Vals av Månen, [12/06/08] Horror

« Older   Newer »
  Share  
Sselene
view post Posted on 21/7/2008, 14:12




Rating: 16 anni
Tipologia: Long Fiction
Lunghezza: 4.714 parole divise in 3 capitoli + prologo + epilogo
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, Violenza
Genere: Thriller, Horror, Sovrannaturale
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: ... Beh... la marca "Mulino Bianco" non è mia X°
Note dell'Autore: Allora... trovo giusto dire che non ero certa al 100% di voler pubblicare questa storia, però ho deciso di farlo per due motivi: il primo è che Vero è stata tanto gentile da concedermi un giorno in più e non ho trovato giusto ritirarmi all'ultimo dop una cortesia simile; il secondo è che ho letto la storia già pubblicata (mi pare di lilac) e ho notato che doveva essere stata scritta con un certo impegno e non volevo farle rischiare di ritrovarsi in un contest nullo, ecco X° Così, ecco la mia storia.
Introduzione alla Storia: “Io sono Séline.” Le si era presentata con un immenso sorriso.
“Io sono Själ.” Aveva risposto lei, senza neanche guardarla. “E mangio carne umana.”


Non so cosa sia successo…
Non so cosa io ci faccia qui, ora, con le mani sporche di sangue non mio.
Se non fossi troppo sconvolta, troppo shockata, per far qualsiasi cosa credo che vomiterei.
E’ uno di quei momenti in cui, istericamente, l’unica cosa che voglio è una sigaretta, ma non ne ho con me.
Quando i poliziotti arriveranno, se lo faranno, potrei chiederne una a loro.
Non so se voglio che vengano.
Mi chiederanno cos’è successo, che ci faccio qui e io non sono certa di sapere la risposta.
Nell’ultimo periodo mi sembra di aver vissuto sospesa all’esterno del mio corpo, senza rendermi conto dell’assurdità della situazione che si stava creando attorno a me.
Mi chiedo ancora cosa sia successo.


Capitolo 1
Själ Minsota era nata nel Febbraio del 1984 in Eskilstuna. Una fredda mattina di domenica, il cielo colmo di nubi cariche di pioggia aveva accolto le sue grida di dolore all’essere strappata a quell’acquoso mondo caldo e rassicurante in cui viveva per essere sbattuta in un mondo freddo e spaventoso, pronto a divorarla in un sol boccone. Nei primi anni i suoi genitori l’avevano protetta e rassicurata e lei si era dimenticata della belva famelica che era il destino. Poi la Belva aveva cominciato a divorare.
Il primo ad essere colpito era stato suo padre. Une bella, calda serata del Maggio 1990, Eskil Minsota, passeggiando nel bosco con la sua bella bimba di 6 anni, era stato aggredito da un branco di famelici lupi selvatici che avevano assalito il suo corpo, contendendoselo tra loro con tanta veemenza che ritrovare l’interno cadavere era costato alla polizia quasi 3 giorni di ricerche.
Poi anche sua madre se n’era andata. A settembre del 1995, con la colazione pronta, il caffè ancora sul fornello e i panni stesi ad asciugare, Annika Inger Minsota era sparita nel nulla, senza una traccia o un biglietto che facessero capire dove fosse andata e per quale motivo. Girava voce che avesse deciso di fuggire con Jan Ingvar, uomo di cui, dicevano le chiacchiere, si era perdutamente innamorata ben prima la morte del marito. Di lei, comunque, nessuno più ne aveva saputo niente.
Infine, anche Ibrahil Hjalmar, il direttore dell’orfanotrofio in cui Själ, ormai undicenne, era stata portata, era stato divorato. Il suo corpo era stato trovato una mattina dell’agosto del 1997 dalla sua segretaria, con un profondo squarcio sulla gola che quasi gli aveva mozzato la testa. L’autopsia aveva confermato, sgomentando tutti quelli che conoscevano l’uomo, che si era trattato di suicidio, come già aveva fatto capire la lettera d’addio che era stata trovata accanto alla sua macchina da scrivere.
Inizialmente, Själ era riuscita a convincersi che le cose avvenute erano soltanto una serie di sfortunate coincidenze che non avevano nulla a che fare con lei, ma poi, aiutata dalla crudeltà dei suoi compagni di orfanotrofio, aveva iniziato a credere che fosse effettivamente colpa sua, che fosse lei, in qualche modo, a provocare la morte delle persone che aveva intorno. Iniziò a maturare l’idea di fuggire, di allontanarsi, così da non poter ferire più nessun’altra delle persone a cui si era affezionata, ma c’era ancora qualcosa in lei, paura probabilmente, che le impediva di muoversi dalle accoglienti mura del’orfanotrofio. Quando Annie, la bambina che affettuosamente chiamava syster, era scomparsa, solo per ritornare mancante di un braccio per morire in breve per dissanguamento, aveva deciso di andarsene. Sgusciare fuori dall’orfanotrofio e trovare un passaggio che la portasse via non era stato difficile e, presto, aveva imparato a vivere e tutto ciò che di infantile era rimasto in lei era scomparso.
Quando si era ritrovata in Francia, a Parigi, nel 2004, non aveva avuto alcun dubbio su quale fosse la cosa giusta da fare e si era presentata al Moulin Rouge. Neanche il direttore del Moulin Rouge aveva avuto alcun dubbio su quale fosse la cosa giusta da fare e l’aveva assunta senza alcuna esitazione. Era certo che quei lunghi e lisci capelli talmente chiari da parere quasi bianchi, quegli affilati occhi di ghiaccio, quel viso di porcellana e quel corpo perfetto l’avrebbero fatto guadagnare molto. Di certo non sbagliava.
-.-.-
Anche Séline Monport era nata nel Febbraio del 1984, ma era stata la città di Rouen ad accogliere il suo pianto confuso e a tranquillizzarla con una luminosa giornata. Niente e nessuno l’aveva mai portata a pensare che ci fosse qualcosa di crudele nel mondo in cui viveva e, anzi, era cresciuta sempre con indosso degli occhiali rosa che le avevano a lungo fatto credere che il mondo fosse un posto meraviglioso.
Un giorno di Luglio del 1998, il mondo le aveva fatto capire che non era così fantastico come pensava, mandando Jean-Luc Dérriére, il suo insegnante di pianoforte, a bloccarla sul soffocante letto matrimoniale di casa sua, rubando la sua giovinezza con gesti nervosi e violenti, rimandandola a casa priva di ogni rimasuglio di felicità e dignità, oltre che delle mutandine. Mandarlo in galera sarebbe stato facile, se l’avesse denunciato, ma non l’aveva fatto.
Agli inizi del settembre 2001, François Monport, suo padre, l’aveva portata nella loro villetta in campagna per insegnarle a sparare, soddisfatto nel vedere la figlia imparare con rapidità e precisione. Poi gli aveva infilato la lingua in gola e una mano sotto la maglietta. Tra le lacrime, Séline non aveva avuto alcuna difficoltà a convincere i poliziotti che si era trattato di un tragico incidente, il proiettile nel mezzo della fronte di suo padre.
Poi il mondo era tornato rosa, era tornato felice. Nel Gennaio del 2006 aveva incontrato un uomo, un uomo meraviglioso, che era riuscito ad amarla e a farsi amare, ridonandole la gioia che aveva perduto. Di quasi 10 anni più grande, Claude le aveva donato protezione, beatitudine, tranquillità. Si erano frequentati a lungo, avevano aspettato i tempi giusti per amarsi, per donarsi anima e corpo, per convivere anche, per un breve periodo. Poi lui l’aveva chiesta in sposa e lei non aveva avuto alcuna esitazione nel dirgli di si.
Nel dicembre del 2007, Claude l’aveva lasciata sola sull’altare.
Per quel motivo era arrivata fin lì, fino a Parigi, fino alle porte del Moulin Rouge. Aveva deciso che il mondo non era adatto a una bambina pronta ad aprire il proprio cuore a chiunque le sorridesse. Aveva deciso che chiudersi lì l’avrebbe protetta dalla crudeltà dell’esterno. Aveva deciso di fare qualcosa di decente, col suo bel corpo, solo perché era lei a volerlo. Erano le cose che aveva detto al direttore del Moulin Rouge per convincerlo ad assumerla, nonostante non ce ne fosse certo molto bisogno, grazie ai suoi intensi occhi nocciola, ai mossi capelli scuri, al naso alzato come quello di ogni tipica francese e alla pelle morbida.
Nel marzo del 2008, le vite, i destini, i futuri di Själ Minsota e Séline Monport si erano uniti indissolubilmente.



Capitolo 2

“Io sono Séline.” Le si era presentata con un immenso sorriso.
“Io sono Själ.” Aveva risposto lei, senza neanche guardarla. “E mangio carne umana.”
Il loro primo incontro era stato quello. Séline per qualche attimo era rimasta paralizzata, poi aveva fatto dietro-front. Era certa –quasi certa- che fosse solo un modo per farle capire che non amava fare amicizia e lei aveva deciso di essere ben contenta di starle lontana. Alla fine, però, giorno dopo giorno, avevano fatto ugualmente amicizia, senza che nessuna delle due lo volesse davvero.
“Buonasera, Själ.”
La ragazza si volse verso di lei, smuovendo i capelli candidi in una morbida onda che le ricadde dolcemente sulla schiena scoperta e altrettanto pallida. Si concesse –lo faceva molto raramente- un sorriso leggero nel vedere la mora particolarmente entusiasta.
“Buonasera, Séline. E’ successo qualcosa di particolare?” Sapeva bene che era ovvio che fosse successo qualcosa di particolare. Séline era una ragazza vitale ed allegra, nonostante le esperienze passate –che le aveva decantato una sera in cui la depressione l’aveva colta con insolita potenza- le avessero lasciato un segno indelebile, ma era palese che fosse successo qualcosa in più. La giovane francese arricciò il naso, cercando di reprimere l’immenso sorriso euforico che, però, le illuminò ampiamente il viso. Annuì.
“Ho conosciuto un ragazzo.” Cantilenò con la voce leggermente alzata rispetto al solito e un movimento leggero dell’indice sinistro a sottolineare ogni sillaba pronunciata. Rise nel vedere l’espressione stranita della pallida amica. “Lo so! Lo so che ho detto che con i ragazzi avevo chiuso e tutte quelle altre cose, ma lui è diverso! E’ svedese come te, sai? E mi sono trovata talmente bene con lui! E’ più grande, ma non di molto, anche se non so bene quanti anni abbia. Ci siamo incontrati e… era come se mi leggesse nel pensiero, come se sapesse esattamente cosa volevo sentirmi dire!” Själ socchiuse gli occhi, come seguendo un pensiero che, palesemente, le dava fastidio, ma sorrise leggermente, ancora.
“E come si chiama?”
“Valgar.”
I muscoli della candida svedese s’irrigidirono immediatamente a sentire quel nome, ma lei dissimulò la cosa, limitandosi a ridere appena, quasi senza alcun rumore, sistemandosi gli abiti che aveva indosso per lo spettacolo che a breve sarebbe cominciato.
“Perché al plurale?” Chiese solo, ridendo ancora, allo stesso modo quieto della prima volta, quando notò lo sguardo confuso della francese. “Valgar, in svedese, vuol dire Lupi.” Spiegò semplicemente, tirandosi un po’ il corpetto perché accogliesse meglio il florido seno. Séline rise, sistemandosi la misera gonnellina che, teoricamente, avrebbe dovuto coprirle quello che il perizoma lasciava scoperto.
“Affascinante. Comunque, stasera viene qui. Magari te lo presento.” Le sorrise, dandole un leggero colpetto sulla spalla, avviandosi al palchetto sul quale avrebbe dovuto ballare. Själ la osservò andare.
“Sono curiosa di conoscerlo.”
In realtà, Själ conosceva già Valgar. Spesso l’aveva incontrato, nella Svezia del suo passato. L’aveva incontrato nel bosco la sera in cui suo padre era stato divorato. L’aveva visto la mattina in cui sua madre era scomparsa. L’aveva incrociato la sera prima che il cadavere del direttore dell’orfanotrofio venisse scoperto. E l’aveva persino beccato a fissare insistentemente la sua syster, prima che questa scomparisse e poi tornasse solo per morire. Ed era arrivato fin lì, l’aveva seguita fino a Parigi, aveva atteso nell’ombra finché non si era sentita al sicuro e non aveva aperto il suo cuore a qualcuno per cominciare a frequentare questo qualcuno, per strappargli anche l’unica persona a cui teneva in qualche modo. Ma non gliel’avrebbe permesso un’altra volta.

Qualche ora dopo, per la quinta volta nella sua vita, Själ incrociò lo sguardo quasi trasparente di Valgar. Si era tagliato i capelli biondi che un tempo portava lunghi e aveva dato una sistemata anche alla barba di solito incolta, che era stata sistemata in un pizzetto ordinato. Pareva dimostrare ben meno di 30 anni ed era proprio come lo raffiguravano i suoi ricordi di bambina. Inspirò profondamente l’aria odorata di chiuso del locale, poi si diresse con estrema tranquillità verso l’uomo che chiacchierava amabile con Séline, ridendo con lei di chissà cosa.
“Buonasera.” La coppietta felice portò lo sguardo su di lei. Séline le sorrise smagliante. Si vedeva che era particolarmente lieta, che l’uomo che aveva accanto riusciva a farla star bene. La cosa la irritava molto.
“Själ, lui è Valgar, la persona di cui ti parlavo oggi. Valgar, lei è Själ, mia collega ed amica.” Presentò la giovane francese, con voce limpida di gioia nel ritrovarsi accanto le uniche due persone a cui teneva. L’uomo sorrise con gentilezza, nonostante il lampo di malizioso divertimento che gli attraversò lo sguardo.
“Själ è un nome davvero molto poetico.” Commentò cortese, con voce piacevole e carezzevole, stringendo la mano della connazionale con una stretta decisa, ma non troppo forte, tenendo lo sguardo magnetico e freddo fisso nel suo, altrettanto ghiacciato.
“Vuol dire qualcosa di particolare, in svedese?” Domandò Séline con estrema curiosità, posando una mano sul braccio di Valgar, osservando prima lui, poi la collega che annuì appena, con un gesto frettoloso.
“Anima.” Spiegò seccamente, rivolgendo la sua più totale attenzione all’uomo. “Ma sono più incuriosita dal tuo nome, piuttosto. Come mai al plurale?” Chiese con tono di semplice curiosità, seppur entrambi sapevano bene che cercava soltanto di infastidirlo, costringendolo a cercare qualche strana scusa che, forse, avrebbe potuto trarlo in inganno. L’uomo, comunque, non se ne curò molto.
“E’ perché io in realtà avevo un gemello. Solo che io nacqui senza problemi, lui nacque morto. Mia madre mi ha dato un nome plurale come per sperare che l’anima d mio fratello potesse così albergare in me insieme alla mia.” Spiegò sorridente e pacato come se ciò che diceva fosse la più pura verità, come se fosse abituato a rispondere a domande del genere, come se non ci fosse nulla di male. Volse uno sguardo di scherno a Själ, ma stette attento che solo lei lo notasse. “Spero di aver soddisfatto la Vostra curiosità.” Aggiunse, come a sottolineare l’inutilità del suo misero tentativo.
“E’ una cosa così poetica! Non trovi, Själ?” Esclamò la francese con veemenza e trasporto, gli occhi quasi luccicanti d’emozione, battendo una volta le mani per la contentezza nel riuscire a strappare alla svedese un sorrisetto d’approvazione. Per qualche attimo rimase il silenzio, poi Valgar riprese il discorso, volgendosi principalmente a Séline, nonostante parlasse a entrambe.
“Ah, ora che ci penso, avete sentito di quella ragazza che è stata trovata in un vicolo qui vicino? Era completamente sfigurata.”
“Oh, si, una cosa orribile! Mi chiedo chi possa aver fatto qualcosa del genere!” Ribatté immediatamente Séline con veemenza, mostrando in un sol gesto, quello di portarsi la mano al petto, tutta l’ingenuità che possedeva. Tanto aveva sofferto in passato, aveva ben capito quando fosse crudele il mondo, ma continuava ad essere, di base, una persona totalmente ottimista e positiva. Själ avrebbe desiderato per lei la più grande felicità che possa essere vissuta, ma per farlo doveva dargli un’ennesima delusione, doveva allontanarla dall’uomo svedese.
“Valgar.” Commentò solo, in risposta alla domanda della collega che, sperduta, portò lo sguardo su di lei, poi sull’uomo che aveva accanto, che rise teneramente.
“Lupi, Séline. Dicono che sia stato un branco di lupi.” Le spiegò gentilmente, dandole un buffetto affettuoso sulla guancia. “O credi forse che andrei in giro a sbranare ragazze innocenti?” La francesina rise, scostandosi imbarazzata una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. “Certo che no.”
“Certo che è strano.” Sbottò Själ, portando lo sguardo fisso in quello del connazionale. “Lupi nel bel mezzo di Parigi.” Valgar si strinse nelle spalle, senza commentare in altro modo, come a voler dire che neanche lui avesse idea di cosa ci facesse un branco di lupi a Parigi. Sorrise poi, prendendo tra le proprie una delle mani di Séline.
“Sapevi che quando un lupo incontra la compagna della sua vita, non la lascia mai? E che anche se lei muore, lui le rimane fedele? Sono davvero degli animali splendidi, i lupi, non trovi?” La francese sorrise intimidita da quel gesto e da quegli occhi affascinanti fissi sul suo viso. Si limitò ad arrossire, chinando il capo e lo sguardo, ritraendo leggermente la mano. “Si.” Ammise, però, in un soffio. Själ la afferrò per un braccio, strattonandosela un po’ vicino, avvicinando le labbra al suo orecchio.
“Credo ti sia venuto il ciclo, Séline.” La giovane avvampò totalmente, sgranando gli occhi, portandosi una mano alle labbra, irrigidendosi immediatamente.
“S-scusatemi.” Soffiò. “Torno subito.” Si allontanò in fretta, cercando di non voltar mai le spalle alle due persone che stava lasciando sole.
La giovane svedese tacque a lungo, limitandosi a portare lo sguardo sull’uomo che le sorrise accattivante, ma senza decidersi a rompere il silenzio tra loro.
“Cosa ci fai qui, Valgar?” L’uomo rise, passandosi una mano tra i capelli corti, scompigliandoseli appena, stringendosi nelle spalle e vagando con lo sguardo attorno a sé, come se stesse pensando alla domanda, ma non ne conoscesse veramente la risposta, poi tornò a osservare lei.
“Una volta che un lupo ha scelto la sua compagna di vita, non la lascia mai più.” Ripeté, con voce bassa e per nulla gentile questa volta, lasciando libera la nota roca e violenta che la graffiava. “Ed io ho scelto te.” Cercò di annullare la distanza tra i loro volti, ma la ragazza gli stringe la mano sulla gola, spingendolo lontano da sé.
“Ma io no.” Sbottò solo, allontanandosi verso l’uscita. “Fa’ i miei saluti a Séline.” Mormorò prima di uscire dal locale, affondando nella lieve brezza notturna che si levava sulla città di Parigi.

“Perché al Plurale?” Gli aveva chiesto, tanti anni prima.
Lui era rimasto zitto per un po’.
“Perché in me c’è più di uno. Proprio come in te.”


Capitolo 2
La vita era andata avanti in quel modo per molto tempo. Il rapporto di Séline e Valgar si era consolidato in poco tempo e ormai avevano preso a considerarsi fidanzati, come fossero ancora due adolescenti. Nonostante Själ avesse continuato ogni giorno a provare ad allontanare i due, sempre discretamente, perché Séline non se rendesse conto, non c’era mai riuscita e sembrava quasi aver rinunciato. D’altronde, Valgar non aveva –ancora- fatto nulla di male, forse era cambiato, forse non era come lo ricordava lei, forse –lei ne dubitava- voleva sinceramente bene a Séline, forse –solo nei suoi sogni- aveva smesso di cercarla come sua compagna di vita.
Le morti causate dai lupi stavano aumentando, però. Stavano aumentando troppo. Era suo dovere cercare di placare almeno quelle.

Era buio già da un paio d’ore, quando Själ si decise ad accostarsi al portone della casa che, lo sentiva dall’odore, Valgar usava come rifugio. Era una bella villetta a due piani dalle pareti bianche e i gerani alle finestre, decisamente poco parigina. Una di quelle in cui ti aspetti di trovare un bell’uomo con un lavoro che lo rendeva benestante, sposato con una bella donna che faceva la casalinga e amava farlo e due marmocchi, un maschio e una femmina, che gridavano, giocavano e cantavano felici. Una di quelle casette alla Mulino Bianco, insomma, in cui non immagini certo di trovarci… di trovarci Valgar.
Socchiuse gli occhi, annusando leggermente l’aria. Odore di Valgar. Odore di sangue. Doveva star consumando una delle sue prede. L’ennesima. Ma perché in casa? Quell’idiota rischiava di farsi scoprire così. Ma forse non gli importava, forse poi sarebbe partito, avrebbe lasciato Parigi, sarebbe scomparso nel nulla com’era sua abitudine fare, limitandosi a osservarla da lontano finché non avrebbe ceduto. Forse quella era la sua ultima vittima e quello poteva significare solo una cosa: che la vittima era Séline.
Non si azzardò certo a bussare al campanello, o a battere le nocche, perlacee nel buio, sulla porta di noce su cui una targhetta dorata presentava un’elegante scritta che dava il benvenuto agli ospiti –anche se dubitava che Valgar ne ricevesse. Si limitò a guardarsi intorno, assicurandosi che nessuno fosse lì ad osservare, e a posare una mano sulla maniglia della porta, spingendola con una leggera spallata. L’uscio si aprì con straordinaria cedevolezza a quel colpo, spalancandosi su un piccolo corridoio buio che portava a una porta socchiusa a mostrare una cucina perfettamente attrezzata e sistemata. Accanto c’era un’altra porta, chiusa, che, probabilmente, portava al bagno. Sulla parete destra si apriva un accogliente, anche se piccolo, salone, con una tavola squadrata di legno scuro attorniata da quattro sedie dagli schienali alti e i cuscini morbidi. Una poltrona, contro la parete, e due semplici poltrone completavano l’arredo insieme al camino acceso. Volse lo sguardo alla propria sinistra, adocchiando le scale che portavano verso il piano superiore e le imboccò, attenta a ogni minimo rumore ed odore, pronta a scattare a ogni minimo cenno di pericolo. Salendo, l’odore del sangue si faceva più intenso e le stava risultando difficile controllare i canini che si affilavano famelici o gli occhi, la cui pupilla si ingrandiva, di modo da poter osserva meglio nel buio. Quando raggiunse l’ultimo gradino, si rese conto che aveva già posato le mani sul pavimento, di modo da poter camminare a quattro zampe. Si rialzò subito e la rapidità, insieme all’odore del sangue che ormai aveva riempito tutte le sue percezioni, le fece quasi perdere l’equilibrio. Cadde in avanti, nuovamente carponi, con un tonfo sordo. Questa volta non cercò di rialzarsi e prese a gattonare, lentamente, verso la stanza da cui sentiva provenire il sangue. Con un gemito di dolore la sua razionalità si rese conto di star svanendo nel nulla, ma non poteva farci niente. C’era troppo sangue. Ed era buon sangue.
Si alzò sulle ginocchia, aggrappandosi alla maniglia della porta chiusa che si aprì su una camera da letto perfettamente ordinata, a parte l’intenso odore di sangue e il cadavere scomposto sul pavimento. Si avvicinò a questi, passandosi la lingua sui denti affilati, ormai incapace di ragionare su quello che stava facendo. Quella ragazza col volto deturpato, la gola squarciata e i capelli mori rossi di sangue poteva essere Séline, ma la sua mente rise rocamente. Che le importava se era Séline o solo una ragazza qualsiasi? Era carne. Carne fresca. Gattonò fino al cadavere, chinandosi sulla sua gola chiazzata di rosso, ripulendola leggermente dal sangue ancora fluido con la lunga lingua ruvida. Era sangue. Squisito sangue. Un ringhio leggero le vibrò nella gola, mentre qualche frammento di lucidità veniva violentemente represso nell’oblio, poi spalancò le fauci mortali e azzannò il fragile collo della fanciulla morta, strappando tutta la carne che riusciva a tenere tra i denti, fremendo appena nel sentirsi scorrere il sangue lungo il mento e la gola. Masticò a lungo, poi inghiottì. Era carne. Buonissima Carne. Si chinò nuovamente sul corpo, troppo deliziata da tanta bontà, a cui non era più abituata, per rendersi conto di cos’altro le accadeva attorno. Finché non senti quel gemito di terrore soffocato contro le mani.
Con la folle paura che le accelerava il cuore, si volse appena verso la porta, osservando attraverso i suoi occhi feroci la giovane mora che tremava tra le labbra protettrici di Valgar.
“Non volevo crederci…” Mormorò l’uomo, sistemandosi davanti a Séline, come a volerla proteggere. Själ ringhiò, ma lo svedese continuò a parlare. “Quando ho saputo del cadavere, qui a Parigi, sono corso, ma speravo con tutto me stesso che non fossi tu la colpevole.” Sospirò, con un’espressione sinceramente stanca e rassegnata sul viso solitamente gioviale. “Ti ho protetto quando hai ucciso tuo padre, Själ, che aveva assistito alla tua prima trasformazione. Ti ho aiutata con tua madre che iniziava a capire troppo. Con il direttore dell’orfanotrofio che ti aveva visto ululare alla luna. Ti ho strappato la tua amica dalle mani quando la stavi divorando, mandandola a casa, sperando si salvasse. Ho fatto tutto quel che potevo, Själ, e tu mi avevi promesso che ti saresti controllata, che non avresti più ucciso persone. E io ci credevo, Själ, ti credevo! Sono venuto qui, ma mi ripetevo che non eri tu. E invece…” Non concluse la frase. Lasciò quello sfogo disperato in sospeso, mentre volgeva uno sguardo deluso, rammaricato, scoraggiato al cadavere della fanciulla. Själ ringhiò, da terra.
“Bugiardo.” Sbottò con voce roca, gli occhi arrossati, attorno alla pupilla nuovamente sottile, seppur non certo umana. Séline doveva aver acceso la luce, anche se non ne capiva il motivo. Probabilmente neanche la francese lo capiva. “Sei stato tu, a uccidere le persone di Parigi. A uccidere questa ragazza.” Ringhiò, graffiando il pavimento con gli artigli che le crescevano. “Ascolta me, Séline, non lui. E’ vero, io ho ucciso quelle persone, in passato, perché non riuscivo a controllarmi, ma ora ho imparato. So controllarmi, non uccido più. Valgar vuole me come sua compagna di vita, per questo ha creato questa trappola. Vuole levare te di torno, così che io ceda.”
Séline avrebbe voluto convincersi che Själ aveva in qualche modo ragione. Che dicesse la verità. Che ci fosse una spiegazione a ciò che era successo. Ma il viso della collega era tanto affilato, i suoi occhi tanto pieni di sangue, i suoi denti affilati e candidi di morte e la sua voce… la sua voce non era la sua. Non era quella voce fumosa, invisibile, impalpabile voce che sembrava sempre sgorgasse da chissà quali profondità, tanto che era sottile. Non era Själ, quella strana creatura che aveva davanti, ma solo una sua pallida imitazione. Valgar si volse verso di lei, sorridendole dolcemente, incoraggiante. “Séline…” La chiamò, con tono tenero. “Esci, per favore. C’è in fondo al corridoio un telefono, chiama la polizia, spiegagli che abbiamo trovato l’assassino che cercavano.” Séline esitò, ma annuì, vedendo un lampo di terrore nello sguardo dell’uomo. Gli volse le spalle, facendo per uscire. Valgar allungò una mano verso di lei, ma Själ gli saltò addosso, schiacciandolo contro il pavimento. Séline gridò sentendo lo schianto, voltandosi e arretrando inorridita.
Valgar si liberò dal peso della svedese, mandandola a sbattere contro il letto e si rialzò in piedi, salvo poi ricadere sotto l’immediato scatto di lei. Cercò invano, a lungo, di liberarsi ancora, spingendo e scalciando, allontanando da sé il viso furioso della strana creatura con le mani. I lunghi denti affilati e chiazzati di sangue non sembravano certo volergli far del bene, così come le unghie che, ancora crescendo, affondavano nel suo petto, facendolo sussultare di vivo dolore.
D’improvviso, Själ sussultò e s’irrigidì. Gli occhi le rotearono all’indietro così da far sparire la pupilla, per qualche attimo ondeggiò, poi si accasciò sul corpo ansante di Valgar che, confuso, cercava di capire cosa fosse successo. Deglutì appena, alzando lo sguardo sulla mora francese che, quatta quatta, era arrivata alle spalle della… ex-collega, colpendola con forza alla testa usando un fucile che, ancora stordito, l’uomo ricordò di aver appeso alla parete sopra la cassettiera, di fronte il letto, quando era entrato in quella casa.
Lentamente, la consapevolezza l’avvolse come un freddo strato di ghiaccio, facendolo rabbrividire da sotto il corpo di Själ che, lentamente, riacquistava i suoi tratti e perdeva il suo calore. Séline l’aveva uccisa. L’aveva colpita alla testa con la forza della disperazione e l’aveva uccisa. Scostò di lato il corpo della ragazza che ancora aveva addosso, scostandole dalla fronte una ciocca di capelli candidi, volgendo, poi, uno sguardo sconvolto alla tremante francese che aveva dinnanzi.
“L’hai uccisa.”
Séline, finalmente, scoppiò a piangere. Gettò a terra il fucile, cadendo in ginocchio sul freddo pavimento di ceramica, portandosi le mani al viso per sfiorarsi gli schizzi di sangue che l’avevano colpita, singhiozzando disperata per ciò che era stata costretta a fare, sperando che Valgar non fosse troppo disgustato da lei per ciò che aveva fatto. Lo sentì alzarsi, ma non ebbe il coraggio di aprire gli occhi, limitandosi a singhiozzare più forte. L’uomo le poso una mano sui capelli morbidi e il gesto la confortò, ma poi quelle dita pallide si strinsero forte, tirandola in piedi e uno schiaffo doloroso le bruciò sulla guancia.
“Sei una stupida!” Sbraitò lo sloveno, spingendola a terra, non curandosi affatto del male che le faceva. “Anni e anni di lavoro per convincerla a cedere, a concedersi a me, a diventare la mia compagna di vita e tu hai distrutto tutto, uccidendola!” Séline singhiozzava ancora, ma cercava di calmarsi quel poco che bastava per fare domande, per capire quelle strane parole, per rivolgere all’uomo che amava uno sguardo confuso. Sussultò, nel vedere i suoi occhi solitamente magnetici trasformarsi in occhi simili a quelli che solo pochi momenti prima aveva visto nel viso pallido di Själ. Un gemito confuso le salì alle labbra, scivolando fuori in un singhiozzo disperato.
Razionalmente, non capiva nulla di ciò che stava succedendo, ma il suo istinto lo sapeva fin troppo bene. Valgar mutava, incredibilmente lento e incredibilmente veloce, per diventare qualcosa che avrebbe vendicato la morte di chi voleva come compagna di vita. Uccidendo lei, dilaniandola, facendola a pezzi. Per un attimo si perse in quei profondi e mostruosi occhi senza fondo, poi un barlume di razionalità le attraversò la mente come una scarica elettrica.
Tempo prima aveva permesso a un uomo di distruggere tutto il suo mondo. Non avrebbe permesso a un altro uomo di frantumare anche il suo corpo. Afferrò saldamente il fucile che giaceva accanto a lei. Ringraziò suo padre per averle insegnato a sparare con tanta bravura.
Valgar saltò e il colpo partì.

E ora sono qui.
Con le mani, i capelli, il viso sporchi di sangue non mio.
Il sangue di Själ, il sangue di Valgar si uniscono tra di loro, macchiandomi indelebilmente.
Non so cosa racconterò alla polizia.
Non so cosa succederà.
Non mi interessa.
Ora…
In questo momento…
Dopo tutto quello che è successo…
Credo di volere solo una sigaretta.
 
Top
0 replies since 21/7/2008, 14:12   36 views
  Share