Vittime, [12/06/08] Horror

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Sophonisba
view post Posted on 21/7/2008, 18:29




Rating: 16 anni.
Tipologia: One-Shot.
Lunghezza: 4038 parole, 6 pagine
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, Violenza, Linguaggio Colorito.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: -
Note dell'Autore: Prima Horror e fan fiction ad alto rating che scrivo. Che dire, io ci ho provato ^_^
Introduzione alla Storia: Da che parte sta il male? Da che parte sta il bene? Chi è il buono e chi il cattivo? Chi la vittima? Chi il carnefice?



Vittime





“Quante vittime?”
“Quattro... forse una quinta, a giudicare dalle analisi fatte sulle tracce di sangue, ma non riusciamo a trovare il corpo.”
Sbuffai. Perché diavolo quei lavori dovevano sempre capitare a me? Senza pensarci tirai fuori una sigaretta e l’accesi, soprappensiero.
“Indizi? Sospettati?” chiesi tirando una boccata.
Joe scosse il capo. “Nessuno. Per questo sono venuto da te.”
Io sogghignai e tirai un’altra boccata. “Pensi che io possa riuscire dove voi avete fallito?” chiesi provocatorio.
Joe sbuffò. “Non fare lo stronzo, Lance, sappiamo tutti che eri il migliore sulla piazza.”
Io scrollai le spalle. “Fino a quando sono impazzito. Come uno sfigato.”
Joe strinse tra le mani il cappello, nervoso e si guardò in giro per assicurarsi che nessuno ci stesse ascoltando.
Eravamo seduti in un caffè di Citta del Capo, ed era una splendida giornata di sole. Le persone andavano e venivano sul marciapiede accanto ai tavolini esterni del locale dove ci trovavamo, e nessuna sembrava fare caso a noi. Anche la cameriera pareva ignorarci del tutto: ci aveva già servito due cappuccini e per il momento probabilmente riteneva che fossimo a posto.
“Senti, Lance, so che quella storia non ti è mai andata giù, ma...” esordì Joe.
“Ti sbagli. E’ a voi che non è mai andata giù, non a me” lo interruppi gentilmente. “Mi avete radiato voi dal mio ruolo nel reparto investigazioni.”
“Io non centro niente, sono stati i superiori a deciderlo. A me non hanno mai chiesto nulla” si difese il mio interlocutore.
Io sorrisi tra me. “Quindi tu mi credevi?”
Joe aprì la bocca, poi la richiuse, incerto. “Ecco, io...”
Giunsi le mani sul tavolo in educata attesa di una risposta.
“Cazzo, Lance!” sbottò Joe. “Sai meglio di me che è impossibile credere alla tua storia. Con le cose che hai raccontato...”
“Le cose che ho raccontato hanno un nome, si chiamano creature sovrannaturali. Ed esistono.”
“Lance” insisté a disagio Joe. “So che la scomparsa di Ellen è stato un brutto colpo per te, ma davvero...”
“La scomparsa di Ellen è una cosa passata. E se credi che il dolore mi abbia fatto avere le allucinazioni, allora faresti meglio a rivolgerti a un uomo di salute mentale maggiore della mia” risposi cordiale, facendo un cenno alla cameriera perché mi portasse il conto.
“Non volevo dire questo” brontolò Joe.
Gli sorrisi. “Nessun problema, Joe. Ci ho fatto l’abitudine.”
Lui mi fissò per un momento, serio, poi scosse il capo e prese il conto dalle mani della cameriera, che stava per porgerlo a me. “Pago io.”
“Joe...”
“Pago io” ripeté con decisione lui. “Lasciami fare almeno questo.”
Assentì, e rimasi a guardare mentre allungava una banconota alla cameriera e riceveva il resto.
“Grazie, Joe” dissi piano mentre ci alzavamo.
“Prego” borbottò imbarazzato. “Ci vediamo in giro, okay?”
Annuii, e lo guardai mentre si allontanava sul marciapiede, l’impermeabile svolazzante e i baffi che fremevano leggermente. Era un uomo in gamba, Joe. Un ispettore come ce n’erano pochi in giro. Quando lavoravo ancora nella polizia eravamo una coppia fantastica. Nessun delitto usciva impunito con noi. Poi mi avevano radiato dalla polizia, ed allora era finito tutto.
Sospirai e mi avviai verso casa.
Un tempo abitavo in un bell’appartamento, sopra un panificio che faceva torte squisite. Lo ricordavo bene perché ogni mattina uscivo sul balcone per godermi l’aroma di dolce appena sfornato che saliva voluttuoso dal basso. Piaceva anche a Ellen, quell’aroma. Anche lei, quando si fermava a dormire a casa mia, la mattina si alzava, avvolgendosi in una delle mie vestaglie troppo grandi per lei e lo fiutava deliziata. Ma ora Ellen non c’era più, il panificio aveva chiuso e io mi ero trasferito nella malfamata strada di Cavendish Street, al numero 57B. Il mio appartamento attuale aveva pareti ammuffite, lavandini che perdevano e dalla strada emergeva solo un disgustoso tanfo di fogna quando straripavano durante la stagione delle piogge di Citta del Capo.
D’altro canto, che altro avrei potuto permettermi? Non avevo più un lavoro fisso, e riuscivo a racimolare poche sterline di tanto in tanto, ma mai abbastanza da potermi permettere un frigo nuovo, un tappezziere o elettricista. Già, quello mi sarebbe servito davvero: la luce nell’ingresso era saltato, e quando avevo tentato di riparare al danno mettendo le mani nel pannello pieno di pulsanti avevo fatto partire anche la luce della stanza da letto. Per leggere dovevo starmene in cucina o, al massimo, usare la torcia che tenevo sul comodino.
Aprii la squallida porta del mio appartamento con un sospiro, gettai il cappotto consunto sull’appendiabiti e crollai sul divano.
C’era il giornale del giorno prima sul tavolino lì accanto, vicino al telefono, così lo afferrai e cercai tra le colonne l’articolo: non era difficile trovarlo, riportava un titolo a lettere cubitali: “Trovati resti di quattro ragazzi a sud della città.”
Sbuffai e spiegai la pagina stropicciata inforcando gli occhiali.
Nei pressi di Southon Hills, presso l’estremità di uno dei canali di scolo della cittadina, sono stati trovati nell’erba i resti dei corpi umani di quattro persone, presumibilmente tra i venti e i trent’anni, tre uomini e una donna, almeno da quello che la scientifica è riuscita a scoprire. Nessuno sa chi siano, né sono stati trovati intorno documenti o indizi che ne indicassero l’identità. I resti, a detta dell’ispettore Richardson, recano in buona parte bruciature e ustioni, il che fa pensare che essi siano stati prima smembrati e poi gettati in un fuoco. Non sono state tuttavia ritrovate tracce di focolari, ma solo erba e piante bruciate. Voci ricorrenti parlano di una setta in azione in quella zona. Altre non accertate dicono invece trattarsi di un unico serial killer...
Di scatto, tolsi quella pagina dalle altre e accartocciai, infilandomela in una tasca. Quindi feci scorrere le colonne in cerca di qualcos’altro di interessante, e l’occhio mi cadde su un trafiletto intitolato: “Ancora sconosciuto l’aggressore di Clayton.
Clayton... non era una piccola cittadina a nord di Città del Capo? Incuriosito, cominciai a leggere il breve trafiletto sottostante.
Non si conosce ancora l’identità del misterioso aggressore di Jane Earnshaw, ventotto anni, commessa in un negozio di pesca nella cittadina di Clayton. Jane è stata attaccata alle spalle mentre tornava a piedi dal negozio all’appartamento, in un piccolo condominio di periferia, la sera del ventidue giugno. Ora è in ospedale con qualche livido profondo e un orribile squarcio all’altezza della clavicola. Non riesce a ricordare ce arma abbia usato l’aggressore ne il suo aspetto. La ferita, sebbene non sembri grave, pare averle fatto perdere moltissimo sangue, tanto che ha dovuto subire due trasfusioni. La polizia di Clayton si è mobilitata alla sua ricerca ma non ci sono ancora indizi che...
Richiusi il giornale di colpo, mi alzai e mi diressi verso la porta del ripostiglio. La guardai un attimo, immobile, poi bussai. Non ottenni risposta. Bussai di nuovo, e stavolta sentì qualcosa: come un lamento.
Soddisfatto, andai alla finestra, tirai le tende e feci piombare la stanza nel buio. Accesi la lampada traballante del soggiorno e tornai alla porta del rispostiglio, aprendola. “Puoi uscire, ho tirato le tende.”
Lentamente, la figura accucciata nella penombra si alzò e uscì timidamente allo scoperto. Come la prima volta che l’avevo vista, quando era emersa dal tombino sotto casa mia, trattenni il fiato.
Una ragazza giovane, dai capelli neri come l’inchiostro, la pelle di un bianco letteralmente cadaverico e le profondissime occhiaie scure. Mi guardò con i suoi occhi color rubino, aprendo leggermente la bocca e scoprendo la chiostra di denti candidi. Scoprendo i quattro canini letali, più appuntiti di uno stilletto.
“Sei pallida” commentai brusco. Sì, era molto più bianca di quando l’aveva trovata, sanguinante e a terra, davanti a casa sua. Quando, strisciando fuori dalla fogna, se l’era ritrovata davanti e lo aveva guardato con occhi pieni di paura e di sofferenza.
“Io... ho fame” si giustificò piano lei.
La studiai con gli occhi: indossava una delle mie camice, che la faceva sembrare ancora più magra e più fragile. Ma non lo era. Oh, no che non lo era. Lo sapevo benissimo, sapevo benissimo cosa in realtà quella ragazza fosse.
“Da quando non... mangi?” chiesi lentamente.
Lei strinse le labbra, come indecisa se rispondere o no.
“Fammi indovinare: tre giorni?” la anticipai io.
La vidi strabuzzare gli occhi. “Come...?”
Spiegai il giornale che tenevo ancora in mano e le indicai il trafiletto con l’articolo dell’aggressione di Clayton.
Lei corrugò le sopracciglia e si limitò ad annuire.
“Non è stato un lavoro tanto pulito, vero?” chiesi in tono discorsivo.
Vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime. “Ero allo stento. Non sapevo più cosa fare...” Non riuscì a proseguire perché era scoppiata a piangere e aveva nascosto il viso consumato tra le mani.
La fissai senza provare alcuna pietà. “Non avreste mai dovuto andarvene dal posto da cui venite.”
Lei alzò gli occhi dalle mani e mi guardò con rabbia. “Volevamo solo... solo un po’ di libertà... non immaginavamo di...”
“Di cosa?!” gridai ad alta voce, mentre un velo rosso di rabbia mi oscurava la vista. “Di quanto cazzo faccia schifo il mondo là fuori? Di quanto sia ingiusta la vita oltre le mura del nido?” Urlavo, sfogando la rabbia che mi ero portato dentro da sedici, lunghi anni. Dalla scomparsa di Ellen.
“Tu non immagini nemmeno cosa possano fare quei...” Mi bloccai, improvvisamente senza fiato. Non riuscivo a proseguire, anche il solo pensarci mi paralizzava.
La ragazza mi guardava terrorizzata. “Io... non sapevo...”
Non risposi. Ero troppo furioso. Con il mondo. Con me stesso.
La ragazza ricominciò a piangere lacrime silenziose. “Ma tu... cosa vuoi sapere di noi? Cosa ne sai di quello che viviamo?” disse tra un singhiozzo e l’altro.
Quelle parole mi bloccarono. Guardai la ragazza che avevo davanti. Era esattamente lì, dove, sedici anni prima, c’era Ellen. Ellen...
Le voltai le spalle, andai al davanzale della finestra, afferrai la cornice di legno macchiato e gliela misi tra le mani. “Guarda!”
La ragazza si asciugò le lacrime e obbedì. “Chi... chi è?”
“Era la mia fidanzata.”
Lei mi scrutò incuriosita. “E... che cosa centra con tutto questo?”
Io sospirai, mi passai la mano tra i capelli e mi sedetti sul bracciolo della poltrona. “Era una di voi.”
Lei mi guardò, gli occhi spalancati dallo stupore. “Una di noi? Ma... ma non sembra...”
“In quelle foto era ancora un’umana” spiegai stizzito. “Lo è diventata dopo.”
Lei tacque, mi fissò, poi fissò la foto, poi di nuovo me. Quindi la mise da parte e si sedette a gambe incrociate sul pavimento, di fonte a me. “Raccontami al tua storia.”
E io lo feci.
“Ellen era la ragazza più gentile che abbia mai conosciuto. Non bella, nemmeno tanto in gamba, ma gentile senza dubbio. La amavo come si ama una sola volta nella vita, di quell’amore che leva il respiro e ti succhia via la vita. La amavo più della mia stessa vita. O, almeno, così credevo.”
La scrutai un attimo in cerca di una reazione, ma la ragazza non diede cenno di sorta, così proseguii.
“Aveva... aveva l’abitudine di andarsene in giro per il porto. Ci trovava ogni tanto dei bambini dei cantoni poveri, e dava loro da mangiare, o, se non ne aveva, dei soldi per comprarsene.” Feci un’altra pausa, ricordando il suo sorriso luminoso quando mi parlava di quegli incontri. Cazzo, se faceva male ora ripensarci. “Un giorno... ne incontrò uno... no, non un bambino, ma un ragazzo grande, che sembrava morto di fame.”
Mi interruppi e alzai gli occhi studiando l’aspetto della ragazza seduta nel mio soggiorno. Sì, gli somigliava tantissimo. “Era... era magrissimo, sembrava davvero più morto che vivo.” Strinsi le labbra. “Era più morto che vivo.” Uno di loro, pensai.
La ragazza parve aver pensato la stessa cosa, perché sussultò, ma si limitò ad annuire e attese che andassi avanti.
“Ellen, ovviamente, tentò di dargli di tutto. Ma il ragazzi continuava a rifiutare sempre tutto. Ellen, allora, lo prese per mano e lo portò a casa. Andai a trovarla, quella sera, e lo vidi. Vidi che aveva la pelle bianca, le iridi di un colore stranamente simile al rosso e delle occhiaie strane. Pensai fosse malato, così il giorno seguente consultai un mio amico. Un farmacista. Quando gli descrissi tutto quello che avevo visto scosse il capo, dicendomi che non esistevano patologie con quei sintomi. Poi, quando ci stavamo per salutare, scherzando, mi disse di controllargli i denti e controllare che non fosse un vampiro. Rise. Risi anch’io.” Feci di nuovo una pausa e affondai le mani tra i capelli. “Sono stato... stupido. Le parole del mio amico continuavano a ronzarmi in testa, ma io mi ostinavo a non crederci. Io, investigatore e vice dell’ispettore del distretto che credevo a cose simili! E invece...” Mi mancò un attimo la voce. “Invece era così. Non chiamai Ellen. Il mio stupido orgoglio me lo impedì. La mia fottutissima razionalità mi ripeteva allo sfinimento che non esistevano i vampiri. E il mattino dopo arrivai e li vidi insieme, nel buio, le tende chiuse e la luce elettrica accesa...” Feci una pausa. Poi mi alzai, aprì il cassetto sotto al tavolino del telefono e ne estrassi un vecchio e spiegazzato articolo di giornale.
Lei lo prese in mano, lo lesse piano e, quando giunse all’ultima riga, scattò in piedi ansimando.
Ma era troppo tardi.
Io ero pronto, molto più di lei. Mi parai davanti all’uscita e tirai fuori la pistola. La mia pistola a proiettili d’argento.
Lei si bloccò, inorridita. “Tu..” mormorò piano.
Io sorrisi amareggiato, puntandole l’arma dritta al cranio. Sapevo che, una volta sparato, avrei dovuto liberarmi anche della sua testa, come avevo fatto per quella di tutti i suoi simili. La vidi fremere, terrorizzata, ma non osò muoversi. Ogni sua mossa sarebbe stata la scusa per premere il grilletto.
“Quella sfigata si era lasciata mordere da quel lurido mostricciattolo. Voleva salvargli la vita. E così si era trasformata anche lei in... uno di voi” completai dopo un momento di riflessione, disgustato.
Vedevo la ragazza che guardava frenetica intorno, alla ricerca di una via d’uscita, un modo per salvarsi. Invano.
“Perché non mi leggi le ultime righe di quel dannato articolo? Così, tanto per ricordarmelo” proposi con finta noncuranza.
Lei, tremante, obbedì.
...la scientifica ha stabilito che l’ora di decesso delle due vittime ritrovate a pezzi e bruciate doveva essere compresa tra le nove e le undici del mattino. I resti non sono riconoscibili, sebbene il fidanzato abbia riconosciuto in una Ellen McQuinn a causa dell’anello che portava al dito. Dell’altra ha dichiarato invece di non sapere nulla e di non aver idea di chi possa trattarsi. Indagini della polizia sono tuttora in corso per accertamenti.
Quando finì mi guardò, terrorizzata. Sapeva cosa stava per succedere. Lo sapevo anch’io. Ma volevo farla soffrire ancora un po’. Volevo che quella creatura disgustosa passasse gli ultimi istanti della sua miserabile non-esistenza nel terrore.
“Volevo che quella puttana fosse riconosciuta, che sapessero tutti che fine avesse fatto. Non hai idea di quanto piacere mi abbia fatto ammazzarla. Dopo che l’avevo amata tanto si era lasciata convincere da lui a diventare uno sporco vampiro. Si era lasciata succhiare via tutto quel suo maledettissimo sangue. Poi si era pentita” continuai in falsetto, imitando le ultime parole che mi aveva detto. “Non la ascoltai. Era un mostro, e lo sarebbe rimasto per l’eternità. Ricordo ancora quanto sangue c’era sul pavimento. Quell’idiota di un vampiro non era stato nemmeno capace di berselo tutto. L’aveva lasciato a metà sul pavimento, sazio. E lei, anche quando ero arrivato, lo difese. Disse che anche lui era un essere vivente.” Il mio tono raggiunse il massimo del suo disprezzo. “Vivere! Nessuno di voi vive! Voi siete i parassiti dell’umanità.”
La pistola mi tremò nella mano, mentre la rabbia aumentava. La ragazza sembrava sul punto di gridare, ma pareva non avere la forza di farlo.
“Sono sedici anni che vi ammazzo, uno dopo l’altro, ma sembrate riprodurvi come topi. Topi di fogna. Siete cadaveri che espandono il proprio morbo sugli altri esseri viventi. Non respirate, non fate sesso, non bevete o mangiare altro che il sangue degli altri... voi non siete esseri viventi.”
No, non lo erano. Quel mostro che avevo davanti era solo una bestia uscita fuori dall’inferno. Una sanguisuga. Una sanguisuga davvero stupida. Si era fidata di me, quando l’avevo afferrata e l’avevo issata in piedi sanguinante dopo che era strisciata fuori dal tombino. Si era fidata di me quando l’avevo portata in casa e l’avevo spinta nel ripostiglio, dove non arrivava la luce del sole che l’avrebbe ridotta in cenere. Che cosa si era aspettata? Che le procurassi anche cibo, magari? A quel pensiero sentì la collera aumentare. Volevo ucciderla. L’avrei uccisa.
“A proposito... perché non mi hai detto che sei arrivata in compagnia qui in città?” domandai crudele.
Lei spalancò gli occhi. “No, non puoi...”
Risi, di una risata che non aveva nulla di divertito, e le gettai in mano il foglio accartocciato che tenevo in mano. Lei lo spiegò con mani tremanti e lesse le prime righe. Non aveva bisogno di andare molto oltre per capire.
“NO!” gridò, accasciandosi a terra. “Non loro! Troy, Christabel... Saul...”
“Avevano anche dei nomi, quegli assassini?” chiesi con un sorriso sardonico.
La vidi alzare gli occhi rossi su di me, dilatati. “Wystan...”
Mi accigliai: aveva uno sguardo strano a pronunciare quel nome. Uno sguardo stranamente acceso. Le premetti la punta della pistola sulla fronte.
“Non provare a muoverti” le ingiunsi minaccioso.
“Tu... hai ucciso Wystan...” mormorò con gli occhi assenti, come se non mi avesse sentito.
“Non so come cazzo si chiamasse il tuo amico. Prova a vedere là in fondo, magari lo trovi.”
I suoi occhi si strinsero e parve per un attimo perplessa, ma vide che le facevo cenno di aprire l’anta dell’armadio, quello sulla parete, così, su gambe malferme, si diresse in quella direzione e prese lentamente la maniglia con una mano. Mi scrutò, come per assicurarsi che non volessi spararle alle spalle, e spalancò l’armadio.
La sentì trattenere il fiato. Allineate in bell’ordine su due scaffali c’erano pile e pile di canini appuntiti. Canini di vampiro.
“In genere glieli strappo subito dopo aver sparato. Sai, quando sono ancora in grado di sentire. Poi li faccio a pezzi e li brucio. E’ l’unico modo che ho trovato per uccidervi come si deve, senza che qualche parte del vostro corpo strisci via in cerca di salvezza.”
Vidi la ragazza tremare da cima a fondo e allungare la mano verso uno dei denti spezzati. Già, era stata una sorpresa anche per me. Uno dei vampiri che avevo ammazzato due giorni prima, giù al canale di scolo, aveva un canino spezzato, chissà per quale motivo. Vidi la ragazza fissarlo immobile. Aveva smesso di tremare. Lo teneva in mano, guardandolo come se non credesse ai propri occhi.
Ci volle una frazione di secondo per capire cosa stava per fare.
“NO!” ruggì premendo il grilletto.
Il proiettile attraversò l’aria e si piantò nella tappezzeria ammuffita, nel punto in cui un istante prima c’era la ragazza.
“FERMA!” urlai, ricaricando la pistola, ma non fui abbastanza veloce.
Lei si alzò da dietro il divano, dove si era buttata.
In un lampo mi fu addosso.
E tutto divenne nero.



* * *



“Brutta faccenda, eh, Joe?”
L’ispettore capo Richardson annuì cupamente.
Sentì di sfuggita le parole di una cronista con i capelli di un biondo molto poco naturale lì accanto, che parlava in un microfono davanti a un’enorme telecamera sorretta da un cameraman.
“...rinvenuto oggi nel suo appartamento in Cavendish Street un uomo deceduto a causa di una brutta ferita al collo da cui sembra aver perso la maggior parte del suo sangue. L’uomo teneva in mano una pistola, ed è quindi probabile che sia stata un’aggressione. Non si conosce ancora la dinamica dei fatti poiché la polizia non è riuscita a rinvenire sul luogo nessun’arma del delitto né alcuna traccia dell’assassino. Lancelot Thornfield, questo il nome dell’uomo, era un ex-investigatore della sezione criminale del distretto...”
Joe non volle ascoltare oltre.
“Harry, per favore, pensaci tu qui, d’accordo?” disse al suo subordinato, che fece il segno dell’attenti, obbediente.
Joe tirò fuori dall’inseparabile impermeabile le chiavi dell’auto e si diresse verso il parcheggio in fondo alla via. Mise in moto e accese la radio. Stavano parlando del delitto di Cavendish Street anche lì. Cambiò frequenza. Pubblicità. Cambiò ancora frequenza e c’era una di quelle orribili canzoni moderne tutte colpi e suoni stridenti. Sbuffò e la spense, concentrandosi solo sulla strada che stava percorrendo. Era uscito dal centro della città e ora si stava dirigendo a nord, fuori città.
Mezz’ora dopo intravide una strada secondaria che si immetteva in una macchia di alberi dall’aria malsana. Parcheggiò nell’erba secca e scese. Ormai il sole era calato dietro l’orizzonte, e il buio stava aumentando rapidamente. A grandi falcate sorpassò un nastro a righe rosse e bianche che cingeva tutta la zona ed emerse accanto a un ristagno d'acqua particolarmente maleodorante.
“Sei venuto.”
Joe si voltò di scatto. Dall’oscurità degli alberi emerse una figura macilenta. La vampira.
“Sì” si limitò a rispondere.
Lei lo scrutò da cima a fondo, poi sospirò. “E’ stato orribile.”
Joe annuì. “Lo so. Hai avuto coraggio.”
La vide stringere i denti. “Dovevo farlo. Per i miei amici. Sono tutti morti. Quel bastardo doveva pagare.” I suoi occhi si inumidirono di nuovo.
Joe distolse lo sguardo, a disagio.
“Solo una cosa: come facevi a sapere che era lui?” domandò la ragazza asciugandosi con rabbia le guance.
Joe rimase un attimo in silenzio, come se stesse soppesando la risposta. Poi scrollò le spalle. “Lo conoscevo bene. Sapevo vedere quando mi mentiva.”
“Ti ha mentito molto?”
L’uomo annuì. “All’inizio no, quando mi parlava di vampiri. Poi ha cominciato a farlo vedendo che rimanevo orripilato da tutti quegli omicidi. Davanti a quei... resti che ogni volta ero costretto a vedere.”
La ragazza annuì.
“Mi spiace per i tuoi amici” disse Joe, sincero.
Lei lo fissò negli occhi. “Tu sei convinto che siamo dei mostri, non è vero?”
Joe non rispose: era troppo sincero per mentire. E troppo gentile per dire la verità.”
La ragazza sospirò. “Capisco. Ma ti ringrazio per avermi aiutato. Sono felice di averti incontrato quella sera, mentre fuggivo nelle fogne.”
Joe annuì. “Anche io. Non capita tutti i giorni di trovare compagnia quando si va a sorvegliare i servizi sociali di un detenuto.”
La vide sorridere, come se trovasse la cosa divertente. “E... come lo hai capito? Cosa ero, intendo.”
“Non lo so. Forse ero stanco di non credere più a Lance. O di non avere più spiegazioni a quegli omicidi orribili.”
“Ora l’hai avuta.”
Joe annuì. “E tu hai avuto la tua vendetta. Ora sei soddisfatta?”
“No.”
Joe trasalì. Era convinto che quella creatura fosse assetata del sangue del suo nemico. Non poteva credere che volesse di più.
Lei gli lesse quello che pensava in faccia, e fece un sorriso amareggiato.
“Non sono un’assassina, ispettore Richardson. Nessuno di noi lo è. Noi siamo sull’orlo del baratro, e cerchiamo a tutti i costi di vivere una vita vera.” Lo fissò. “Ti invidio: tu sei vivo. Puoi respirare. Puoi morire, un giorno. Anzi, lo farai di sicuro. Puoi amare. Io non posso respirare, non posso vivere, e l’unico modo che ho per morire e il fuoco. E il dolore. Nessuna lenta, dolce morte di vecchiaia. Nessuna consolazione. Nessun ultimo respiro.”
Joe la guardò turbato. “Io... ho trovato questa, nell’appartamento. Forse...?”
In mano teneva la metà di uno strano canino appuntito. Era spezzata, ma Joe credeva di sapere a cosa apparteneva un tempo. Lei glielo prese dalle mani di scatto e lo strinse in mano.
“E’...?”
“Sì, apparteneva a... Wystan.” Pronunciò quel nome talmente piano che Joe quasi non lo udì.
“Qualcuno di importante?”
La ragazza scosse il capo. “Qualcuno che non è più nulla.”
Joe rimase un attimo in silenzio, tenendo lo sguardo sull’acqua stagnante e fetida che galleggiava poco distante. poi lo rialzò per dire qualcosa.
Troppo tardi.
Lei non c’era più.
Un soffio, una brezza leggera, ed era scomparsa. Scomparsa chissà dove, a vivere un’esistenza che non voleva.
E a piangere chi aveva perso.







SPOILER (click to view)
Scusate il ritardo con cui l'ho postata, la connessione in questi giorni si è fatta ballerina e non riuscivo mai a postare. Non so se come Final Girl va bene. E' l'unica sopravvissuta tra i suoi amici e non subisce cambiamenti fisici. Volevo fare qualcosa di diverso dal mostro cattivo e l'essere umano che scappa. Spero che vada bene comunque. Nel caso contrario, sono felice lo stesso di aver partecipato. Au revoir, e grazie per aver risposto alle mie domande.











 
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