quella sera, sdraiato sulla torre in compagnia del Guardiano biondo che lo seguiva ovunque, le guardò con interesse per la prima volta nella sua vita.
Fay gli si era sdraiato accanto per spiegargli e mostrargli le costellazioni, scusandosi per la sua astronomia un po' arrugginita dagli anni; lui era uno storico, aveva sempre pensato che le cose scientifiche difficilmente lo avrebbero interessato – durante i suoi anni di liceo quel tipo di materie era stato il suo punto debole. Si riscoprì, invece, a provare interesse per la cultura del Guardiano, accarezzando con gli occhi quei puntini brillanti nel cielo che irradiavano un bagliore flebile, ma pur sempre affascinante.
“Cosa ti accadrà quando avrò deciso cosa fare con quel Globo?” Domandò ad un tratto, interrompendo la dissertazione del biondo su Orione.
I suoi occhi azzurri si oscurarono, notò, ma il biondo distolse subito lo sguardo.
“La mia esistenza è legata alla magia. - Rispose dopo alcuni minuti di silenzio – Se diventerai l'unico mago della Terra, nonché quello più potente, io verrò con te. Se non lo diventerai... - si interruppe e si voltò per sorridergli – Non darti pensiero per me, Kuro-chan, non sono poi molto importante. E non sono umano.” Concluse.
Kurogane si fece pensieroso e, quando parlò, la sua voce suonò calcolata.
“No, non lo sei. - Disse – Eppure soffri.”
L'espressione del Guardiano cambiò, sfigurandogli il volto in una maschera d'angoscia; non credeva che Kuro-cippi fosse un così buon osservatore.
Sorrise e quel sorriso parve far infuriare l'altro.
“Smettila di sorridere in maniera così finta, dannazione! - Sbraitò alzandosi a sedere di scatto – Ora vattene e lasciami solo almeno fino a domattina!”
Il sorriso svanì completamente dalle labbra del biondo e i suoi occhi assunsero un'espressione carica di dolore. Si alzò in piedi e si inchinò frettolosamente.
“Come desideri, mio Signore.” Disse prima di andarsene silenziosamente, con i piedi nudi che percorrevano l'avorio liscio senza fare nessun tipo di rumore.
Kurogane rimase a fissare le stelle, guardando però il vuoto davanti a sé.
Non era bravo con le persone ed evidentemente nemmeno con le creature di dubbia natura come quello stupido sottoprodotto magico.
Si sdraiò nuovamente sul pavimento della torre guardando il cielo: cosa gli nascondeva il Guardiano? Quale destino gli avrebbe riservato la scelta di rinunciare all'arma più potente del mondo?
L'unico modo per saperlo, evidentemente, era spulciare tra i libri della biblioteca.

La mattina dopo si svegliò presto, senza aver chiuso occhio per tutta la notte a causa della rabbia. Si vestì in fretta e furia e uscì, camminando velocemente per raggiungere la biblioteca, sperando di non incontrare il Guardiano lungo i corridoi che lo avrebbero condotto in quell'ala del palazzo. Fortunatamente non lo incontrò – avrebbe avuto difficoltà a giustificarsi... ma poi perché avrebbe dovuto farlo? - e arrivò indisturbato alla biblioteca, entrandovi e chiudendo la porta a chiave per non essere disturbato.
C'erano scaffali ovunque, ripiani stracolmi di libri e libri: si sentì girare la testa al pensiero che il Guardiano li avesse letti tutti. Iniziò a guardare i titoli impressi sulle copertine, chiedendosi da dove avrebbe dovuto cominciare; alla fine, l'ipotesi che gli sembrò migliore di tutte quelle che aveva scandagliato fu quella di iniziare da una parte qualsiasi e affidarsi alla fortuna.
Anche se non era mai stato granché fortunato in vita sua.
Prese alcuni libri a caso dallo scaffale alla sua destra e li portò sul grande tavolo al centro della stanza, iniziando a sfogliarli.
Fu soltanto a notte fonda che, finalmente, notò il libro che aveva cercato, dandosi dello stupido per non averlo visto prima, dato che era rimasto sempre davanti ai suoi occhi con la copertina bianca che spiccava prepotentemente in mezzo ad una serie di libri interamente neri. Impiegò due ore a leggere la vita del Guardiano negli ultimi quattrocentocinque anni, sentendosi come un arrabbiato intruso impiccione, e, quando ebbe finito si alzò dalla sedia, lasciando tutta la biblioteca in disordine, per andare nella stanza dove era certo di trovarlo. Adesso che sapeva, dovevano parlare.

Egli era stato creato nel dolore per la distruzione della città e per la morte dei suoi compagni, e l'incantesimo che venne formulato incontrò ostacoli dettati dalla sofferenza di Murchadh Ruadh, uscendo dalle sue labbra in maniera sbagliata.
[...]
Il Guardiano sviluppò una coscienza e un'anima simili a quelle umane, che gli portarono pene indicibili e quattrocento anni di solitudine sofferta.
[...]
Se l'Erede sceglierà la magia, egli sarà destinato a vivere come schiavo della sua progenie per tutta la sua esistenza. Se l'Erede rinuncerà, ciò che lo aspetta sarà la morte: la libertà.


Lo trovò nella stanza con la piscina, esattamente dove aveva immaginato che fosse; era seduto sul bordo, intento a fissare con sguardo malinconico la punta del suo piede nudo che si muoveva languidamente nell'acqua, creando dei piccoli cerchi concentrici.
Quando entrò non alzò la testa, ma sorrise al vuoto che vedeva davanti agli occhi e lasciò che i capelli biondi e setosi gli ricadessero davanti al volto.
“E così ce l'hai fatta, Kuro-rin.” Disse, accogliendolo con una voce triste che cercava di mantenere la solita sfumatura allegra. Non era una domanda, era una semplice affermazione.
Kurogane annuì, avvicinandosi e sedendoglisi accanto con le spalle rivolte alla piscina, incrociando le gambe davanti a sé.
“Pensavo che avresti impiegato meno tempo a trovare il Libro del Guardiano.” Riprese Fay sorridendo malinconicamente.
“Non sorridere a quel modo! - Esclamò Kurogane stringendo i pugni – Mi dai sui nervi.”
Fay sussultò impercettibilmente e smise di sorridere. “Come desideri.”
Kurogane sbuffò. “Io non desidero proprio niente, razza di stupidissimo manufatto magico. - Sbottò – Cosa desideri tu, invece?”
Fay si voltò ad osservarlo con i suoi occhi azzurri, in quel momento così tristi che smossero qualche corda nascosta del suo animo burbero. “Non mi è permesso desiderare. - Disse – Sono vincolato da catene molto strette in questo senso: al Guardiano Magico non è concesso influenzare la scelta, quindi non può fare niente che implichi ciò.”
“Ho letto che puoi essere liberato. - Disse Kurogane, distogliendo lo sguardo da quegli occhi disperati - Se io rinunciassi alla magia del Globo, tu scompariresti per sempre. È quella l'unica forma di libertà che ti è consentita?”
Fay annuì mestamente. “La morte, o schiavo di maghi e di una sfera per tutta l'eternità.”
Scese il silenzio, rotto soltanto dallo sciacquio dell'acqua mossa dal piede del biondo.
Kurogane fece per parlare, ma il Guardiano iniziò per primo.
“Se tutto fosse andato secondo i piani del mio creatore, - disse – allora non saremmo qui a fare questa conversazione. Non avrei dovuto essere una creatura senziente, ma soltanto una marionetta magica che faceva il suo dovere. - Sorrise tristemente, spostando di nuovo lo sguardo sull'acqua – Sono nato sbagliato e adesso pago le conseguenze di aver sviluppato un'anima che è molto simile a quella di voi umani. Raggiro gli ordini e i vincoli, cercando delle scappatoie con un'intelligenza che non dovrei possedere. Non posso influenzarti, ma ti ho lasciato trovare il libro della mia vita sullo scaffale. Non posso desiderare niente, ma posso sperare.”
“Cosa speri, dunque?” Domandò Kurogane che, finalmente, comprendeva a pieno ciò che significavano la tristezza di quegli occhi e la malinconia nascosta da un sorriso del tutto falso.
Fay sospirò. “Vedi Kuro-tan, io sono soltanto una magia fallimentare. Non sono del tutto magico, ma non sono umano. Con questo mio essere malfatto, con tutta la solitudine provata... ho sempre sperato che qualcuno mi liberasse o mi portasse via di qui (*), anche a costo di condurre un'esistenza da schiavo.”
Kurogane non disse niente perché non c'era niente da dire. Capiva e quello era sufficiente.
Si alzò dall'erba che ricopriva il pavimento e si allontanò per dirigersi in camera sua, lasciando il biondo con i suoi pensieri e sentendosi un nodo in gola che gli impediva di deglutire con facilità. L'urgenza di prendere una decisione a proposito della magia più potente che fosse mai stata donata da un dio ai mortali non gli fece chiudere occhio, sia per quella notte che per la successiva.
Accettare la magia dei Ventosi ed usarla per fare del bene, per migliorare qualcosa nel mondo, oppure rifiutare e restituirla al Dio, donando al Guardiano la libertà che tanto sperava?
Mai si era trovato di fronte ad una decisione tanto difficile: la magia era potente, allettante... però...
Uscì dalla sua camera due giorni dopo: aveva profondi solchi violacei sotto gli occhi, ma anche una determinata decisione definitiva stretta tra i denti e che aspettava soltanto di essere pronunciata.

Fay lo aspettava davanti all'ingresso della torre ovest, quella in cui non lo aveva mai portato. Forse l'aveva sentito uscire di camera con quella decisione martellante nel petto, o semplicemente era rimasto in attesa per i giorni in cui lui si era isolato nella sua stanza. Non lo sapeva, ma chiederselo non avrebbe avuto alcun senso.
Salirono in silenzio insieme, le loro mani che si sfioravano sulla scalinata stretta, e quando raggiunsero la cima, Fay sorrise.
La stanza della torre ovest era completamente spoglia, salvo per il piedistallo d'oro con sopra appoggiato il Globo di cristallo nero, che appariva come una sfera nera dentro cui vorticava una sostanza vaporosa – o forse solida? – completamente bianca e luminescente.
L'espressione del Guardiano cambiò, diventando solenne.
“Allora, discendente diretto dei Ventosi ed Erede del dono del Dio Vento, cosa decidi di fare con la magia qui custodita per oltre quattrocento anni?” Domandò, la voce che risuonava altisonante e malinconica contro le pareti d'avorio.
Kurogane inspirò e deglutì.
“Io rinuncio.”
Immediatamente il cristallo nero si spezzò e la magia rimase come una piccola sfera vorticante sopra le loro teste; poi, improvvisamente, il vento penetrò con raffiche violente nella torre, diventando visibile e prendendo le sembianze di una donna dai lunghi capelli neri con un sorriso di scherno sulle labbra.
Fay si inchinò e Kurogane rimase a fissare gli occhi denigratori di quella donna – di quel dio – senza proferire parola. La donna allungò una mano verso la piccola sfera lucente e l'afferrò tra le dita, stringendola a sé.
“Perché?” Chiese poi, spostando i suoi occhi su di lui.
Kurogane fece spallucce. “Perché non ne ho bisogno. - Rispose – I mortali devono andare avanti con le loro forze, senza che qualsiasi dio interferisca nelle loro vite e nelle loro scelte. Questo dono è prezioso, è allettante, ma io sono abbastanza forte per plasmare da solo il mio futuro. - Indicò il Guardiano ancora genuflesso dinnanzi alla divinità – Lui no.”
Il Dio Vento sorrise. “Voi Ventosi siete sempre stati testardi, - disse – ma anche molto antipatici. Tu sei diverso, però...” Si fece pensierosa e si portò un dito della mano libera sotto il mento.
Il Guardiano alzò la testa di scatto e Kurogane notò l'espressione allarmata nei suoi occhi chiari.
“... avevo giurato, - riprese il Dio – che avrei distrutto il vostro popolo, tutto, ma uno di quei maledetti è riuscito a scappare, impedendomi di riprendere ciò che era mio. Ne torno in possesso dopo quattrocento anni e tu non puoi immaginare quanto io sia ancora irritata con il capostipite della tua famiglia. - Ghignò, un ghigno che fece serpeggiare un brivido lungo la schiena di Kurogane, che non capiva dove volesse andare a parare – Adesso ho l'occasione, l'unica occasione, per rendere completa la mia vendetta, eliminando l'ultimo discendente di coloro che si sono approfittati della mia generosità ... è un peccato, però: mi eri simpatico.”
Prima che lui o il Guardiano potessero replicare, fece un gesto con la mano e Kurogane si sentì sbalzar via dal suolo con violenza a causa di una raffica di vento di forza sovrannaturale; venne spinto contro la parete, picchiò la testa sul davanzale e sentì dei crack di rottura all'altezza del petto, poi fu gettato fuori dalla finestra e non vi fu più nulla, soltanto un precipitare senza sosta nel vuoto che gli fece perdere i sensi.

“No!” Gridò Fay, alzandosi in piedi e avvicinandosi al Dio Vento, stringendo tra le sue mani pallide le braccia della divinità personificata. “Non puoi ucciderlo, non ti ha fatto niente.”
“Altri dei suoi mi hanno insultato prima di lui - rispose il Dio, insensibile di fronte alla disperazione del Guardiano – e tu sei l'ultima creatura sulla Terra a poter protestare per una mia decisione; mi appartieni, Fay, come questa magia che stringo nella mia mano sinistra.”
Gli occhi del biondo si fecero tristi e spenti. “Lo so, mia Signora, - disse con voce atona – ma lui è mio amico.”
La divinità lo osservò per un istante, poi fece un lieve gesto con la mano; sotto di loro, Kurogane si fermò a mezz'aria, sostenuto da una brezza leggera.
“Amico?” Chiese perplessa, poi spalancò gli occhi in preda alla consapevolezza. “Sì... - disse – dimenticavo che sei una magia fallita.”
Fay chinò il capo senza replicare e il Dio Vento fece un sorrisetto ironico.
“D'accordo. - Disse dopo alcuni istanti di silenzio – Lo lascerò vivere per te, se è questo che vuoi. Lo curerai, perché si è ferito prima di cadere, poi lo lascerai andare e tornerai da me; sarai libero soltanto per metà, perché il tuo corpo verrà inglobato nuovamente nella sfera magica che l'ha creato, ma il tuo spirito – quella parte di te che non sarebbe dovuta esistere – sarà mio schiavo, finché vorrò che sia così.”
Fay fece per parlare, ma il Dio Vento alzò un dito e lo appoggiò sulle sue labbra per zittirlo. “Tutto ha un prezzo, anche un desiderio che si realizza. - Disse, sorridendo di nuovo in quel suo modo enigmatico – La sua vita in cambio della tua anima mal nata, Fay.”
Il Guardiano abbassò lo sguardo, poi annuì.
Il Dio Vento fece un altro gesto con la mano e, sotto di loro, Kurogane fu trasportato a terra da un mulinello d'aria che lo adagiò sul pavimento d'avorio del palazzo con delicatezza.

Lo assisteva giorno e notte, senza mai allontanarsi dal suo capezzale.
Kurogane aveva la febbre, forse dovuta alla botta in testa, e Fay non aveva saputo cosa fare – non poteva curare ferite interne - finché, in un momento di lucidità, lui gli aveva detto di portargli il suo zaino e aveva preso alcune medicine che, in parte, avevano risolto il problema. Ma continuava a restare addormentato per tutto il tempo, delirando a proposito di cadaveri e vento che distruggeva tutto; riviveva la caduta dei Ventosi e della Città del Vento in sogno, e il Guardiano biondo si sentiva impotente davanti a quella tortura inviata dal Dio, come un perverso tentativo di chiedere scusa.
Si sentiva anche in colpa e vederlo costretto a letto lo rendeva infelice, come se qualcosa nella sua anima si spezzasse ogni volta che gli passava la benda bagnata sulla fronte.
Lo guardò con gli occhi ricolmi di tristezza, catturando uno dei momenti di sonno tranquillo, dove a riprova degli incubi c'era soltanto il sudore che gli imperlava la fronte; sotto tutto il dolore, però, c'era la gratitudine. Era libero, anche se solo per metà: sarebbe stato con il Dio Vento, non più da solo in compagnia di libri, sebbene il pensiero di non vederlo mai più gli spezzasse non soltanto l'anima, ma anche il cuore. Lui era suo amico... ?
Si alzò dalla sedia e prese tra le mani la bacinella d'acqua ormai vuota, ma la sua mano gli strinse debolmente un lembo della tunica bianca, trattenendolo. Era sveglio.
“Mi lasci a soffrire da solo, razza di maledetto menefreghista magico?” Domandò con voce arrochita dal troppo silenzio.
Fay sorrise e scosse il capo. “No. - Ripose la bacinella sul comò e si sedette sul letto accanto a lui. - Come ti senti?”
I suoi occhi rossi lo fissarono con un'occhiata irritata molto eloquente. Il biondo sorrise di nuovo e prese la sua mano tra le sue.
“Tra qualche giorno dovresti essere in grado di andartene. - Disse – Userò la magia che mi resta per mandarti a casa sano e salvo.”
Kurogane annuì. “E tu?”
“Ho qualcuno che mi aspetta.” Rispose Fay.
“Nonostante tutto... - iniziò Kurogane dopo essersi schiarito la voce – non sono riuscito a liberarti.”
Fay sorrise e si portò la sua mano alla guancia. “Non completamente. - Rispose – Ma così va bene.”
Kurogane scosse la testa. “Non va bene così.” Disse, stringendo la mano di Fay e tirandolo verso il basso per farlo sdraiare con la testa sulla sua spalla.
I capelli biondi del Guardiano gli solleticarono la guancia e i suoi occhi azzurri incontrarono i suoi, guardandoli un'occhiata perplessa. “Così è meglio. - Disse ancora, poi sospirò lievemente – Io non sono tuo amico, non lo sono mai stato.”
L'espressione del Guardiano divenne disperata e, per un istante, Kurogane pensò che avrebbe pianto. Non riuscì a trattenere il minuscolo accenno di sorriso che gli increspò debolmente le labbra; doveva molte cose a quello stupido sottoprodotto magico centenario che sembrava un ragazzino di vent'anni, la più importante era la vita.
Si alzò a fatica – e non senza fitte di dolore allo sterno - sui gomiti, sovrastandolo con il proprio corpo e appoggiando lievemente le sue labbra su quelle fredde dell'altro; non disse niente, ma, mentre la sua lingua cercava quella del Guardiano per coinvolgerla in un bacio dolce e carico di parole non dette, a Fay sembrò di sentirsi sussurrare un “grazie” all'orecchio, portato da un lieve spiffero di vento entrato dalla finestra socchiusa.
E capì cosa intendeva Kuro-chii quando aveva detto che non era suo amico.

Fu davvero in piedi dopo qualche giorno, sei per l'esattezza. Provava ancora dolore alle costole se faceva movimenti bruschi, ma dopo quello che aveva rischiato qualche acciacco era davvero il minimo.
Fay gli portò lo zaino e il bastone in cima alla gradinata, e gli sorrise mentre li appoggiava a terra.
Era in partenza. Sarebbe tornato alla sua vita normale nel giro di due minuti e l'unico cruccio che gli sarebbe rimasto di tutto quel viaggio sarebbe stato quello di farsi spedire dai locandieri il resto dei suoi bagagli in Giappone, dicendo loro di aver avuto un imprevisto e di essere dovuto partire in fretta e furia.
“Quando sei pronto, Kuro-chu, posso mandarti via.” Disse Fay, il sorriso triste che albergava sulle sue labbra dalla mattina.
Annuì.
In parte era felice di tornare alla normalità; troppe stranezze finivano per diventare fastidiose, a lungo andare, e in quel soggiorno in Scozia doveva ammettere di averne viste davvero tante.
“Sono quasi pronto.” Rispose.
Si voltò per abbracciare con gli occhi le rovine della Città del Vento e il suo palazzo d'avorio, perfettamente stonato con ciò che lo circondava, imprimendosi nella memoria una volta di più tutto quanto. Poi posò i suoi occhi rossi sul Guardiano.
In parte si sentiva dispiaciuto. Quell'evento l'aveva cambiato, anche se era difficile stabilire quanto in profondità, e sarebbero rimasti i ricordi – tutti i ricordi – di quell'avventura che aveva vissuto con scetticismo finché non vi aveva sbattuto contro il naso, e in cui si era lanciato soltanto per non mancare ad una promessa fatta al padre moribondo.
Sospirò.
Come si salutava qualcuno che non si amava e che non si poteva considerare amico, sapendo che non lo si sarebbe rivisto mai più?
“Ora sono pronto.” Disse, prendendo il bastone e lo zaino da terra.
Fay lo guardò, poi gli saltò al collo per abbracciarlo.
“Arrivederci Kuro-myu!!!” Gli urlò forte nelle orecchie, facendolo imprecare ad alta voce mentre cercava di staccarselo di dosso.
Fay lo lasciò combattere contro la sua stretta per alcuni istanti poi sciolse l'abbraccio; tracciò dei segni nell'aria davanti a sé e questi presero vita, avvolgendo Kurogane e creando intorno a lui un cerchio magico che iniziò a vorticare.
Kurogane avrebbe voluto dire qualcosa per salutarlo, ma le parole gli morirono in gola; tese semplicemente la mano verso il Guardiano, il quale sorrise con malinconia e allungò anche la sua verso di lui. Poi il vortice creato dal cerchio fu troppo veloce: la visuale del biondo si confuse davanti ai suoi occhi e... e si ritrovò magicamente nel salotto disordinato di casa sua, con la mano ancora tesa davanti a sé, come se stesse cercando di afferrare qualcosa non c'era più, e con il ricordo di un sorriso maledettamente triste rivolto a lui mentre abbandonava qualcuno verso cui sarebbe stato in debito per sempre.
Per molte cose.
“Be', immagino che avrei dovuto dirti addio quando ne avevo il tempo...”

“Fay...”
La voce del Dio Vento lo raggiunse assieme ad una leggera brezza che gli scompigliò i capelli.
Il Guardiano abbassò la mano ancora tesa davanti a sé, come se stesse cercando di afferrare qualcosa che non c'era più, poi annuì e sorrise.
Un sorriso diverso, quella volta: non serviva a mascherare un dolore indicibile, o la sofferenza per un'obbligata solitudine centenaria. Era il sorriso malinconico di chi parte sapendo di non tornare, di coloro che se ne vanno sapendo di aver lasciato indietro un amico – o forse qualcosa di più.
Un mulinello d'aria lo avvolse e lui venne trasportato in alto verso la divina dimora del Dio Vento, sentendo il corpo venirgli meno per essere inglobato dalla stessa magia che l'aveva creato e l'anima – quell'anima che per molto tempo aveva detestato, ma che adesso accettava perché racchiudeva i suoi ricordi - volare verso l'infinito.
Forse per sempre.
“In realtà avrei dovuto dirti addio, Kuro-rin, ma non ci sono riuscito. Perdonami.”

* * *

Appoggiò la scheggia di cristallo nero che aveva trovato nello zaino sulla tomba del padre, sperando che nessuno la portasse via, poi bruciò i suoi appunti sparsi sul terreno davanti alla lapide dandogli fuoco con un accendino.
“Hai visto, papà? - Disse – Alla fine sono riuscito là dove gli altri hanno fallito, ma pare che sia stato solo merito della mamma... E tu che dicevi sempre che è una donna inutile.”
L'odore della carta bruciata gli raggiunse il naso e fece una smorfia.
“Probabilmente ti starai rigirando nella tomba davanti all'atrocità che questo tuo stupido figlio sta commettendo davanti a te, ma, credimi papà, ci sono cose che è meglio lasciare in pace. - Tacque per un istante, poi abbozzò quel sorrisetto che nasceva spontaneo sulle sue labbra ogni volta che pensava al Guardiano – Certe cose è meglio tacerle per non creare scompiglio, nel mondo come nella propria famiglia.”
Quando tutta la carta fu bruciata si alzò in piedi e si stiracchiò la schiena.
“Be', ci vediamo...” Disse, voltando le spalle alla pietra e dirigendosi fuori dal piccolo cimitero privato che la sua famiglia aveva creato, molti anni prima di allora – forse quattrocentocinque, per essere precisi.
Poco prima del cancello che separava quel macabro giardino dalla strada, si soffermò per un momento a sfiorare con le dita un'incisione su una croce di legno piantata nel terreno, sotto la quale non c'era alcun cadavere, poi se ne andò così com'era venuto: con un'espressione tediata sul viso e lo sguardo perennemente arrabbiato.

Dal libro del Guardiano:
[...]
E grazie alla rinuncia dell'Erede, mosso da pietà nei suoi confronti, egli trovò la pace tra le braccia del Dio, nonostante il ricordo di colui che l'aveva finalmente liberato, e che aveva imparato ad amare in così poco tempo, continuasse ad albergare nella sua strana anima mal nata con l'intento di restarvi per sempre.


Edited by eLyshina - 21/5/2008, 22:46
 
Top
0 replies since 20/5/2008, 17:32   79 views
  Share