Ego, [17/07/08] Lupus in Fabula

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PadrEterno™
view post Posted on 5/9/2008, 16:35





Parametri

Rating

14 Anni

Tipologia

Long Fiction

Lunghezza

4344 Parole, 4 Atti

Avvertimenti

  • Linguaggio colorito
  • Violenza

Genere

Introspettivo

Disclaimer

Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, non citati tra i credits, sono una mia creazione e appartengono solo a me.

Credits

Ogni nome, espressione, sinfonia, testo o ideologia appartenenti alle opere intrascritte ("Chi va col lupo alluppa" di G. Verga, "Campari", "Happy Hour" di Ligabue, "The final contdown" di Europe, "I butei" di Sumbu Brothers, "Scegli" di Africa Unite, "Black and gold" di Sam Sparrow) sono di proprietà dei rispettivi autori e sono utilizzati nei limiti giustificati dalla finalità del contest non costituendo concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera secondo l'art. 70 della Legge Italiana sul Diritto d'Autore.
Un grazie affettuoso ad Oreste, carissimo oste di Piazza Erbe che ci delizia di meravigliose grappe quasi ogni giorno.

Note dell'autore

Traduzioni

OwnamentoItalianizzazione della parola inglese "own"; generalmente atta a indicare la possessione di un oggetto e quindi la possibilità di utilizzarlo a piacere, in questo caso è traducibile come un utilizzo inadatto e per fini personali.
...e arrivar a sera a furia de segoni, gò 'l cazzo che canta!...e passare la giornata a masturbazioni su masturbazioni, ho il pene che geme di dolore!
‘Ndemo al bar, ‘ndemo al bar, / ho finìo de laorar, / son ‘ndrio morir de sé, / ché no sto gnanca in piè, / ma i butei, ma i butei, / i g’ha el bicer sempre pien pien pien / e alora bira vin e graspe a volontà. / Voi gussar, voi gussar! / G’ho bisogno de sborar, / ma de fighe no ghe n’è, / ne toca nar al marciapiè, / ma i butei ma i butei, / i è sempre sensa schei, ehi ehi! / E alora pipe, scianche e seghe a volontà. / El Verona in serie A, / fin a un par de mesi fa, / emo vinto anca el scudeto, / più o meno vint’ani fa, / ma i butei ma i butei, / no se la desmentegà, à à! / Hellas-Verona-birra-mona-e-pearà!
[Link alla canzone]
Andiamo al bar, ho finito di lavorare, stò morendo di sete tanto che non mi reggo nemmeno in piedi, ma i compari hanno il bicchiere sempre pieno pieno pieno... e allora vino, birra e grappe a volontà! Voglio far sesso! *Parte omessa perchè anche il mio pudore ha un limite*, ma di gnocca non ce né, ci tocca andare a prostitute. Ma i compari hanno il portafoglio sempre vuoto, e allora pippe, botte e seghe a volontà! L'Hellas Verona in serie A c'era fino a pochi mesi fa *canzone scritta nel 2002*, abbiamo vinto anche lo scudetto più o meno venti anni fa. Ma i compari non se lo sono dimenticati: *coro da stadio* Hellas Verona, birra, gnocca e pearà *piatto tipico veronese*.
’Cause if you’re not really here, then the stars don’t even matter; Now I’m filled to the top with fear, but it’s all just a bunch of matter; ’Cause if you’re not really here, then i don’t want to be either; I wanna be next to you...Perchè se non sei realmente qui, allora non importa nemmeno delle stelle. Ora sono atterrito dalla paura, Ma è solo un mucchio di faccende. Perchè se non sei realmente qui, allora non voglio esserci nemmeno io. Vorrei starti accanto...

 


Introduzione



Chi va col lupo alluppa, o almeno così disse Verga. Ma, come molte frasi, questa era destinata ad essere futuro antiquariato ed antico futurismo già alla sua nascita. In un mondo dove la storia si ripete già da molte volte ma le combinazioni cromosomiche non permettono ancora la nascita di un umano già procreato, nulla è disimpegnativo meglio di una frase: nell’essenza fondamentale del significato essa ancora resta astrattismo etereo di una mente, perché una frase sarà sempre il simbolo del livello intellettivo umano e, al contempo, il pieno contrario del concreto.

Ma può veramente la congettura di Verga fare da costante al conformismo? O può esistere il non-lupo e il non-alluppato?

Da qui parte la nostra storia: due domande, nessuna risposta.


Atto I
Era un bel giorno di agosto, quando le pesche tendevano al vermiglio e il vermiglio del Campari scorreva più languido lungo la gola dell’assetato arido. Forse era per l’afa, forse era per l’allegro ritornello della sua pubblicità: il succo rosso circolava acido nella mente della preda come un conato di vomito per la trepidante tensione del desiderio.
Si sporcava la bocca di rosso, strusciava la mano sulle labbra lasciando sul dorso una lunga pennellata cinabra e subito ritornava ad impugnare la carta. La coda di una penna biro incappucciata del tappo tracciava scaltra innocui circoli vorticosi nell’aria, indice della punta che girovagava su e giù per il foglio di un quadernetto guidata da una mano preda alle voglie scrittorie. Nella mente del ragazzo la fantasia continuava il suo ardito duello con l’originalità, fendendo vivacemente un mozzicone di spada per strappare all’ignoto frasi su frasi. In realtà l’adolescente non mirava altro che a stendere periodi grammaticali anche incongruenti, per cavarne poi l’utile e tenere l’apparente inutile su un foglietto a stagionare le stagioni. Cosa è più critico del cercare i limiti di ogni sintagma logico se non il criticismo stesso?
Quella era la passione più forte di Federico; probabilmente era una cotta adolescenziale, vista l’età, che sarebbe svanita con lo scorrere del tempo sostituita da un’altra attività.
Tra i suoi sedici anni di età, ne vantava già tre da illuminato e uno da critico. Ma va specificato che lo era verso la vita: la sua vita, in particolare. Da quando aveva deciso che non poteva vivere annaspando tra risposte alla ricerca di quella più solida (l’illuminazione, per l’appunto), continuava insaziabile l’analisi di ciò che si poneva sotto la luce dei suoi occhi smantellandola e criticandone ogni singola parte. Solo catalogando in maniera più etica possibile i parametri giusti secondo cui si doveva comportare avrebbe potuto vivere poi una vita tranquilla senza la pallida possibilità di sbandare e cadere in qualche diruppo.
Ogni volta, quindi, che aveva una delle cosiddette “seghe mentali”, prendeva un pezzo di carta, mordeva via il tappo della prima penna che aveva a tiro e cominciava a scrivere tutto quello che metteva in bilico le sue Verità. Con calma avrebbe in seguito analizzato nei minimi risultati tutte le reazioni che potevano scaturire dalle diverse applicazioni delle sue formule, fino a scegliere quella che “rigava più dritto”.
Ovviamente peccava come ogni altro mortale: per quanto fossero nobili le sue azioni, il giovane non si rendeva conto che la sua stabilità mentale stava giocando su un filo sopra alla pazzia.
Un soffio di Eolo più potente delle sue forze l’avrebbe gettato nella confusione buia più totale.

Una sagoma di persona davanti a lui era retta su uno sgabello con un cappio al collo; la corda non aveva inizio, si dilungava verso un soffitto inesistente. Lui si allungò, afferrando la mano della figura, e la strattonò verso di sé, cercando istintivamente di portarla lontana dal pericolo. Le tenebre che attanagliavano e dividevano i due si spezzarono, aprendosi come ali nere di un corvo e scostandosi dalle carni. Ciò che sentì non fu altro che tutto il peso dell’uomo crollare sui suoi muscoli, mentre lo sgabello, ormai a terra, appendeva all’aria il corpo lasciando al cappio ogni onere.
Per cinque lunghi minuti restò a guardare il nero appeso su sfondo nero. Cinque minuti di gelo in cui tutte le luci si spensero e tutti i sipari calarono. Un trillo proruppe in scena; ma perché aleggiava se quello non era un intermezzo canoro?
Il suo acuto ronzio emerse languidamente ma deciso dall’aria, destando via dal corpo ogni timore di ridesto. Svegliate le poche idee e chiamate ad adunata le prime energie, per un riflesso condizionato la sua mano si alzò e andò a premere il bottone sulla sveglia concludendone la funzione. Il vibrare frenetico cessò, mentre il giovane era in procinto di stirare i muscoli per razionare le forze tra gli arti.
Si stropicciò gli occhi e biascicò un po’: aveva la bocca impastata. Con tutta l’evidenza, il perché era da riscontrarsi nel fatto che per tutta la notte aveva tenuto le labbra aperte congelate in un grido sordomuto, ma lui non si ricordava già più di aver avuto incubi su incubi. Già non si ricordava nemmeno del sogno sull’impiccato, anche se ancora qualche piuma di tenebra ondeggiava solitaria e incurante tra i suoi pensieri.
Incrociò le mani sopra al lenzuolo gracile che solo aveva il compito di coprire il corpo nudo, cercando di accendere lo stoppino che avrebbe donato luce al suo cervello. Guardò la sveglia sul comodino di destra: segnava le diciassette e due minuti. poi ritornò a fissare il soffitto con gli occhi verdi; si leccò le labbra, inumidendo le screpolature. Una mano si mosse, andando a grattare il pube. La faccia fissava ancora il soffitto con espressione ebete, mentre i muscoli si erano congelati in un fermo immagine e il cervello ronfava ancora sonoramente. Un po’ come i vecchi diesel: prima di partire si devono scaldare.
Si grattò i capelli, con la mano pulita, strizzando stavolta gli occhi in un’espressione decisamente assorta.
Si scoprì, tirò giù le gambe dal letto e si alzò. Indossò per prima cosa le mutande, poi una camicia marrone, delle bermuda arancio e decorò il tutto con una cravatta rossa. Terminò il rituale della sveglia indossando dei mocassini e poi si accinse ad uscire di casa.
Impugnò il cellulare con la stessa vigoria con cui il kendoka sciabola lo shinai, digitò un numero e poggiò la cassa all’orecchio.
    - “Pronto?”
    - Tra cinque minuti da Luky...
    - “Ah! Ok... Ti amo.”
    - Anch’io.
Poche frasi senza nulla di encomiastico, poi premette il bottone con disegnato su una cornetta rossa. Camminando verace sul lastricato del marciapiede guardava appassito le macchine che passavano per la strada. Le mani in tasca, il sole che batteva sulla faccia: era una giornata usuale. Il ragazzo aveva le forme comuni alla sua età, una pelle di alabastro e dei capelli neri. Proprio i capelli, appena dopo la chiamata, si alzarono ispidi nella loro forma a banana al vento, inneggiando quasi una canzone alla vitalità. Cavalcavano quei fievoli soffi delle nuvole, ondeggiando allegramente.
Salutò un paio di persone nel parchetto all’angolo, prima di attraversare la strada sulle strisce pedonali e portarsi sull’altra carreggiata per imboccare un vicoletto. Due scenografie di mattoni si innalzavano ai suoi lati come obelischi, costellati di finestre e porte anziché geroglifici. Arrivato in fondo al vicolo cieco andò ad aprire una porticina di metallo alla sua destra, giusto qualche metro prima dell’alto muro che culminava il camminamento. Scese due rampe di scale che si prospettarono davanti a lui, scavalcando abilmente gli scalini a due a due mentre la mano pulita scorreva sullo scorrimano unto aggiungendosi alle tante che lo avevano sfiorato. Come un pipistrello, si inoltrava nelle tenebre sondando tra i suoi ricordi le ubicazioni delle svolte, schivando sempre all’ultimo momento il muro buio e imboccando un’altra rampa o una porticina. Sceso all’incirca di due piani sotto il piano terra, si trovò di fronte all’unica soluzione finale: alla fine delle scale solo una porta antincendio.
Abbassò la maniglia ed entrò con un saltello, scaricando il cinetismo acquisito saltando dall’ultimo scalino. Davanti a lui si presentava una stanzina insonorizzata di grigio neoprene attaccato in qualche maniera; una batteria si stagliava sulla parete opposta alla porta, occupata da un ragazzotto decisamente grasso e rasato, mentre davanti a lui erano posti altri due giovincelli, uno alto e spigliato, che portava un pizzetto a punta e i capelli lisci raccolti in una pallina sopra la testa immedesimati in uno stile “samurai”, e l’altro del tutto simile a Federico; tutti e tre portavano camicia e cravatta, anche se nessuno aveva gli stessi abbinamenti cromatici. Lo stangone impugnava un enorme violoncello elettrico, mentre il secondo menestrello armeggiava una bella chitarra elettrica, entrambi collegati a degli amplificatori posti ai lati della porta e volti verso il centro stanza. Luci al neon illuminavano lo spazio a giorno.
Entrando, Federico sentì uscire dalla stanza una tempesta di rumori indiscussi ma ancora troppo distaccati e indipendenti l’un dall’altro, venendo investito da un’ondata di vibrazioni che fece sussultare e vacillare il suo passo prossimo.
Silenzio; il ragazzo dalla cravatta rossa compì alcuni passi e chiuse la porta alle sue spalle. Un microfono spiccava solitario sull’asta a centro stanza, disimpegnato del cantante ma fulcro degli sguardi tra i compresenti: sembrava che fosse in attesa di Federico.
    - Wella, Feffe... Tardiamo, eh? E Cinzia? Lasciata morente sul letto?
    - Le ha dato due picconate e l’ha lasciata lì con il goldone ancora piantato!
Il gigante e il tardone battezzarono l’arrivo del giovincello, battendo e controbattendo rispettivamente. Solo il chitarrista lo accolse con un sorriso e gli porse la mano, mentre l’altro avambraccio si posava stanco sul manico dello strumento. Federico si avvicinò, salutò battendo palmo-contro-palmo e rispose al sorriso.
    - Bella lì, Feffe...
    - Bella lì, uomo...
Poi ripeté il rituale con gli altri due, utilizzando una sberla più forte e un’espressione sgorbiata a metà tra disprezzo e rassegnazione.
    - Bella lì, ciurma... - disse Federico - Ripartiamo dall’ownamento dell’altra volta, che tra un po’ c’arriva in soccorso la mia letizia.
    - Maronn’mia, già comincia a storie per dire che abbiamo cinque minuti di prova prima di vedere Cinzia che gli smania dietro!
Il robusto proruppe così nel discorso del ragazzo dalla cravatta rossa, instaurando una scena molto filo-ironica. Pochi avrebbero ostentato serietà davanti a quello scherzoso tenzone di lingua. Pur essendo di cultura padana, il ragazzone usava toni meridionali per accentuare e sottolineare la scherzosità nella situazione.
    - Sta’ zito, Ciccion! Allora... Fra una settimana esatta, alle venti, raduno in piazza Brà, da Oreste. Scaletta solita, ma visto che sarà anche il compleanno del figlio di Russa proporrei un nuovo pezzo. Oltre ai vari ownamenti, owniamo l’Happy Hour di Ligabue come surplus regalo. Clò, parti col violoncello sul pentagramma che t’ho dato ieri; tu, Rob, sai già come sheckerare il ritmo. Ciccio, bacchette ferme.
Nel giro di pochi sintagmi riportò il gruppetto alla sincronia della musica; già l’intonazione gironzolava tra le parole appena alitate. Federico porse le spalle al trio, impugnò il microfono con entrambe le mani e chiuse gli occhi.
Sempre la solita storia: ombre si muovevano oltre le palpebre descrivendogli di mondi colorati e vorticanti di facce. Mani colorate si scagliavano contro i suoi occhi infondendogli l’energia necessaria per bestemmiare nei confronti della Società umana conformista. Un gruppetto ska, militante a Verona, pronto a spaccare gli uomini alla chiamata de “Owned!”.
Il violoncello partì con suono tardone e pieno degno sostituto del classico basso, seguitato dalla chitarra agile e scaltra come una gazzella; i suoni dei due giocavano a rincorrersi saltandosi via a vicenda e intonando una strana variante della melodia originale, vivace ma unica. Dopo un paio di riprese per prendere confidenza con il ritmo, i suoni dei due musicisti si chetarono del loro gioco lasciando giusto lo spazio per la voce del cantante. Il giovane dalla cravatta rossa schiuse appena gli occhi, lasciando che solo una piuma di luce rigasse i suoi occhi, e inspirò a fondo prima di gettarsi a tono nella corrente di ritmi.
    - Dicono che devi proprio farti fuori se vuoi una puttana a Verona; non vogliono nemmeno gli impermeabili frut-ta-ti...
    Sei già dentro l'Appi Auar... La Russa, la Russa costa la metà! Quanto costa una pompa dala mojer del panettar?
Il ritornello fu culminato giusto a fine frase da risate generali che colmarono e terminarono il ritmo instaurato; erano state evidentemente scatenate all’unisono in tutti, preparati e meno. Federico chiuse di nuovo gli occhi e si voltò, spostando le mani lungo l’asta del microfono e usandolo come asse per il movimento. Inquadrò i tre, tossendo risate a pieni polmoni: Clò, diminutivo di Claudio, smise di pizzicare il violoncello impedito dal ridere mentre Rob, diminutivo di Roberto, si inginocchiò a terra, poggiando prima le ginocchia e poi poggiando al suolo le mani completando in una posa a quattro zampe, rotto in due dalle risate. Il ciccione, anche se potremmo anticipare che il suo nome è Giuseppe, era decisamente il più affranto e afflitto per l’ironia messa nel ritornello: stava letteralmente strizzando le bacchette risplendendo della sua risata sonora e piena.
Nel mentre i quattro stavano riprendendosi dal colpo autoinflittosi, la porta si aprì dolcemente, facendo trapelare la figura di una ragazza.
Sulla canotta nera risaltava un filo d’argento reggente un’acquamarina, colorata magicamente a guisa degli occhi della ragazza. Questi, celesti, erano tanto magnetici da far sembrare persino le palpebre azzurre. Uno strambo caschetto di capelli lisci e castani ondeggiò una lunga frangia a punta da occhio a occhio, andandola a poggiare sulla guancia ambrata.
Scorgendoli tutti così impegnati, volse un sorriso innocente indagando, però, con sguardo inquisitore. I quattro la scorsero solo quando sentirono il rumore della porta chiudersi, come se fossero intenti in una scena teatrale decisamente troppo coinvolgente.
Federico le si avvicinò, e, ancora con le lacrime agli occhi, le diede un bacio sulla guancia. I tre si destarono un attimo, toccati da altri pensieri oltre all’ironia. Qualcuno alzò la mano per salutare, altri sbraitarono, ma quello che si vide oltre le spalle del ragazzo dalla cravatta rossa non fu altro che un battersi di mani su spalle e ginocchia, trepidanti sorrisi scroscianti assieme a rantoli di risate. Mettendo le mani sulle spalle di Federico, e magnetizzando il suo sguardo interrogatorio, esordii assieme a un sorriso.
    - Che succede?
    - Niente, abbiamo provato un ownamento degno dei calci di Chuck Norris.
La curiosità della ragazza scemò in una smorfia divertita, mentre con la testa mosse un dissenso dinoccolato. Gli mise il braccio attorno al collo, e lui fece lo stesso, riportandolo eretto. Poi, mentre si accinse a scrutare gli altri, si mise la mano libera sul fianco, divinizzandosi come il capogruppo.
    - Bimbi, la pacchia è finita. Il mio bimbo viene come me, voi a nanna. Su!
    - We, donna, stiam calmi.
Cinzia non ebbe il tempo che per inspirare l’aria necessaria a rispondere, ma non fece in tempo ad espirare le parole: al culmine dell’intento la porta si spalancò, gettandosi sulla parete. Uno stormo entrò determinato, scompigliando la scena; all’incirca una quindicina di ragazze entrarono con passo deciso per gettarsi a capofitto su Roberto e sommergendolo come una potente alta marea.
    - Roberto! - Ciao caro! - Guardami! Guardami! - Come stai tesoro? - Come sto vestita così?!
L’impeto sconvolse solo Cinzia, che assisteva per la prima volta allo spettacolo. Lo stangone e il ciccione si leccavano le labbra come dei leoni affamati pronti ad un lauto pasto.
    - Ragazze! Calma! C’è un po’ di Roberto per tutte!
Questa fu l’unica frase con tono maschile che emerse nei successivi attimi alla retata. Federico sospirò, quasi affranto dalla scena.
    - Chi va con il lupo alluppa, eh Rob?
    - Eh! Il sesso è una brutta dipendenza!
Dopo questa risposta, il ragazzo dalla cravatta rossa e la sua compagna si procinsero a licenziarsi da tanto scempio di emozioni. Mentre i due lasciavano la stanza, l’ultima immagine che si dipinse oltre le spalle ritraeva Giuseppe e Claudio gettarsi all’attacco delle ragazze con la solita mano morta.

Federico e Cinzia erano il tipo di coppia più affiatata: amici d’infanzia. Entrambi esprimevano verso l’altro un amore indescrivibile, pari a quello di due innamorati ma non del tutto differente da quello tra due amici, esistente ma distaccato: per questo era facile vederli ignorarsi così come in effusioni da piccioncini. Non che fossero mai stati una vera coppia, anzi i due c’avevano provato, solo che la loro relazione andava rivelandosi vera solo se si consideravano amici.
Forse non era il massimo della logica, ma era il massimo di tutto il resto vederli in azione assieme.

Atto II
I due si sedettero su una panchina tra gli alberi verdi che arrancavano verso il cielo. Davanti a loro, dietro la flora, trasparivano egocentrici gli archi dell’anfiteatro romano. Il color arena risaltava tra il silvano in un contrasto cromatico molto pacato, ma allo stesso tempo forte di quel pizzico di stile mielato infuso nella musica lirica.
Si poggiarono allo schienale come se avessero sulle spalle un’intera giornata di fatica, quando in realtà avevano camminato per poche decine di minuti. Esalarono quasi contemporaneamente uno sbuffo di soddisfazione, come se fossero pienamente appagati dall’aver raggiunto la situazione ottimale per discutere in pace e con calma. In realtà tutti questi “come se fossero” indicavano nient’altro che quel sottile gioco di recitazione inscenato per comporre la situazione ideale: entrambi sapevano che lo status quo pendeva decisamente verso uno solo.
Federico estrasse lentamente una sigaretta, e, con altrettanta calma, l’accese sfoderando un accendino. Nel giro di pochi attimi gli sbuffi di fumo cominciarono ad innalzarsi nel cielo come aguzze guglie di un grigio duomo, disegnando astratti e bizzarri motivi somiglianti a nuvole. Cinzia fissava sorridente lo sguardo perso del ragazzo: in esso si leggeva il lieto compiacimento per l’aver raggiunto una metà, anche se mancante della felicità per tale arrivo.
    - Da quanto fumi?
    - Tre, forse quattro anni.
    - E non pensi a cosa potrebbe succedere?
    - È relativo. All’inizio fumavo per cercare di conformarmi agli altri; ora non è più desiderio ma uno sfizio.
    - Sei dipendente.
Federico rubò un’altra boccata di fumo dalla sigaretta. La rigurgitò assieme alle parole, trasformando la solita cattedrale di fumo in tanti piccoli omini grigi. Come il silenzio era compensato dalle parole, la chiesa di fumo era raggiunta da osservanti plumbei.
    - Ho superato la dipendenza: io fumo quando ho voglia. E lo definisco un piacere.
Cinzia sorrise dolcemente, facendo brillare i denti perlacei.
    - Lo spero.
Poi allungò la testa e stampò un bacione sulla guancia del ragazzo. Questo si volse, la squadrò e le spirò l’ultimo soffio di fumo sugli occhi, irritandoglieli.
    - Cretino!
Federico rise, fiero e felice, ricacciandosi la sigaretta in bocca. La ragazza si strofinò gli occhi per diversi attimi, e, una volta passato il bruciore, fissò il ragazzo con sguardo serio e roco. Lui ricambiò l’occhiata, ma quando materializzò di avere davanti solo due occhioni rossi non trattenne un nuovo scoppio di ilarità.
    - Dio santo, sei buffa come...non so cosa!
    - Ma non sei ateo?
    - Sì, perché?
    - Perché invochi Dio?
Lei era rimasta posata, impassibile al precedente sorriso maschile.
    - Esci dai canoni piccola. Non è forse anche Allah un dio? Il dio denaro? E il dio gnocca? - Cinzia lo guardò un po’ stupita e decisamente spiazzata, conscia che aveva ragione - Perché se dico “dio” si pensa alla chiesa di Roma?
    - In effetti...
Qualche attimo di riflessione silenziosa mise le virgole nel discorso.
    - Ti stai rovinando, Federico. Sei stanco ed esausto, non mentirmi.
    - Come pretendi di vivere a pieno restando seduta? Bisogna afferrare ogni occasione, o almeno provarci.
    - Ed è per questo che ti ostini a conoscere ogni ragazza che passa?
Federico sorrise mettendo un intermezzo agrodolce nel malinconico della scena, malizioso.
    - Sei gelosa.
    - Può anche essere, ma questo non toglie che io abbia detto il vero. Perché lo fai?
    - Io non mi ostino a conoscere ogni ragazza che passa! Io mi ostino a non smettere mai di pensare, di lasciarmi a cose inutili, a oziare. - Un’altra nuvola di fumo alitò tra i due - Sai cosa è il criticismo? - La ragazza annuì - e allora ogni tanto fanno un poco, e forse poi mi capirai.

Atto III

Erano tutti in camicia bianca; unica nota caratteriale oltre il viso era la cravatta: ognuno di essi portava una cravatta con un differente sempreverde motivo anni ’70.
Il quadro che si era dipinto era pari a note di strumenti diversi su melodia neutra.
Il ritornello de “the Final Contdown” tuonava in aria tra bassi di violoncello e acuti di chitarra. La batteria scandiva da lontano il ritmo. Le mani alzate si accompagnavano al coro di voci che stava per dilatarsi a rincorrere la voce del solista.
    - ... e arrivar a sera a furia de segoni, GÒ ‘L CAZZO CHE CANTA! - Spalle e mani si toccavano, piedi si pestavano, voci si mescolavano: stava per partire il classico pogo - ... EL CAZZO CHE CANTA! -
La chitarra strimpellava: gli spettatori si saltavano addosso; il basso echeggiava: gli ascoltatori si spintonavano; le bacchette percuotevano: le mani martellavano. Federico cantava: in risposta un’altra unica voce. Il maremoto di uomini si scosse fino alle ultime note della canzone, ovviamente senza dover contare ne di feriti ne di contusi.
    - Ciurma, in riga! - Federico ansimava, con entrambe le mani alzate al cielo, sudando fatica ed eccitazione - Brigata delle Camicie Bianche!
La frenesia insinuatasi nel centinaio di giovani radunati in piazza Erbe si dileguò dietro le file. Il mare ritornò piatto e calmo, e tutti gli occhi puntarono quei quattro che erano sorretti da un ben misero palco plasticato; dietro, l’osteria di Oreste.
    - Questa sera, in onore al compleanno di un grande di noi, presenteremo per la prima volta la boiata che forse segnerà di più il nostro gruppo. Sebbene sia un boiardo di stato, un applauso al “figlio della Russa”!
Un boato si levò sordo e cieco al possibile disturbo, unico atto per sollevare l’attenzione verso un’unica persona al centro di quella folla che sorrideva e si mordeva le mani per aver spifferato dell’anniversario.
    - Ma anzi... Prima del pezzo composto dalla nostra pluripremiata band appositamente per lui, un classico a colei che non perderà mai il posto nel nostro cuore! Su le mani Brigata!
Le bacchette si avvitarono tra le dita, mano alla chitarra, polso sul basso, bocca sul microfono.
    - ‘Ndemo al bar, ‘ndemo al bar, / ho finìo de laorar, / son ‘ndrio morir de sé, / ché no sto gnanca in piè, / ma i butei, ma i butei, / i g’ha el bicer sempre pien pien pien / e alora bira vin e graspe a volontà. / Voi gussar, voi gussar! / G’ho bisogno de sborar, / ma de fighe no ghe n’è, / ne toca nar al marciapiè, / ma i butei ma i butei, / i è sempre sensa schei, ehi ehi! / E alora pipe, scianche e seghe a volontà.
L’assolo di Roberto partì accompagnato dai salti degli spettatori, e si avviò alla fine con una pseudo-fiaccolata. Gli accendini brillavano sulle teste del festival, illuminando quella magnifica serata del duemiladue aggiungendosi alle stelle. Chi non aveva un accendino, ne aveva accesi due.
    - El Verona in serie A, / fin a un par de mesi fa, / emo vinto anca el scudeto, / più o meno vint’ani fa, / ma i butei ma i butei, / no se la desmentegà, à à! - Federico si gettò di spalle tra la folla, senza nemmeno preoccuparsi degli accendini; fu sostenuto e si bagnò di folla - Hellas-Verona-birra-mona-e-pearà! HELLAS-VERONA-BIRRA-MONA-E-PEARÀ!

Atto IV
Un sms fece illuminare il cellulare coricato sull’erba. La rigidità di quella notte aveva fatto di quella insignificante luce una sembianza di calore, speranza di vampa energica. Federico, anch’esso disteso sul prato, lo prese e lesse il messaggio. Sorrise, lo poggiò oltre la sua testa e ritornò a fissare la volta stellata. Dietro di lui una tenda e uno zaino, postati su quella montagnetta dedicata a Santa Viola; sebbene fossero tanto lontani dalla città, sotto di essi si apriva la pianura, illuminata interamente di una moltitudine di lampade.
Il messaggio recitava: “Torna a casa t prego...siamo ttti in pensiero x te”. Gli scriveva Cinzia.
Era ormai metà settembre e il ragazzo era “uscito” di casa, esonerandosi da scuola e ogni impegno, ritirandosi su una collinetta sperduta senza dare nessun avviso. Apparentemente era fuggito di casa, ma tutti sapevano che non era ne così avventato ne così sciocco. Sarebbe tornato, ma non si poteva prevedere quando.
Sorrise al pensiero che stessero meditando su lui e probabilmente su ciò che avrebbe fatto, e riprese in mano il cellulare; stavolta cominciò a premere sulla tastiera con abilità sorprendente, come ogni adolescente. “Non preoccupatevi, torno presto. Resto via un altro paio di giorni, ho tutto ciò che mi serve. Ti amo, ciao!” La grafia perfetta del messaggio sarebbe stata letta dalla stessa ragazza che gli aveva scritto poco fa, e proprio il fattore grammatica risolveva il dubbio della sua improvvisa pazzia in certa lucidità.
Prese il suo quadernino, inforcò la sua fedele biro e cominciò a scrivere nuovamente come faceva da giorni ormai, alternando lo sguardo tra cielo e terra, entrambe stellate, sorseggiando il suo solito Campari.
Tutto è cominciato quando ho ascoltato Scegli, degli Africa Unite. Il testo diceva... Non perder tempo in bilico tra sesso e spirito, scegli che parte c’è in te... Esiste forse cosa più sbagliata? Si, ma questa è la cosa che ho fatto più sbagliata. Come ho potuto pensare di dedicare tutto me stesso allo sfruttamento di ogni opportunità che mi si offriva? La musica, le ragazze, i concerti, i bagni di folla che tanto ama il mio ego... Sono tutte distrazioni, e non l’ho capito prima. Cercando il contatto perfetto con ciò che ci circonda si finisce col restare trascinati nelle correnti sociali e a non avere tempo per pensare. Non è giusto offrirsi totalmente agli altri come non è giusto isolarsi. L’intimità pura con sé stessi è forse la cosa meglio per poter pensare alla propria direzione ed agli eventuali cambi di rotta. Quindi per ora mi trovo qui isolato da tutto il mondo, a trascorrere la pena per essere stato cieco. Non esiste lupo e allupato, come diceva Verga, ma esiste colui che si lascia giudicare dalla massa e colui che è autosufficiente. ...
Staccò la penna, e si volse un attimo verso il cielo, al pensiero di Cinzia. Il ritornello di una vecchia canzone si librò leggiadro e delicato sopra di lui verso la luna, appena sussurrato come se solo lui lo dovesse sentire. Era forse lui il lupo della società che veniva seguito?
    - ’Cause if you’re not really here, then the stars don’t even matter; Now I’m filled to the top with fear, but it’s all just a bunch of matter; ’Cause if you’re not really here, then i don’t want to be either; I wanna be next to you... black and gold... black and gold... black and gold.


CITAZIONE
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