Munera, [23/04/08] Alternate Universe

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dianatab
view post Posted on 18/6/2008, 18:04




Fandom: Dragon Ball
Rating: 16 anni
Personaggi/Pairing: Bulma, Vegeta / Bulma-Vegeta
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 6.935 parole 12 pagine(12 Times New Roman)
Avvertimenti: AU
Genere: Generale, Romantico, Storico
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono ma sono di proprietà di Akira Toriyama che ne detiene tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e, viceversa, gli elementi di mia invenzione, non esistenti in Dragon Ball, appartengono solo a me.
Note dell'Autore: Il mondo in cui si svolge questa storia è quello della Roma imperiale. Tuttavia non ho voluto collocare la trama in un determinato periodo storico che non fosse questa vaga indicazione. Tutti i riferimenti al complesso mondo dei gladiatori sono frutto di una ricerca svolta per lo più su internet e sul libro “morte nell’arena” di Federica Guidi.
Introduzione alla Fan's Fiction: I munera sono i grandi giochi che gli imperatori erano soliti indire per blandire il popolo. In questi giorni cruenti i gladiatori si scontravano facendo a gara con la morte. Vegeta è uno di essi.

MUNERA



Il carro d’Apollo solcava lo zenit in quell’afoso pomeriggio di fine giugno.
Le imponenti strutture di marmo di cui la città era ricca riflettevano i raggi dell’astro, abbagliando i pochi passanti che si avventuravano per le vie polverose.
Gli archi trionfali, gli obelischi intarsiati, i templi solenni vegliavano sulla grande Roma, la capitale del più imponente impero che occhi mortali avevano mai visto, sede di forza e sapienza eterna.
Le strade dell’urbe, solitamente ingombre di passanti e carrozze, erano stranamente spopolate. I negozi chiusi, le bancarelle smontate, i passaggi liberi stridevano con l’abituale vita di una città in perenne movimento, dove le lingue dei mercanti si mescolavano con le urla dei bambini.
Le fontane e le terme, solitamente i luoghi più affollati in caldi meriggi come quello, zampillavano la loro acqua ristoratrice solo per qualche randagio di passaggio, senza poter donar frescura a uomo o donna.
Questo perchè quello non era un giorno come tanti.
Questo perchè quello era il giorno di inizio dei giochi.
Avvicinandosi al centro, infatti, Roma riprendeva il suo quotidiano aspetto caotico, ed anzi si presentava particolarmente frenetica anche per la sua vita quotidiana.
Una vera e propria processione umana occupava le vie che portano al Colosseo, la perla della grande città. Il celeberrimo anfiteatro si presentava maestoso come non mai, mentre il candore dei suoi marmi pareva voler rivaleggiare col sole stesso. Le statue immobili osservavano con cipiglio severo la fiumana di gente che lentamente si riversava all’interno per prendere posto. Plebei e nobili, bambini e anziani, giovani fanciulle dal volto soave e mercanti giunti dai confini dell’impero si mischiavano nella folla, in un rumoreggiare di voci e di lingue sconosciute.
Colori di vesti variopinte, scalpiccio di sandali, urla degli scommettitori e dei venditori ambulanti riempivano l’aria riarsa dalla calura. L’odore acre della calca si mischiava a quello stucchevole di alcuni dolcetti al miele che un venditore cercava di vendere a gran voce.
Una leggera brezza soffiava negli anfratti, rinfrescando leggermente i cittadini e gli schiavi, per posarsi infine sulle gote di una giovane seduta sul palco, che socchiudendo gli occhi respirò a pieni polmoni l’aria fresca.
“Non capisco perchè mi hai obbligato a venire, madre”
La giovane si voltò verso la donna che le stava accanto.
La sua compagna era una bizzarra signora, con un viso solare perennemente solcato da un sorriso e con una strana acconciatura all’insù.
Portava un peplo di sottile lino, dipinto con maestria di un arancio sgargiante e ai piedi calzava dei fini sandali di ottima fattura. Se dal vestiario dimostrava chiaramente la sua posizione altolocata, i capelli color del grano e la pelle nivea anche il più cieco osservatore avrebbe colto delle sue origini nordiche.
“Bambina mia, non sei eccitata? Dicono che questi giochi saranno ricordati per sempre, pensa che i migliori scrittori hanno già iniziato a comporre le odi per questa giornata. Persino quello storico...quello bravo...caro, ti ricordi il nome?”
“Plinio, cara.” Rispose l’uomo che le stava accanto, un anziano signore dai capelli arruffati e i baffi canuti che indossava una stropicciata toga bianca macchiata qua e là. Tuttavia l’aspetto trasandato non celava l’arguzia della mente che si dimostrava in un brillio intenso degli occhi per nulla offuscati dal tempo. A completare il quadro stava un piccolo gatto nero, appollaiato sulla spalla del proprietario come fosse un uccellino.
“Sì, ecco, che caro ragazzo, scrive sempre.”
La giovane sbuffò.
“Con tutte le cose che ho da fare in casa...E questo sole rovinerà il mio incarnato!”
La madre ridacchiò.
“A te e a tuo padre fa solo bene uscire da quel laboratorio, bambina mia. E poi non vedi quanti bei giovanotti?” Detto questo, la donna prese a sventolare la mano in segno di saluto in direzione di un paio di giovani della gradinata di sotto.
“Madre! Come ti viene in mente! E poi sai che sono già fidanzata!”
Rispose la giovane, arrossendo vistosamente per la sfacciataggine della matrona.
“Certo cara, e Yamcha è un gran bel giovane... a proposito, dov’è ora?”
La ragazza sbuffò assumendo un’espressione infastidita.
“Sarà il gymnasum a pomparsi i muscoli come sempre.”
Un sonoro squillo di trombe interruppe la discussione nel palco.
I giochi stavano per avere inizio.

L’aria era irrespirabile là sotto, nei cunicoli sotterranei.
Il caldo vischioso sembrava imprigionare i personaggi che si aggiravano nella semioscurità, poco più che ombre nello sfavillio delle torce.
L’afa opprimente innervosiva le bestie giunte lì dagli angoli dell’impero ad allietare le genti di Roma. Ruggiti e barriti si mischiavano al clangore assordante dei ferri e alle bestemmie degli uomini creando un rombo sordo e impenetrabile.
Il puzzo acre del sudore si mischiava a quello degli escrementi degli animali, creando un lezzo insopportabile e rendendo l’aria ancor più irrespirabile.
La frenesia del luogo era palpabile. Le urla degli uomini cercavano di sovrastare il caos dei rumori che in quello spazio angusto pareva amplificarsi come in un tempio.
Pochi tra i cittadini romani sapeva cosa si celava sotto la sabbia rossa dell’arena: in quello spazio ristretto la grande macchina dei giochi prendeva vita.
“Maledizione, Titus! Tira quella corda, o per Ercole giuro che ti ammazzo!”
“Che caldo da inferno!”
“Se non ci sbrighiamo l’imperatore ci farà saggiare le fiamme dell’ade sul serio, sbrigati!”
I servi operavano come api attorno ai complicati marchingegni che avrebbero portato animali e uomini nell’arena, frutto dell’ingegno dei migliori ingegneri dell’impero.
In mezzo a quel caos, in una cella di grandi dimensioni, stavano i protagonisti indiscussi dei giochi: i gladiatori.
Per lo più si trattava di schiavi, uomini di tribù barbare sconfitte ai confini del mondo e poi marchiati e addestrati alla morte. Padri e mariti, compagni e figli strappati alla terra natia per il diletto dell’imperatore.
Altri invece erano auctorati, uomini nati liberi che avevano deciso di rinunciare ai propri diritti per intraprendere la strada del gladio; tramite un giuramento sottomettono la propria vita al volere del padrone e, una volta scaduto il contratto, si dannano all’infamia. Erano i soli a portare protezioni al petto, vietate per i gladiatori legittimi.
Infine, venivano i damnati ad ludum, uomini che si erano macchiati di qualche crimine e che si erano meritati quel triste destino, spesso senza ricevere neanche il duro addestramento a cui si sottoponevano gli altri combattenti prima di solcare la sabbia dell’arena. La loro era una pena di morte spettacolarizzata, nulla di più.
Enormi ammassi di muscoli guizzanti con la nera signora per migliore amica, con il volto indurito dal dolore e la pelle arrossata dal sangue delle vittime.
In quel girone degli inferi a nessuno importava chi tu fossi stato nella tua vita passata, che tu fossi schiavo o re. Eri considerato come carne da macello, o poco di più, tranne naturalmente che dal lanista, l’impresario che si occupava dell’addestramento, della vendita e della rendita dei gladiatori.
Su di una panca stava seduto un gigante, il più imponente tra i lottatori dei giochi. Con la sua enorme stazza occupava quasi tutto lo spazio, mentre la testa pelata luccicava di sudore ai raggi delle torce. Seduto di fronte a lui stava un altro giovane, meno imponente del primo ma certo con muscoli possenti. Portava i folti capelli neri lunghi alla cintola, vantandosi di non averli più tagliati da quando era stato battuto l’ultima volta, poco più che ragazzino.
“Ieri te la sei spassata con quella puttanella, vero Nappa?” disse il capellone alla volta della montagna.
La risata del compagno rimbombò nelle pareti, sovrastando le preghiere sommesse e le imprecazioni degli altri gladiatori.
“Certo che sì, l’unica cosa decente di questa vita di merda è la caena libera, ogni volta c’è da strafogarsi di vino e donne! Quelle puttane pagano per soddisfare i loro ardenti bollori con uno come me, Raddish!”
Il compagno si unì alla sua risata. Erano due veterani dei giochi che si erano conquistati la fama di maestri nell’arte gladiatoria grazie alla loro forza e prontezza, ma anche alla loro spietatezza. Offrivano al pubblico uno spettacolo cruento all’estremo limite della violenza e per questo erano amati dal pubblico.
“Dovreste concentrarvi sul combattimento invece di fare inutili discorsi, sciocchi.”
Una voce arrivò dall’angolo vicino, congelando tutte le altre. Il tono deciso e gelido, dal cipiglio autoritario non ammetteva repliche. Nessuno osò controbatterle, perchè è da stupidi cercare la morte nei sotterranei quando essa ti aspetta alla luce del sole.
Persino le preghiere sussurrate a filo di labbra furono interrotte, quando quella voce risuonò nella cella.
Persino un tiro, un novizio al suo primo combattimento, riconobbe quel tono e decise saggiamente di tacere e abbassare lo sguardo.
In quella stanza erano rinchiusi i più possenti gladiatori dell’impero. Ma i più temuti erano tre barbari, ultimi superstiti di una tribù guerriera sconfitta dall’impero anni prima ai confini del mondo conosciuto. Il popolo Sayan era stato trucidato durante la guerra, fino alla sua totale scomparsa. Di quelle genti famose per la forza dei guerrieri indomiti, erano rimasti solo tre esemplari a dar memoria del lustro di quel popolo valoroso quanto spietato.
Nappa, l’oplomaco, famoso per la sua intaccabile robustezza. Sapeva maneggiare l’enorme scudo con incredibile scioltezza grazie alla sua imponente mole, e sul filo del suo gladio erano stati versati litri di sangue. Con in testa l’elmo imponente sovrastato dall’alto cimiero sembrava un titano sceso nell’arena.
Raddish, il reziario dalla cui rete era impossibile scappare. La leggenda narrava che l’uomo avesse scelto quella specialità perchè era la sola in cui l’armatura non prevedeva un elmo a coprire la folta criniera di cui andava fiero. Con la sua pesante rete, il tridente e il corto gladio, spesso all’avversario pareva di avere davanti un mostro marino evocato da Nettuno.
E infine colui che era stato il principe dei quel fiero popolo di guerrieri, Vegeta, il secutor: dotato di un grande scudo allungato, di un elmo con visiera e di una spada corta, solo gli stolti lo avrebbero considerato meno pericoloso dei suoi compagni. Sebbene meno alto e imponente, era dotato di agilità sorprendente e di una resistenza in fiaccabile.
Offriva al pubblico spettacoli memorabili con la sua abilità di torturare l’avversario, tenendolo in vita nonostante le numerose ferite fino a quando, stanco di quel gioco crudele, strappava l’ultimo alito al malcapitato con un gesto secco del polso.
Lo squillo delle trombe giunse fino a quella remota cella. Era il segnale che tra poco tutto sarebbe cominciato.

Il vino dentro il calice di cristallo oscillava leggermente nella mano dell’imperatore.
“È tutto pronto, Cesare.”
Colui che deteneva il potere sommo sulle terre conosciute guardò con disprezzo la folla ai suoi piedi.
“Che mandria di stolti.” Una smorfia di puro disgusto si dipinse sulle sottili labbra del tiranno conquistatore che da anni sedeva sul trono di Roma dopo averlo conquistato a prezzo di sangue.
“Indire questi giochi è stata una mossa assai astuta”
La voce melliflua del suo primo comandante, nonché fidato consigliere, gli giunse alle orecchie.
Placare l’animo del popolo sulle onde del vino e del divertimento era ormai usanza collaudata dai suoi predecessori, e l’imperatore sapeva quanto la plebe potesse esser importante nel sottile gioco dei potenti. Ciò nonostante, l’idea di dover calcolare anche quella variabile non era certo nelle grazie di colui che per la sua fama di impassibilità si era guadagnato la nomea di Freezer.
“Come hai richiesto, ho provveduto affinché tutto sia sistemato anche riguardo ai tre sayan”
A quelle parole Cesare ritrovò il gusto della sua posizione.
In un’unica occasione avrebbe imbonito il popolo e si sarebbe sbarazzato di una fastidiosa spina che ormai da troppo tempo gli pungeva nel fianco.
Zarbon, l’affascinante consigliere dell’imperatore, si compiacque nel vedere il solco acido sul volto del suo re trasformarsi in un leggero sorriso di soddisfazione. Portava, infatti, anche l’onorevole titolo di procuratore sovrintendente il Ludus Magnus.
“Diamo inizio a questa pagliacciata”
Con un gesto distratto della mano, l’imperatore ordinò che i murera cominciassero.
Come sempre, la mattina fu occupata dai combattimenti con le fiere, la caccia, e verso mezzogiorno si passò alle esecuzioni capitali.
Solo nelle prime ore del pomeriggio iniziò lo spettacolo dei gladiatori.
Dopo la parata iniziale, i giochi ebbero inizio.
Gli araldi entrarono solenni nell’arena.
Il pubblico fremeva di impazienza e nell’aria tesa si potevano udire solo qualche sussurro appena accennato.
Con voce tonante vennero annunciati i nomi delle coppie combattenti, e finalmente, ad un cenno del Cesare, si diede inizio alla lotta.
La musica segnava i combattimenti, esaltando i momenti culminanti e aumentando la frenesia degli spettatori.

Bulma osservava la scena disgustata.
Non poteva credere a ciò che si mostrava sotto i suoi occhi.
Già al primo combattimento, avvenuto tra un uomo e un leone, aveva sentito un senso di nausea crescergli nella gola. Ad ogni colpo inferto quel malessere era aumentato, fino a trasformarsi in un prepotente pulsare alle tempie e ad un irresistibile istinto alla fuga.
Si era ritirata sul fondo del palco della sua famiglia, rifiutandosi di osservare oltre.
Gli applausi della folla, le urla che parevano sorgere dai più reconditi gironi dell’Ade, non facevano altro che peggiorare il suo stato.
“Madre, perchè siamo qui?”
La donna si affiancò alla ragazza.
“Mi dispiace, tesoro, ma sai bene che la nostra famiglia ha un posto di riguardo. Tuo padre non poteva non venire, queste occasioni sono importanti per la vita politica, e noi dobbiamo sostenerlo”
La famiglia Brief era effettivamente una delle più ricche dell’impero. Grazie all’indole geniale dei suoi membri e ad un antico titolo nobiliare, aveva prosperato per secoli all’interno delle fitte trame del potere soprattutto perchè non si era mai invischiata negli intrighi di corte. Tuttavia, una simile ricchezza comportava un forte potere, ed era nei compiti del pater familias evitare che qualche invidioso trovasse spunto per distruggerla.
La ragazza prese un lungo sospiro, tentando di farsi forza. In realtà era sempre stata una giovane coraggiosa, non si era mai tirata indietro di fronte un ostacolo e certo non avrebbe iniziato a farlo in quel momento.
Riluttante, decise di tornare al suo posto, quando le trombe annunciarono l’inizio dei combattimenti gladiatori.
Osservò distrattamente le prime coppie che si battevano simultaneamente nell’arena, cercando di allontanare la propria mente da quello spettacolo nauseabondo.
Ogni volta che un incontro fosse finito, per vittoria o per resa, le pareva che lo stomaco le si attorcigliasse nell’udire le grida infoiate dei suggerimenti del pubblico.
L’imperatore sapeva dare al suo popolo quello che richiedeva – solo nei casi in cui lo sforzo non gli era troppo gravoso come in quel frangente, naturalmente – e assecondava le sue volontà, mandando a morte coloro che si erano dimostrati vili o fiacchi.
Il pollice verso significava morte. In tal caso l’arbitro smetteva di trattenere il vincitore e lo lasciava terminare il suo compito, e secondo tradizione il perdente moriva con un taglio netto della gola.
Allora entravano le barelle portate da inservienti mascherati e il corpo del vinto oltrepassava la porta Libitinensis, la porta di Libitina, divinità della morte e dei funerali, e infine veniva posto nello spoliarium dove avrebbe atteso la sepoltura.
Il vincitore invece si guadagnava una palma e una corona d’alloro e usciva dalla porta triumphalis.
Mentre tutto questo esaltava gli spiriti annoiati dei nobili e del popolo, per Bulma era un vero supplizio.
Cercando di distrarsi la ragazza fece vagare lo sguardo tra gli spalti, fino a che non le parve di vedere una figura familiare.
Le guance le si arrossarono mentre i pugni stretti le si piantavano sui fianchi in un atteggiamento stizzito.
Quel buono a nulla del suo ragazzo, Yamcha, stava in atteggiamenti a dir poco equivoci con una scialba ragazzina.
L’arrabbiatura della giovane raggiunse vette epiche.
Stava già per inoltrarsi nella folla, decisa a difendere il proprio orgoglio, quando un sonoro squillo di tromba la fermò.
All’improvviso sull’anfiteatro calò il silenzio.
L’arena era sgombra, i combattimenti erano giunti al termine; era arrivato il momento tanto atteso da tutti gli spettatori, nobili o plebei.
Finalmente gli oggetti di tante scommesse e di tanti sospiri sarebbero apparsi sulla sabbia.

“Tocca a voi”
In silenzio i tre compagni d’arme si alzarono. Tutti i presenti non osarono fiatare, mentre Vegeta, seguito dagli altri due, si incamminava con passo sicuro verso il meccanismo che li avrebbe fatti apparire nell’arena.
Tutti sapevano che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero solcato la terra di quel passaggio; l’imperatore non si era dato la noia di nascondere la sua intenzione di estirpare una volta per tutte la razza Sayan, e quella era proprio l’occasione giusta.
Deciso ad offrire al pubblico uno spettacolo indimenticabile, Zarbon aveva organizzato un grande evento che sarebbe stato ricordato negli annali e nelle storie per l’eternità: sull’arena gli spettatori avrebbero assistito alla riproduzione fedele della guerra che aveva visto la conquista di Roma sui Sayan, e la loro disfatta, finalmente, definitiva.
La luce abbagliante del sole ferì per un attimo gli occhi dei tre, abituati alla perenne penombra del sottosuolo.
L’aria parve nelle loro narici, fresca e pulita come acqua di un ruscello in confronto a quella stantia delle celle sotterranee.
Ci volle appena un attimo, prima che il pubblico scoppiasse in un boato fragoroso; l’intero colosseo tremò sotto i battiti di centinaia di piedi, mentre gli applausi e le urla andarono ad infastidire Giove stesso, nell’alto del cielo.
Per la prima volta in quella giornata, persino Bulma rimase senza fiato.
La sabbia dell’arena, già macchiata di sangue in più punti, si alzò sotto un sottile alito di vento.
Nel centro del grande piazzale, si ergevano come torri tre uomini, ma il suo sguardo fu subito incatenato ad uno solo di essi.
In piedi in mezzo ad un colosso e a un reziario dalla folta chioma, stava con le gambe leggermente divaricate un ragazzo.
La gamba sinistra era protetta da un’armatura di bronzo che scintillava sotto i raggi infuocati del sole; allo stesso modo il braccio destro era guantato dalla manica, una copertura di lana rivestita da lamelle metalliche che dalla spalla arriva alla mano. Stretto nel pugno destro un corto gladio, mentre la sinistra reggeva uno scudo allungato, grande quasi quanto il suo corpo. Sotto il braccio, un elmo con calotta liscia e senza cimiero.
A parte un gonnellino di lino, il suo corpo era lasciato nudo; i muscoli finemente cesellati dalle battaglie, fremevano sotto il caldo tocco dell’astro di Apollo. La pelle tersa dagli oli e dal sudore sfavillava sull’incarnato brunito
Nonostante non fosse un uomo di grande statura, tutta la sua figura emanava potenza e forza, tanto da far sfigurare il gigante che gli stava accanto.
“Sembra una statua del dio Marte” si ritrovò a sussurrare Bulma, rapita da quella visione.
E del dio conservava le proporzioni e i lineamenti. Sotto una folta chioma ribelle del colore della notte più cupa, gli occhi profondi, il naso dritto e la bocca fine disegnavano un volto di struggente equilibrio.
Il viso corrucciato, le labbra serrate, non riuscivano a frenare l’irruenza dello sguardo.
Come due perle di onice, gli occhi dardeggiavano fuoco e sicurezza, come magneti attraevano lo sguardo della giovane.
Intorno la sua figura pareva palpabile il carisma che emanava.
Bulma lo paragonò alla superba pantera che poche ore prima aveva solcato quella stessa sabbia: della fiera l’uomo conservava il portamento regale e lo sguardo indomabile.
Il frastuono si quietò, quando Cesare alzò la mano che conteneva la coppa dorata del vino.
“Cittadini di Roma! Non vi avevo forse promesso di farvi assistere al più sublime degli spettacoli gladiatori? Ecco i nostri migliori campioni!”
Il pubblico scoppiò in un boato di approvazione.
Ad un cesto la calma tornò.
“Per celebrare questo anno di vittorie, ho pensato che sarebbe stato di vostro gusto assistere ad una delle battaglie che ha visto il nostro esercito, i nostri soldati, vittoriosi!”
A quelle parole nell’arena si riversarono decine di gladiatori travestiti da soldati che accerchiarono i tre Sayan.
“Godetevi il trionfo di Roma!”
Con un sorriso soddisfatto, Cesare tornò a sdraiarsi sul suo triclinio, pronto a godersi finalmente lo spettacolo tanto atteso.
L’attacco fu rapido. Comandati dal primus pilus, il capo di tutti i centurioni dell’impero: Dodoria
Era un essere sgradevole, dallo stomaco preminente. La pelle, butterata a causa di una malattia contratta in un paese esotico, appariva di un innaturale color rosa e segnata da profondi solchi.
In un batter di ciglia, Bulma vide quella massa di uomini avventarsi contro i tre gladiatori.
Sentendo un nodo in gola, quasi incapace di deglutire, la donna si aggrappò alla ringhiera che le stava di fronte fino a che le nocche delle mani non le si sbiancarono.
Nell’arena gli assaliti avevano assunto una posizione di difesa con le spalle a contatto uno dell’altro, e respingevano con abilità gli assalti impetuosi dei loro nemici.
Il chiasso della battaglia sovrastava ogni altro suono, mentre il cozzare delle spade e dei ferri si mischiava alle grida acute di coloro che cadevano sotto gli implacabili colpi dei tre inarrestabili guerrieri.
Cresciuti in una società impietosa verso i deboli, i Sayan avevano forza fisica e volontà tali da poter sconfiggere quel piccolo esercito.
Quando se ne accorse, Dodoria decise che fosse giunto il momento di sfoderare la sua ultima arma. Da delle entrate laterali fecero il loro ingresso due carri da guerra portati da pariglie di possenti stalloni guidati da esperti equites.
I carri sfrecciavano intorno alla scena della battaglia, portando scompiglio e sollevando la polvere.
Accecato dalla sabbia, Raddish si staccò accidentalmente dal suo gruppo. Ritrovandosi con le spalle scoperte, lanciò la sua rete alle volte di un soldato e ne trafisse un’altro con il suo tridente. Ma un giavellotto lo colpì tra le scapole, strappandogli l’ultimo soffio di vita dai polmoni.
Nappa e Vegeta erano ormai in netto svantaggio.
Sfiancati dal caldo e dallo sforzo, gli scudi sembravano divenire ogni secondo più pesanti.
Raccogliendo una lancia, il principe riuscì a scagliarla contro un carro, colpendo il cavaliere al torace. I cavalli, senza più controllo, si fiondarono verso le uscite, travolgendo un arbitro e dei portantini che ripulivano il campo dai morti.
Ma nel gesto del lancio, Vegeta lasciò scoperto un fianco, e subito una lama gli fendette le carni.
Anche Nappa aveva riportato numerose ferite. Approfittando della calca, un soldato sgusciò tra i piedi degli altri e con un colpo netto recise un tendine della caviglia del colosso, che crollò improvvisamente come le salde mura di una città assediata.
La mente annebbiata dal dolore, il gigante non riuscì a contrattaccare a un assalto di massa, e in breve tempo venne finito dalle lame di numerosi gladi.
Vegeta si ritrovava da solo, ormai, con le spalle al muro e di fronte un’orda di uomini freschi, poiché puntualmente le file dei suoi avversari venivano rinnovate con nuovi elementi.
La tensione attraversava il Colosseo come un tuono che fende l’aria. Persino Cesare si era alzato e nel pugno stringeva la coppa fino quasi a deformarla.
Il pubblico, sazio del massacro, iniziò a invocare la grazia per il principe guerriero, urlando a gran voce la missio stans, la grazia per colui che stava ancora in piedi.
Sentendo quel richiamo, l’imperatore gettò con foga la coppa a terra.
“Potente Freezer...” Zarbon tentò di calmare l’ira del suo sovrano, cercando di farlo ragionare. Non era una buona idea deludere le aspettative di un popolo, anche quando esso invoca la grazia.
Con un ruggito l’imperatore ordinò:
“Finitelo!”
Il popolo iniziò a reclamare, e i soldati con difficoltà riuscivano a contenerne la foga.
Intanto, nell’arena, fedeli agli ordini del loro comandante, i soldati effettuarono un ultimo attacco.
Vegeta riuscì con difficoltà a respingerli; era ormai ferito in più parti e dai tagli il sangue scorreva copioso ad imbrattare la sabbia dell’arena. Si sentiva stanco, le forze abbandonavano le sue membra. Ma la sua volontà, il suo orgoglio, rimanevano saldi e sicuri, e ciò gli permetteva di non cedere.
Fino a che, stanco di quel gioco, Dodoria non lo colpì con forza alla nuca.
Allora calarono le tenebre sugli occhi del principe decaduto, mentre una luce maligna si accendeva in quelli dell’imperatore.

Bulma si guardò intorno, spaesata.
Ancora non poteva credere a ciò a cui aveva assistito.
Ogni particolare, ogni lamento, ogni goccia di sangue versata in quello scontro continuava a tornarle nella mente, a torturarle l’anima.
Barcollando, si appoggiò a un muro.
Dopo quello scontro l’atmosfera nell’arena si era surriscaldata e suo padre aveva ordinato a lei e alla madre di tornare presso la loro villa.
Su una lettiga, le due donne erano state trasportate lungo le strade dell’urbe fino alla magnifica struttura che sorgeva sulle sponde del Tevere.
In silenzio, poiché persino dal volto della madre era scomparso il sorriso, erano giunte a casa.
La ragazza aveva rifiutato l’offerta di un bagno che una sua ancella le aveva proposto, troppo scossa per dedicarsi a quelle sue abitudini quotidiane.
Sentendo le mura intonacate della casa stringersi intorno a lei, aveva deciso di recarsi nel rigoglioso giardino, dove sperava di trovare la tranquillità dell’animo in mezzo a quella della natura. Il fiume scorreva lento di fronte a lei, come i suoi pensieri che fluivano nella sua mente.
“È morto...non ci posso credere! Non capisco, perchè questo mi turba tanto? In fondo prima di lui ne sono morti altri, e non lo conoscevo neanche...eppure...i suoi occhi, se penso ai suoi occhi.”
Una lacrima le rotolò sulla guancia e andò a morire sulle candide labbra.
La scia umida le gelava la pelle. Con uno scatto della mano se la asciugò.
“Ma come posso esser tanto stupida? Piangere la morte di uno sconosciuto, un gladiatore per giunta. Probabilmente era un essere sanguinario e maligno”
Eppure, davanti ai suoi occhi, rimaneva l’immagine di quel giovane che per un attimo le era sembrato essere l’incarnazione del dio della guerra.
Un’altra lacrima si unì alla prima, e questa volta lei non fece nulla per fermarla.

“È meglio andare, Cesare. la situazione potrebbe precipitare”
Freezer si voltò verso il suo consigliere. Poi lanciò un ultimo sguardo all’arena, dove i corpi dei tre gladiatori stavano ancora a terra martoriati. Il sangue unito alla sabbia aveva creato una disgustosa poltiglia intorno alle loro carni, sembrava quasi volerli inglobare nel terreno per facilitarne la discesa nell’ade.
“Che non gli sia data sepoltura. Che le loro anime vaghino in eterno senza il permesso di passare il fiume infernale.”
Con un cenno di assenso, Zarbon assicurò all’imperatore di avere capito le sue intenzioni. Poi, insieme, si allontanarono negli oscuri corridoi dominati dalle ombre.

Il disco d’oro di Apollo stava lentamente cadendo oltre i colli. Nel cielo, le nuvole avevano assunto il colore rubigno del sangue, quasi a commemorare quella giornata di massacri nel regno dei mortali.
Bulma se ne stava seduta sul piccolo molo di fronte a casa sua. Fin da bambina quel posto le infondeva tranquillità: con i piedi lambiti dai flutti del fiume, le era sempre parso che i suoi problemi scivolassero via da lei come l’acqua scorreva tra le sue dita.
Ma quella volta il suo turbamento era ben più profondo. Figlia di una famiglia agiata, la ragazza era cresciuta nei vizi e non aveva conosciuto alcun profondo dolore.
Proprio per questo quella strana sensazione di tristezza le pareva tanto opprimente da fermarle il cuore nel petto.
Con gli occhi appannati dalle lacrime, osservava il luccichio sereno delle increspature sull’acqua calma.
All’improvviso le parve di scorgere una forma tra i flutti.
Tirando fuori i piedi dall’acqua nell’infondata paura che fosse un mostro marino o un pesce carnivoro, la ragazza osservò meglio quella sagoma che spariva nelle profondità per tornare a galla poco dopo.
In realtà non pareva un pesce.
Era decisamente troppo grande. Certo, chi lo sa di che dimensioni siano i pesci carnivori, ma...
Bulma spalancò gli occhi, quando la vicinanza le permise di riconoscere l’oggetto.
Con qualche rammarico per il bel peplo di lino che indossava, si tuffò nell’acqua bassa del fiume e recuperò l’oggetto della sua ricerca, portandolo non senza molti sforzi, sulla riva.
Fra i canneti si concesse un secondo per riprendere fiato.
“Per Diana!” sussurrò sbalordita.
La sua vista non l’aveva ingannata, la sua immaginazione non l’aveva deviata dalla realtà.
Quello che aveva a fatica portato all’asciutto era proprio un uomo. E non un semplice uomo! Anche senza l’abbigliamento da battaglia, era impossibile non riconoscere il giovane che per ore aveva invaso i pensieri della ragazza.
“Oh cavoli, ma non era mica morto?”
Bulma spalancò gli occhi.
“Giove, ti prego, dimmi che non ho tratto in salvo un cadavere!”
La giovane si avvicinò al corpo che stava supino di fianco a lei. Il volto pareva rilassato nel sonno, con le labbra morbidamente dischiuse, eppure le sopracciglia mantenevano un fare corrucciato quasi come nel sogno stesse affrontando qualche fastidio.
Facendosi forza Bulma avvicinò la mano al petto di lui. Un sottile battito, leggero come il frullare di ali di un fringuello si fece sentire sotto i suoi polpastrelli.
La ragazza sospirò, sollevata.
“Certo che da vicino è ancora più bello” si ritrovò a pensare. Il gonnellino di lino, bagnato dal fiume, aderiva ai muscoli potenti delle gambe del giovane. A quella distanza Bulma poté notare come la pelle fosse segnata da numerosissimi solchi, ricordi di chissà quante battaglie.
Arrossendo, la giovane scostò lo sguardo.
Non era certo quello il momento di comportarsi come sua madre!
Sapendo che senza l’aiuto dell’acqua le sarebbe stato impossibile spostare il corpo, decise di correre verso casa a cercare aiuto.

Il silenzio.
La totale assenza di alcun suono.
Non ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva goduto di quell’amico.
Lentamente Vegeta riprese coscienza degli ultimi avvenimenti. I giochi gladiatori. La lotta. La caduta di Raddish, e poi di Nappa. Le ferite nella carne, il bruciore del sangue negli occhi, i nemici morti di fronte a lui. E poi l’ultimo colpo, quello mortale.
“Sono morto?” pensò con sgomento il giovane.
Era quello l’ade? Un posto di silenzio e ombra?
Un respiro un po’ più profondo gli procurò una fitta di dolore al fianco.
Gradatamente tutti i suoi sensi ripresero vita.
Si accorse che il silenzio non era perfetto. Delle cicale frinivano e il vento che soffiava leggero sembrava intonare un canto tra le canne.
E il buoi non era totale. Aprendo gli occhi, Vegeta vide prima sfuocate e poi sempre più nitide le stelle oltre una finestra.
Finestra...
Riprendendo possesso delle sue facoltà, finalmente si accorse di esser disteso su un morbido letto. Le ferite erano state fasciate dal candide bende bianche e un lenzuolo leggero era stato posato sul suo corpo.
Il tentativo di alzarsi sui gomiti gli procurò solo una forte fitta alla testa.
Voltandosi di lato ad osservare l’ambiente capì di essere in una stanza.
Poi il suo sguardo venne catturato da una visione che mai si sarebbe aspettato di vedere.
Proprio in fianco al letto, qualche metro scostato, si trovava un piccolo scrittoio. Seduta davanti ad esso e con il capo chino sul tavolo, stava serenamente addormentata una fanciulla.
Una sottile tunica bianca svolazzava leggermente al soffio della calda brezza, mentre nel chiarore della luna le forme della giovane apparivano chiare sotto quel vano nascondiglio.
Le spalle si abbassavano dolcemente nel respiro calmo del sonno, e i lunghi capelli ricadevano sciolti su di esse. Del volto, girato verso di lui, il giovane poteva scorgere poco, data l’oscurità; ma le labbra morbide erano in luce, così come un braccio niveo ripiegato sotto il capo.
Spossato, ricadde addormentato in un sonno agitato dai ricordi e dal dolore.

“Finalmente sei sveglio”
Vegeta strizzò leggermente le palpebre prima di aprire gli occhi.
Ci mise qualche secondo prima di mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava.
“Dove diamine...” la bocca impastata e la gola riarsa non gli permisero di andare avanti.
“Sei nella residenza Brief.”
Il giovane volse lo sguardo verso la proprietaria di quella voce.
In piedi di fronte a lui, stava una giovane.
All’improvviso gli balenò in testa l’immagine di quella stessa ragazza addormentata su uno scomodo scrittoio, come uno sfuocato ricordo di un sogno.
Finalmente poté dare un viso a quella visione, e, sebbene preparato a trovarsi di fronte una giovane, mai si sarebbe immaginato una tale bellezza. La ragazza che gli stava di fronte possedeva lineamenti delicati che parevano quelli di una delle ninfe delle favole; la bocca carnosa spiccava col suo colorito rosso su una pelle di raro candore, tale che persino la luna sarebbe impallidita dall’affronto che ne subiva. Sotto le lunghe ciglia fremevano i grandi occhi del colore dei ruscelli di montagna: un azzurro limpido e sereno, senza ombre o impurità. Tutto il suo viso pareva emanare una luce particolare, calda e armoniosa. I capelli lunghi, lasciati semplicemente sciolti sulle spalle, dimostravano le sue origini straniere. Al pari degli occhi, infatti, portavano i vessilli del cielo estivo nei colori. Le forme armoniose del corpo si muovevano lungo morbide curve slanciate; quella ragazza era certo stata baciata da Venere stessa.
“Sono giorni che dormi, sai? Iniziavo a preoccuparmi, non sarebbe stato per nulla carino averti salvato dall’acqua per vederti morire nel letto.” La giovane sorrise, sottolineando il tono canzonatorio della frase.
“Salvato...”
“Già, ti ho visto galleggiare sul Tevere, mi sono buttata e ti ho ripescato, tra l’altro rovinando uno dei miei pepli più belli, di quelli egiziani...”
Vegeta prese un respiro profondo, mentre Bulma continuava il suo monologo sulle sue abilità di salvatrice, constatando che il torace non gli doleva più così tanto.
In compenso la testa gli pulsava, e la voce di quella donna non gli era certo di aiuto
“Taci, donna”
Gli occhi della giovane si spalancarono per un secondo, stupiti da tale rudezza.
“Brutto cafone, cerca di essere un po’ più gentile con la tua salvatrice! Senza di me saresti morto, affogato, mangiato dai pesci! E comunque il mio nome è Bulma, della gens Brief”
Vegeta si tirò su, alzandosi sui gomiti.
“Per le palle di Ade, non mi importa del tuo nome, stai zitta e basta, donna.”
Gli occhi della giovane si ridussero a due fessure.
“Se non fossi già conciato tanto male ti insegnerei un po’ di educazione, scimmione!”
detto questo uscì dalla stanza, indispettita.
Vegeta tornò a sdraiarsi.
“Che donna rozza” pensò.

I giorni passarono, e lentamente il giovane riprese le forze grazie alle cure, al riposo e al cibo.
Rivide la giovane solo poche altre volte, e ogni incontro finiva incredibilmente con un litigio. In compenso fece la, sgradevole, conoscenza degli altri abitanti della casa; un vecchio dall’aria folle e una matrona che non faceva altro che fissarlo in modo malizioso, riuscendo nell’arduo compito di mettere a disagio il principe dei Sayan. In fine solo una volta aveva fatto capolino dalla sua stanza il volto di un ragazzo, sfigurato da due profonde cicatrici. Ma era bastato un ringhio e una battuta per farlo scappare a gambe levate.
Le ferite del suo corpo guarivano in fretta, creando cicatrici là dove già ce ne erano. Altrettanto non si poteva dire delle ferite inferte al suo orgoglio.
Un giorno finalmente Vegeta riuscì ad alzarsi dal letto, anche se non senza difficoltà.
Era una assolata mattina di cielo terso e di nuvole bianche.
Deciso a scoprire dove si trovasse esattamente si affacciò alla finestra che per tanto tempo era stata l’unico quadrato di mondo che gli fosse stato concesso di ammirare.
Appoggiando le braccia al parapetto, osservò il giardino che si apriva sotto di lui.
Come la maggior parte delle ville romane, anche quella aveva un unico piano e le stanze si affacciavano su un cortile interno, in questo caso occupato da una grande piscina dall’aria rinfrescante.
Vegeta chiuse per un attimo gli occhi, inspirando la brezza fresca che gli portò un dolce profumo di gelsomino.
“...insomma, Bulma, per quanto tempo pensi di andare avanti così?”
Una voce maschile palesemente indispettita fece capolino tra i pensieri di Vegeta.
“Non credo che questi siano affari che ti riguardino, Yamcha.”
Il principe alzò un sopracciglio. Certo che quella donna aveva la lingua tagliente con tutti, non solo con lui! Sorpreso dai suoi stessi pensieri, Vegeta si riscosse. Da quando gli interessavano i discorsi di una stupida femmina? Certo questa sua attenzione doveva esser dovuto alla noia e all’inattività prolungata, così insolita nel suo stile di vita...la sua mente aveva solo bisogno di svagarsi.
Deciso a non farsi coinvolgere ulteriormente, fece come per allontanarsi dalla finestra quando le voci lo raggiunsero di nuovo.
“Ma come fai a non capire! Quello lì è pericoloso! Non è un cucciolo di gatto da tenere in casa, è un gladiatore, un mostro sanguinario conosciuto per la sua crudeltà!”
Vegeta sogghignò. Ora si sentiva assolutamente in dovere di sentire la risposta della donna.
“Io capisco perfettamente, Yamcha. Ma per quanto mi riguarda è solo un uomo ferito bisognoso di cure. E se tu smettessi per un attimo di fare il coniglio e ti comportassi da uomo lo vedresti anche tu!”
La voce del ragazzo si alzò di tono.
“Io non faccio il coniglio! Sono solo preoccupato per te, che sarai mia sposa...e per questo ti ordino di sbarazzarti di quello lì”
Un attimo di silenzio.
Vegeta cercò di immaginare il volto della ragazza, ma solo allora si accorse di non averla mai vista in viso.
“Come osi! Mi ordini? Ma chi ti credi di essere? Io non accetto ordini proprio da nessun, men che meno a casa mia! Se desideri una donna serva puoi benissimo tornare ai lupanari che tanto ti soddisfano!”
La voce della ragazza aveva raggiunto degli acuti sorprendenti.
Vegeta poi non riuscì a sentire altro che una porta sbattere con violenza.

Era ormai quasi un mese che si trovava in quella casa.
Il pater familias gli aveva assicurato che, come amico della figlia, poteva restare quanto più gli facesse piacere.
Durante quei lunghi giorni Vegeta aveva accuratamente cercato di evitare di pensare alla sua situazione.
Tuttavia, quel giorno, per quanto si sforzasse, non riuscì ad allontanare quei fastidiosi pensieri dalla mente.
Si trovava sul piccolo molo d’attracco privato della casa. Con una gamba raccolta e l’altra lasciata a penzolare sull’acqua, osservava in silenzio lo spettacolo dell’acqua che scorreva sotto di lui.
“Ero qui, quando ti ho trovato”
La voce della donna lo stupì appena, ma fece in modo di non mostrare alcun tipo di reazione.
Con un sospiro lei si mise a sedere accanto a lui.
“Ci vengo sempre, quando sono stanca, arrabbiata, delusa...o anche solo quando ho voglia di tranquillità”
Vegeta pensò che la sua, di tranquillità, era appena stata infranta.
La donna accanto a lui appoggiò le mani dietro la schiena.
Il silenzio regnò per qualche minuto, interrotto soltanto dal gracidare lento di qualche rana e dallo sciabordio delle leggere onde.
Non era poi tanto male la sua compagnia, quando stava in silenzio.
“Immagino sia strano per te”
Questa volta il giovane si girò, incuriosito da quella frase lasciata a metà.
Notò che la donna aveva fissato i grandi occhi al cielo, che lentamente si stava infuocando dei colori del tramonto.
“Intendo dire essere libero di nuovo”
Il respiro del giovane si mozzò, per un attimo. Voltandosi nuovamente verso il fiume per nascondere il suo turbamento, Vegeta finalmente capì cos’era quella strana sensazione che da giorni non accennava ad abbandonarlo, una sorta di smania interiore che gli faceva vibrare le membra; all’inizio credeva che si trattasse del suo orgoglio ferito, ma ora comprendeva che si trattava della consapevolezza di essere libero.
Libero...da quanto tempo non sapeva più cosa fosse la libertà? Era ancora bambino, quando era stato catturato da Freezer, e poi la sua adolescenza passata a calpestare la sabbia delle arene di tutto l’impero, i duri allenamenti, le lotte e il sangue...
Una lucciola si posò gentilmente su un filo d’erba.
Come faceva quella donna a saperlo? Come poteva aver compreso prima di lui cosa gli stesse capitando?
“Credo che dovresti pensare seriamente a cosa fare una volta guarito. Naturalmente potrai stare qui con noi quanto vuoi, anzi, mia madre sembra essere particolarmente felice di sfamare la voragine che hai al posto dello stomaco”
“Ucciderò Freezer”
Bulma si sedette più compostamente, non aspettandosi certo una simile risposta dall’ombroso ospite.
“I tuoi sono propositi ambiziosi”
“Che ne può sapere una donna” rispose con fare altezzoso il giovane.
Bulma incrociò le braccia sotto il seno.
“Quante volte ti devo ripetere che mi chiamo Bulma, stupido scimmione! La vicinanza con le bestie dei munera ti ha forse fatto diventare come loro?”
“Bada a come parli, donna, altrimenti...”
La giovane si alzò, indispettita.
“Altrimenti cosa?”
Vegeta si stupiva ogni volta del fegato di quella gracile ragazza: non sarebbe stata in grado di sollevare neanche una cesta di frutta, ma non mancava mai di istigarlo.
Senza pensarci due volte le afferrò una caviglia e la gettò nel fiume.
Senza badare alle urla isteriche alle sue spalle, si allontanò, facendo ritorno verso la casa.
La brezza leggera scosse le fronde degli alberi.
Per la prima volta, dopo anni, Selene, la dea della luna, poté osservare sul suo volto nascere il timido accenno di un sorriso.

Fine
 
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°Verochina°
view post Posted on 3/7/2008, 13:06




Finalmente posso commetare! Mi complimento con te per questa magnifica fanfiction, è davvero stupenda e ha giustamente meritato il primo posto!
L'idea di trasformare i tornei e i combattimenti di Dragonball nei giochi dei gladiatori dell'antica Roma è azzeccatissima, e poi ritengo che Saiyan e gladiatori siano molto simili (XD). Hai riprodotto benissimo l'ambientazione, usando particolari nati da una ricca documentazione e non inventando per poi sbagliare, come spesso succede in questo tipo di AU. Hai riprodotto bene anche le tappe fondamentali della storia di DB, dall progionia di Vegeta, la morte di Nappa e di Radish, le cure amorevoli e l'ospitalità in casa Brief, nonchè le famose liti tra Bulma e Vegeta! Mi sono immedesimata molto nel racconto, tali erano le descrizioni dettagliate e la riproduzione del linguaggio e della mentalità (ma se l'avessi scritto in latino ti avrei odiata! XD), mi sembrava quasi di essere lì nell'arena, prima sugli spalti e poi nelle celle dei gladiatori (con quella puzza di sudore e *popò*, bleah! Un misto tra un asilo nido e una palestra! XD).
 
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1 replies since 18/6/2008, 18:04   74 views
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