Run in the dark, [24/07/08] Tra sogno e realtà

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taisa*
view post Posted on 26/9/2008, 09:34




Rating: 16 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 6.562 parole
Avvertimenti: Character Death
Genere: Generale, Romantico, Drammatico
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Introduzione alla Fan's Fiction: Kate non conosceva il terrore, fino a quando ha cominciato a dover scappare da esso.


RUN IN THE DARK



Kate stava correndo. Non ne conosceva il motivo, i suoi piedi si muovevano da soli. Da quanto tempo, non lo sapeva. Per quale motivo, non sapeva nemmeno quello. La sola cosa della quale aveva la consapevolezza era che doveva correre.
Sembrava portasse i tacchi, ai piedi. Eppure non ebbe il modo per confermarlo.
I suoi occhi non riuscivano a vedere le sue estremità e, a dire il vero, non era in grado di vedere nemmeno la strada che stava percorrendo. Tutto buio attorno a lei, la notte e null’altro.
Così, senza alcuna speranza, seguitava a percorrere quella via che pareva non portare da nessuna parte. In cerca di aiuto, forse. Nell’illusione di riuscire a scorgere qualcuno che potesse trarla in salvo da qualunque cosa la stesse inseguendo.
Sempre se c’era davvero qualcosa dalla quale stava scappando.
Kate si accorse che incredibilmente conosceva quella strada, seppur immersa nelle tenebre. Era come correre a occhi chiusi in un luogo che si conosce, ma che si tramuta in un incubo spaventoso del quale non vorresti fare parte.
Improvvisamente, con un sibilo sinistro, qualcosa nell’ombra sembrò chiamare il suo nome. La invocava, l’ombra, le chiedeva di fermarsi e aspettare, ma Kate non volle attendere.
Chiuse gli occhi disperata; senza guardarsi indietro aumentò il ritmo del suo passo. “Kate, aspetta” sussurrò la voce, ora più vicina. La voce di una persona che, la ragazza, nemmeno conosceva.
Quasi per istinto rivolse la sia attenzione all’oscurità, accorgendosi che l’ombra si era fatta più concreta. Poteva vederla adesso, la sagoma di una persona. Non abbastanza definita da riuscire a riconoscerla, ma abbastanza tangibile da poter vedere qualcosa di luccicante sull’orecchio dell’individuo.


Kate si risvegliò in un bagno di sudore. I suoi occhi, di uno splendido colore verde, si guardarono attorno, osservando l’ambiente circostante.
Non era più il buio, non erano più le tenebre. Era semplicemente la sua stanza.
Il battito del suo cuore cominciò ad abbassare il ritmo, sentendosi nuovamente in un posto famigliare, questa volta senza strane sagome che la stavano cercando.
Con lentezza osservò le sue mani, come per accertarsi che esse fossero ancora lì. E ringraziò il cielo quando, benché tremolanti, le rivide. Questo contribuì a riportarla alla realtà.
Osservò le pareti della sua camera, osservò le tende e i mobili, osservò tutti gli oggetti, uno a uno. Infine il suo sguardo si soffermò sullo specchio, intento a riflettere la sua immagine.
Era ancora spaventata, non poteva negarlo, ma lentamente tutto sembrava tranquillizzarla. Incluso il suo volto segnato dal terrore.
L’assordante rumore della sveglia fu l’ultima cosa che servì a farla tornare con i piedi per terra. Il suo sguardo si posò sulla radio sveglia e, dopo averla guardata attentamente, si accorse di un’altra terribile realtà. “Accidenti! Sono in ritardo!” esclamò saltando giù dal letto.

La porta sul retro del singolare ristorante-fast food, dell’entrata del personale, si aprì di scatto costringendo Jane a volgerle l’attenzione. La giovane cameriera osservò la collega trafelata che era appena arrivata.
Kate ansimò esausta da una lunga corsa, attendendo alcuni secondi prima di rivolgere la parola all’altra ragazza. “Sei in ritardo, come al solito” la rimproverò Jane senza alcuna severità nella voce. Osservò la nuova arrivata, ancora intenta a riprendere fiato. “Qual è la scusa di oggi?” s’informò in seguito, forse un po’ sarcastica; appoggiandosi entrambe le mani ai fianchi. La ragazza dai lunghi capelli castani riuscì infine a respirare in maniera regolare. “Non ho sentito la sveglia” spiegò avvicinandosi velocemente a quello che era il suo armadietto, con l’intento di indossare la divisa da lavoro.
Jane guardò la collega e amica per diversi secondi, “Beh, dall’aspetto sembra che tu non abbia dormito per niente” non mancò di notare. Il suo sopracciglio si arcuò impensierito. Era una cosa che faceva spesso, Jane, quando era perplessa o preoccupata.
Kate si legò i capelli mossi in una coda di cavallo prestando poi l’attenzione verso l’amica. “Già, purtroppo non sto dormendo bene ultimamente. Continuo a fare sogni strani” si lamentò, finalmente pronta per cominciare a lavorare.
La bionda sembrò tranquillizzarsi, “Più tardi me lo racconterai, ora comincia il turno. Prima che arrivi il capo” puntualizzò additando la direzione nella quale era situata la piccola sala.
“Agli ordini” scherzò Kate afferrando il suo taccuino, superando la collega con l’intento di uscire dagli spogliatoi. La sua mano si fermò ancor prima di poter sfiorare il pomello della porta, richiamata dalla compagna di lavoro. “Servi il cliente al tavolo due” si premurò di avvertirla l’amica.
Kate Albright era una ragazza come tante, con una vita come tante. Si alzava la mattina presto per servire ai tavoli di un piccolo bar ristorante o qualunque modo lo si voglia chiamare, data la peculiarità dei suoi orari. Colazione, pranzo e cena, ma solo in determinati giorni e senza una particolare regolarità.
Certo, Kate non amava il suo lavoro, ma i suoi genitori non erano riusciti a mandarla all’università e i suoi studi non erano sufficienti per trovare un impegno migliore di quello che già svolgeva. Ma Kate era capace di accontentarsi e non si lamentava.
“Scusi per l’attesa. Desidera ordinare?” domandò la cameriera posando la penna sul blocco in attesa dell’ordinazione del cliente.
Il menù, dietro il quale si nascondeva un ragazzo, si abbassò leggermente. Gli occhi castani del giovane scrutarono con attenzione la cameriera; attese pochi secondi prima di rispondere. Nonostante la lista che gli copriva parte del viso, il suo sguardo si dipinse di una notevole malizia; che Kate non colse, prestando più attenzione al suo taccuino.
Il cliente posò il menù sul tavolo sfoggiando uno strano sorriso, “Vorrei, delle uova strapazzate, una spremuta e... te” ordinò attendendo una qualsiasi reazione da parte della giovane.
Non era il primo, che ci provava con lei, e di certo non sarebbe stato l’ultimo. Kate dimostrò la più assoluta indifferenza. Si limitò a osservare lo strano giovane seduto al tavolo. Giusto per avere una vaga idea del suo aspetto. Piuttosto grossolano, si ritrovò a pensare la cameriera.
A partire da quello strano taglio di capelli, tinti di un orribile biondo paglierino. Per non parlare dei vari anelli collante e piercing che luccicavano, come se lo rendessero una persona importante. Stessa cosa valeva sia per quel tatuaggio tribale sul braccio sia per il pizzetto; dava l’idea che si fosse semplicemente dimenticato di radersi; da giorni. In pratica, sembrava il protagonista sfigato di uno squallido film di serie B, o anche peggio possibilmente.
“Spremuta di arancia, limone o pompelmo?” si limitò a rispondergli Kate ignorando platealmente il banale tentativo di approccio. Nonostante la freddezza dimostratogli, il giovane non sembrò per nulla scoraggiato, anzi. Sul suo volto si dipinse uno sguardo di sfida e di divertimento al tempo stesso. Intrecciò le mani dietro la nuca, sorridendo soddisfatto; poi osservò la cameriera, “Pompelmo, mi piacciono le cose acide” rispose divertito, senza mai staccarle gli occhi di dosso.
Kate appuntò l’ordine limitandosi a compiere un passo indietro, “Arriva subito” lo rassicurò. “Basta che me lo servi tu, signorina K. Albright” le urlò dietro, sottolineando che avesse letto la targhetta con il nome della ragazza.

“... mi giro e vedo questa strana sagoma. Poi mi sveglio” spiegò Kate alla collega, in un attimo di pausa.
Jane si limitò a guardarla per tutto il tempo, ascoltando il racconto della ragazza. Restò in silenzio diversi secondi, intenta a fissare i lineamenti dell’amica. “Certo che ne fai di sogni strani tu” stabilì infine posando il mento sulla mano, senza mai distogliere lo sguardo.
Kate sostenne l’occhiata per diversi istanti ancora, sbuffò facendo spallucce. “Lo so, ma ultimamente non faccio altro che...” a interrompere la discussione tra le due ragazze fu il campanello posto accanto alla cassa.
Entrambe volsero lo sguardo alla porta che separava l’area del personale dal locale stesso. Kate, la più vicina delle due, si scomodò alzandosi dalla sedia sulla quale era seduta, “Vado io” annunciò sparendo oltre l’uscio.
“Salve signorina K. Albright” la salutò la voce del cliente in attesa di essere servito. La giovane si trovò a fissare lo strano ragazzo che aveva servito al tavolo qualche mezz’ora prima. Un moto di disgusto sul suo volto fu l’inevitabile manifestazione dei suoi pensieri.
Nonostante ciò, la cameriera, riuscì a mantenere la calma e il sangue freddo; avvicinandosi alla cassa con la più assoluta noncuranza. Almeno così le sarebbe piaciuto. Il senso di fastidio che provava, trovandosi al cospetto di quello strano individuo, non riuscì proprio a nasconderlo e, a essere sinceri, la cosa che più la infastidiva di quel ragazzo era il suo sorriso. Quell’irritante sguardo di superiorità e di divertimento al tempo stesso insinuava in lei la voglia di sferrargli un pugno in pieno viso affinché cambiasse espressione.
“Tavolo due, giusto?” domandò solo per conferma, leggendo il pezzo di carta scritto da lei stessa sulla quale era segnato l’ordine. Lui rimase in silenzio a osservarla. Gli occhi sottili non smisero mai di fissarla, in ogni movimento. Come a voler studiare le sue mosse.
Il conto apparve sul display della cassa ed entrambi volsero a essa la propria attenzione. E mentre la prima attendeva impaziente che lui pagasse e sparisse, possibilmente per sempre. Lui restò in mobile in attesa di chissà quale istruzione.
Kate si vide costretta a rivolgere lo sguardo del cliente che, accentuando il sorriso, sembrò soddisfatto di poterla osservare negli occhi, finalmente. “Stai tranquilla, signorina K. Albright, ti pagherò” la tranquillizzò avendo compreso il pensiero dell’altra, “Ma prima voglio sapere per cosa sta la K” specificò estraendo il portafogli da delle tasche dei pantaloni.
Kate restò sbigottita a guardarlo, senza realmente comprendere le sue intenzioni. Dopo un primo momento di smarrimento, tuttavia, sembrò riscuotersi. Innervosita, accigliò lo sguardo; manifestando abbastanza apertamente il suo malcontento. “Perché dovrei dirtelo?!” sbottò arrabbiata, dimenticandosi peraltro la famosa regola del “il cliente ha sempre ragione” .
Il ragazzo non sembrò per nulla scomporsi, afferrò una banconota e restò a guardarla, senza porgerla alla cassiera. “Perché ho tutto il giorno a disposizione e posso restare qui finché voglio” chiarì tornando a sogghignare in quel modo che a Kate dava tanto fastidio.
Decisamente, il coltello dalla parte del manico era in mano a quel rozzo individuo; e la giovane non poté fare a meno di arrendersi. Anche perché, lei lo avrebbe sicuramente ucciso entro i prossimi dieci minuti, altroché giorno. “Kate, mi chiamo Kate Albright, contento adesso?!” sbraitò afferrando i soldi che il giovane reggeva ancora tra le dita.
“Molto piacere signorina Kate Albright. Io sono Alex Gregory” si presentò a sua volta il ragazzo. “E chi se ne frega?!” quella frase le uscì dalla bocca come un fiume in piena. Si accorse di averla non solo detta, ma addirittura di averla pensata solo quando udì la sua voce giungerle alle orecchie.
Alex, per tutta risposta, si scostò dal bancone, sempre sorridente, facendo un passo indietro. “Tranquilla, non avrai il tempo per dimenticartelo... Kate” disse enigmatico avviandosi verso l’uscita.
Quando vide la sua figura sparire dietro la porta, Kate, lo maledisse in tutte le lingue. Senza conoscerne nemmeno la metà.


Il sole aveva ormai deciso di andare a dormire. Lentamente scese oltre l’orizzonte lasciando il posto alla collega notturna e, la luna, si apprestò a svolgere il proprio compito come ogni giorno.
Alex osservò lo svolgersi naturale degli eventi. Affascinato dalla mutazione che avveniva nel cielo. Gli piacevano le stelle e gli piaceva guardarle.
Fondamentalmente sarebbe rimasto lì per molto ancora, se il suo stomaco non avesse cominciato a reclamare un lauto pasto.
La sua sigaretta si spense sotto la pressione della sua scarpa anticipando il suo ingresso nel locale che, da un po’ di tempo a questa parte, aveva cominciato a frequentare regolarmente. Il motivo? La bella cameriera dagli occhi smeraldo, ovviamente.
Alex Gregory non era il tipo di persona da arrendersi dopo il primo rifiuto. Neanche dopo il decimo, a essere sinceri. Lui era il tipo di persona che amava avere ciò che voleva, e quello che voleva nel locale era la giovane cameriera.
Così, l’instancabile corteggiatore, si presentava regolarmente a tutte le ore sedendosi sempre al medesimo tavolo e attendeva.
Fu snervante, quel giorno, trovare il posto numero due occupato da un paio di ragazzini. Restò a fissarli per alcuni secondi.
Alex si avvicinò al tavolo a grandi passi fino guardare i giovani seduti a quello che era il suo posto. “Spiacente di deludervi, piccoli, ma questo posto è occupato” s’impose guardandoli dall’alto al basso, dopo aver incrociato minacciosamente le braccia.
Uno dei due, quello che pareva il più grande, gli rivolse lo sguardo per nulla intimorito dal nuovo arrivato, ignorando l’aspetto da vero teppista. “Mi spiace, ma oggi siamo qui noi” s’impose senza scomporsi troppo.
Lo sguardo di Alex si tramutò di uno strano ghigno. Non era uno di quelli che mandavano Kate su tutte le furie, era diverso. Un sorriso sadico, divertito, ma al tempo stesso pericoloso. “Forse non ci siamo capiti, marmocchi” ripeté con tono pacato. La quiete prima della tempesta.
Jane si ritrovò a fissare la scena ad alcuni tavoli di distanza. Non impiegò molto per riconoscere Alex, il ragazzo del quale Kate si lamentava spesso e volentieri. Compì un primo passo verso di loro, un po’ esitante. Quel tipo non le piaceva per niente, l’amica aveva ragione.
Stava ancora valutando la situazione, indecisa se intervenire o no; ma soprattutto come intervenire. A frenarla definitivamente fu Kate.
La collega uscì da dietro il bancone dirigendosi a grandi passi verso il tavolo incriminato. Con assoluta decisione afferrò il ragazzo per una spalla costringendolo a voltarsi, incrociando gli occhi con lui. “Al diavolo, Alex! Trovati un altro posto!” sbottò la giovane additando un altro tavolo.
Alex la guardò per pochi secondi, il suo sguardo tornò ad assumere quell’irritante sorriso che costrinse la cameriera a contare mentalmente fino a un numero indefinito, pur di non staccargli la testa a morsi.
“Non c’è nessun problema” intervenne uno dei ragazzi, lo stesso che si era imposto pochi istanti prima. Si alzò con apparente tranquillità, rivolgendo poi lo sguardo all’amico, “Sediamoci da un’altra parte. Non voglio creare problemi alla signorina” annunciò limitandosi a rivolgere alla giovane un occhiolino. Forse solo per rasserenarla.
A seguito della sua affermazione, anche l’altro si alzò dal posto, trovandosi un altro tavolo.
Kate osservò il piccolo gruppo spostarsi, in silenzio. Infine tornò a guardare il suo, antipatico, cliente fisso. “Mi congratulo per la tua maturità, Alex” gli disse fissandolo con uno sguardo assassino.
Contrariamente a quanto sperasse la ragazza, Alex Gregory fece spallucce tornando a essere il solito, sembrando quasi un’altra persona rispetto a pochi istanti prima. “Che posso farci, mia dolce Kate?! Ormai sono affezionato a questo tavolo... e alla sua cameriera” le sussurrò in un orecchio, sfiorandola.
Kate lo spinse via, per nulla contenta della situazione, “Mangia e sparisci” sbraitò allontanandosi il più velocemente possibile. Ormai non aveva nemmeno più bisogno di ascoltare la sua ordinazione.

Kate stava correndo.
Un passo dopo l’altro, esibendosi in un’estenuante corsa senza nemmeno conoscerne il motivo. I piedi le dolevano, forse a causa delle scarpe scomode.
E lei correva, senza conoscere la propria meta, né il motivo di tanta ostinazione.
Correva perché aveva paura, di questo era certa. Quell’inconfondibile sensazione che ti ottenebra la mente e che sembra uccidere la ragione.
Kate non sapeva altro, correva e aveva paura. Scappava, probabilmente. Da qualcosa o qualcuno che l’aveva terrorizzata, ma che, in quel momento, era rappresentato dalla sola ombra.
Null’altro la circondava, soltanto le tenebre.
“Kate, aspetta” sentì sussurrare nella notte, ma lei non volle eseguire quell’ordine, si rifiutava. Fu una voce famigliare a pronunciare quella frase, ma non abbastanza da permetterle di riconoscerla.
In un gesto istintivo si voltò a guardarsi le spalle, mentre il luccichio dell’orecchino indossato dal misterioso individuo scintillò sotto quella che sembrava la timida luce lunare.
Una mano si allungò verso di lei, nel chiaro intento di afferrarla. E Kate si scostò sempre più spaventata. Era il terrore che le scorreva nelle vene.
Le sue orecchie udirono un grido, era la sua voce. Un’invocazione di aiuto, o di pietà, qualcosa che non le giunse chiaro
.

I suoi occhi osservarono la stanza nella speranza di eliminare il più in fretta possibile quelle sensazioni.
Paura e sgomento sembravano il filo conduttore di tutto. La sola cosa che riusciva chiaramente a ricordare, a ogni risveglio. E anche quella sera non ci fu alcuna eccezione. Kate si risvegliò in preda al terrore.
Era da un po’ che non faceva più quel sogno.

“Desidera?” domandò la cameriera, posando la punta della sua penna sul taccuino. Senza guardare negli occhi il cliente comodamente seduto al tavolo.
“Ciao, ti ricordi di me?” chiese di rimando una giovane voce, che costrinse Kate ad abbassare lo sguardo. Uno splendido paio di occhi azzurri la fissò con un enorme sorriso.
Kate fissò il ragazzo per diversi secondi. Il suo viso non le era completamente sconosciuto, in effetti. “Ah sì!” esclamò infine, “Mi ricordo di te, sei quello che era seduto al tavolo due l’altra sera” affermò.
Il giovane annuì, “Esatto. E come vedi oggi non ho occupato quel tavolo” le fece notare con un largo sorriso. “Se è per quel che ti ha detto Alex non dargli troppo peso. Quello è un autentico idiota” sbuffò la ragazza, “Ti chiedo scusa per la sua immaturità” si premurò di aggiungere in un secondo momento.
“Ahah, non ti preoccupare. Solo un cieco, o uno stupido, non riuscirebbe a vedere la tua bellezza in ogni angolo del locale” ammiccò il cliente, suscitando una colorazione porpora sulle gotte della giovane. “Mi chiamo Will Harper” si presentò porgendole una mano.
Kate esitò pochi istanti prima di stringere la mano al ragazzo, “Kate Albright” rispose, scoprendosi un po’ impacciata. “Kate, che bel nome. Ti dona” affermò l’altro, regalandole l’ennesimo sorriso gioviale del loro breve discorso.
“Kate! Devi servili i clienti, non flirtare con loro!” la rimproverò con severità la collega poco distante. Costringendo la giovane all’ennesimo momento d’imbarazzo. “N... non sto flirtando!” cercò di difendersi, un secondo dopo.
Will rise divertito, “Forse tu no, ma io stavo decisamente flirtando. Quindi... posso invitarti a continuare questa conversazione fuori da qui?” propose il ragazzo, supportato da un piccolo occhiolino. E quel sorriso magnetico e irresistibile che ancora non si era spento.
La cameriera annuì, ancora impicciata. Will si alzò dal suo posto, “Allora verrò a prenderti alla fine del turno” la salutò con una specie d’inchino.
Kate restò immobile, osservandolo uscire dal locale senza essere in grado di dire una semplice parola.

“Ehilà, ciao Alex” attirò la sua attenzione un ragazzo indaffarato dietro il bancone del bar. Alex si voltò, incrociando lo sguardo con un volto famigliare, “Ah, David” lo salutò di rimando, porgendogli il palmo della mano. David colse l’invito, battendo un cinque sulla mano dell’amico, “Solo? Non sei con gli altri?” domandò il barista.
Alex posò i gomiti sul bancone, osservando la sala del piccolo bar, distrattamente. Sospirò. “Eh già. Sono solo soletto e indifeso” scherzò il giovane dai capelli decolorati. “Tu, indifeso? Questa poi” rise di gusto l’altro porgendogli un drink, il così detto solito per Alex. “Non dire così. Mi fai passare per un violento” si risentì il cliente afferrando il bicchiere. David si limitò a osservarlo con aria scettica.
La bibita che reggeva in mano, però, non arrivò mai alle sue labbra. Improvvisamente, come un fulmine a ciel sereno, una risata giunse al suo udito. Chiara e cristallina, ma soprattutto divertita.
Lo sguardo di Alex si perse nel vuoto per pochi istanti, nel tentativo di riconoscere la voce in questione. Aveva un timbro famigliare e, dopo appena un paio di secondi, la riconobbe. Sebbene non l’avesse mai udita con quel timbro, non gli fu difficile identificarla.
I suoi occhi si scostarono lentamente, studiando ogni centimetro della sala. E infine la vide.
Kate era lì e rideva, assieme a qualcuno che non era lui. Indubbiamente costatarlo gli diede parecchio fastidio. Del discorso di David, inoltre, non stava più ascoltando una sola sillaba. Con movimenti flemmatici e distaccati tornò ad appoggiare il boccale sul banco, staccandosi a sua volta dal ripiano stesso.
Un passo dopo l’altro, in un lento incedere, si avvicinò alla ragazza; senza mai distogliere lo sguardo dalla sua figura.
“Bene bene. Che fortuita coincidenza” richiamò la sua attenzione appena la raggiunse. Lo sguardo di Kate si fece sbigottito. I suoi occhi si persero nel vuoto, nel tentativo vano di convincersi che si trattasse solo di un’illusione. Quando incrociò le pupille castane e profonde, incastonate in quel ghigno malevolo che tanto odiava, spense istantaneamente il suo sorriso.
“Cosa ci fai qui?” domandò la ragazza in un sussurro appena percettibile. “Ehhhh che vuoi farci... sono calamitato verso di te” rispose l’altro aprendo i palmi delle mani verso l’altro, accentuando quel dannato sorriso, “E’ una vera fortuna trovarti qui tutta sola” insinuò posando una mano al tavolo dove lei era seduta.
La sedia di fronte alla ragazza si scostò bruscamente, “Togliti dai piedi gradasso. Qui non sei gradito” s’intromise Will portandosi ad un passo dall’attaccabrighe che li aveva appena raggiunti. Alex gli mostrò uno sguardo di totale indifferenza. Solo ghiaccio nei suoi occhi.
Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto, Kate, osservò il suo viso e provò il vero significato della parola terrore. Quello che stava guardando Will non era il solito Alex, aveva qualcosa di diverso. Di profondamente inquietante.
Gli occhi freddi studiavano l’altro ragazzo, quasi avesse davvero il potere di congelare il suo interlocutore solo così, guardandolo.
“Oh, guarda. Moscerino, non ti avevo nemmeno visto” insinuò Alex senza mutare quello sguardo dettato dall’indifferenza e, perché no, anche dal disprezzo. “Fai poco lo spiritoso, spaccone. Kate non vuole avere nulla a che fare con te, quindi vedi di sparire” s’impose il più basso dei due, nel tentativo di difendere la ragazza.
Alex sembrò improvvisamente più alto, uno strano gioco ottico e psicologico gli conferiva una grandezza che Will non aveva.
Tutto il locale si era fermato a guardarli e tutti ebbero la medesima sensazione. Persino David, il barista, si accorse del pericolo incombente. Conosceva Alex abbastanza bene da sapere che i guai erano solo all’inizio, ma quando l’amico gli risultò gigantesco nemmeno lui riuscì a intervenire. Si bloccò a metà strada, tra il bancone del bar e il tavolo. Senza riuscire improvvisamente a muoversi.
Anche Will non poté fare a meno di notare questa innaturale peculiarità, ma lui non poteva tirarsi indietro. Fu forse per un’inconsapevole autodifesa che le sue mani si posarono sulle spalle dell’altro nel tentativo di respingerlo. Lo spintone però, non ottenne molti risultati e a Will non restò che fissare inerme il suo avversario.
In quel momento fu Kate a riprendere le proprie facoltà mentali e nel silenzio irreale della sala scattò in piedi rivolgendo lo sguardo al più grande dei due, “Basta, smettetela!” urlò ad entrambi.
Solo Will le rivolse l’attenzione dovuta, con l’intento di tranquillizzarla. “Va tutto bene, Kate. Non succederà nul...” la frase che voleva essere d’incoraggiamento non ebbe mai una fine.
Senza nessun preavviso Alex sferrò un pugno al piccoletto che si ritrovò improvvisamente steso al suolo. Il colpo tuttavia, non prese in pieno il volto del ragazzo. Will si vide costretto a massaggiarsi la parte lesa, l’orecchio.
Il dolore più grande, causato da quel pugno, non fu il gancio in sé. Bensì l’orecchino che portava e che si era, dolorosamente, schiacciato contro la cute.
“Non osare toccarmi mai più, moscerino!” ringhiò Alex, esibendosi in un altro genere di sguardo minatorio. Quello di una persona che poteva uccidere da un momento all’altro.
Poi, senza dare ulteriori spiegazioni, girò i tacchi e uscì dal locale senza degnare nessuno di uno sguardo, nemmeno a Kate.

Il rumore dei suoi tacchi rimbombò nel buio della notte. Camminava lentamente, avvolta in misteriosi e lontani pensieri.
Una pessima giornata di lavoro e una serata ancora peggiore.
Le sue mani s’introdussero nella sua borsetta, alla ricerca del mazzo di chiavi del portone di casa.
Improvvisa e silenziosa una mano si avvinghiò attorno al suo gomito, costringendo la ragazza a urlare, spaventata dall’inaspettata presenza.
“Non strillare, sono io” si presentò una voce alle sue spalle e Kate si voltò, “Tu!” esclamò carica di rabbia appena riconobbe la figura che le era comparsa dinanzi agli occhi. Alex.
Le dita fredde di lui non accennarono a scostarsi, in una presa decisa ma gentile. “Cosa ci fai qui?” sbottò la ragazza guardandolo negli occhi, questa volta solo profondi. “Ti ho seguita” spiegò senza remore il falso biondino. Kate sgranò gli occhi liberandosi della sua presa con un gesto secco, “Segu...? Santo cielo, Alex! Che cosa vuoi ancora da me? Devo chiamare la polizia?!” sbottò minatoria la ragazza aggrottando le sopracciglia.
Alex si limitò a mettere le mani in tasca, allontanandosi in un solo passo, “Quanto sei esagerata. La polizia. Sono solo qui per chiederti scusa” si limitò a dire, sbuffando. “Vuoi chiedermi scusa?” ripeté incredula la ragazza, arcuando un sopracciglio. Sorpresa dalle sue parole.
Kate restò a fissarlo a lungo, mentre Alex distolse lo sguardo. “Hai molto per cui chiedermi scusa, lo sai? Mi stai rovinando la vita. Tu e la tua stupida arroganza” si lasciò sfuggire, senza però pentirsi. L’altro fece spallucce un po’ superficialmente, “Che stupidaggine, ti piace molto enfatizzare” si limitò a replicare, dimostrando ancora una volta una notevole trascuratezza.
“Enfatizzare?!” per l’ennesima volta, Kate, si ritrovò a dover ripetere le parole del ragazzo, presa alla sprovvista. “Non sto enfatizzando, razza d’idiota! Tu sei... la persona che detesto di più al mondo! Sei insopportabile. Il modo in cui mi guardi, come ti atteggi e quello schifoso sorrisetto che ti viene quando ti dai arie di superiorità. Mi irriti. E la cosa che mi da più fastidio di tutte è che non lo capisci, o fai finta di non capirlo!” sbottò, ora sul punto di versare delle lacrime. Forse per rabbia o per disperazione. Qualunque fosse il motivo, Kate si ritrovò sul baratro del pianto.
Alex restò immobile, durate tutta la sfuriata, assorto in silenzio nelle sue elucubrazioni. Osservò Kate con i suoi profondi occhi marroni, in attesa. Che attendesse un ulteriore sfogo da parte della ragazza o che le prime lacrime cominciassero a scorrere sul suo viso non fu chiaro.
Quando ciò avvenne, quando Kate cominciò a piangere, Alex agì.
Si avvicinò di un passo e con un dito tentò di asciugare le lacrime della ragazza, ma Kate non sembrò intenzionata a lasciarsi toccare. Con un gesto veloce scostò il volto dal lato opposto, chiudendo saldamente gli occhi.
Un secondo dopo, il verde smeraldo delle sue pupille tornò a brillare, incrociandosi con quelle del giovane.
“Mi dispiace” le sussurrò Alex guardandola dritta negli occhi, con uno sguardo che Kate mai avrebbe pensato di vedere, almeno sul suo volto. Non era quello stupido sorriso, non erano gli occhi di ghiaccio che erano stati riservati a Will. E nemmeno erano quelli colmi di rabbia che gli aveva mostrato dopo aver colpito il suo sfortunato accompagnatore.
I suoi erano occhi sinceri.
E mentre Kate cominciò a domandarsi chi era realmente Alex Gregory non riuscì a impedirgli di intrecciare le loro labbra.

Kate stava correndo. Il fiato era affannoso e ansioso, causa il terribile sforzo fisico.
Correva, e non sapeva perché; seguiva solo il suo istinto. Il terribile richiamo di mettersi in salvo, di non fermarsi per nessuna ragione.
Istinto? No, questa era paura, terrore vero. Talmente vivo nella sua mente da farle dimenticare anche il dolore ai piedi. Le sue scarpe non erano adatte per la corsa.
Attorno a lei solo la notte, ma i suoi occhi riuscirono a vedere, seppur in maniera sfocata, i cunicoli che per qualche strana ragione le furono famigliari.
E Kate correva, guardandosi indietro di tanto in tanto, costatando la presenza di una sagoma che si avvicinava ad ogni passo. Ecco il motivo per cui doveva correre.
La sagoma pronunciò il suo nome, intimandole di fermarsi, ma lei non si arrestò. La figura con il misterioso orecchino.
“Kate, aspetta”ordinò nuovamente la sagoma allungando la mano verso di lei. Il primo tentativo del suo inseguitore andò a vuoto. E Kate urlò. Disperata, affannata, terrorizzata.
E di nuovo aumentò il passo, sempre più veloce.
Infine un rumore fragoroso si udì nella notte.


Kate si risvegliò con quel rumore assordante che le rimbombava ancora nei timpani. Tutto così dannatamente reale, come se si fosse svolto concretamente davanti ai suoi occhi.
Come sempre, quando faceva questo sogno, si ridestò terrorizzata e in un lago di sudore. La paura si era nuovamente impossessata di lei; per ricordarle, quasi inconsciamente, che non poteva fuggire.
Intanto, un rumore più leggero e delicato servì a farle dimenticare gli orrori di una notte, l’ennesima, passata a scappare. Quando si girò al suo fianco, si ritrovò a fissare un bambino addormentato pacificamente.
L’espressione di Alex, infatti, dava questa impressione. L’uomo dal terribile ghigno, in realtà, pareva un bimbo intrappolato in un corpo adulto. I suoi lineamenti erano talmente distesi e placidi da farle dimenticare tutto all’istante.
Si scoprì ben presto a fissarlo, semplicemente. Ammirando il riposo del ragazzo che gli toglieva quell’aria da gradasso che aveva da sveglio. Sembrava quasi carino.
Alex, nel sonno, mugugnò qualcosa d’incomprensibile scostandosi sul fianco opposto. E mentre lo guardava Kate, si accorse del suo orecchino.
Tanto, troppo simile a quello visto in un’altra realtà.


La ragazza dai lunghi capelli castani osservò distrattamente l’orologio appeso alla parete, nell’inutile speranza che le lancette seguitassero a muoversi con maggiore velocità. Peccato che questo desiderio non fu esaudito e alla cameriera non restò altro da fare che osservare mestamente la lancetta dei secondi girare con una lentezza quasi estenuante.
“Se lo fissi non andrà più veloce” le ricordò Jane, entrando nell’area del locale dedicato al personale. Kate sbuffò, rammaricata. La collega aveva ragione, ma la consapevolezza che le aveva appena esposto non fece altro che aumentare il suo malumore. “Lo so” farfugliò infine amareggiata, “E’ solo che vorrei uscire da qui il più velocemente possibile, oggi” le rispose accomodandosi su una sedia.
Jane inarcò un sopracciglio, scrutando con attenzione l’altra, “E’ forse successo qualcosa?” s’informò, senza premurarsi di nascondere la sua preoccupazione. Kate scosse il capo, solo leggermente; poi con un altro sospiro alzò lo sguardo osservando gli occhi azzurri dell’amica, “No, ho solo una brutta sensazione” rivelò dopo un’alzata di spalle.
Ancora una volta, Jane, si limitò a fissarla turbata. Cercando di trovare un ordine preciso dei propri pensieri. Quando aprì la bocca per esprimere le conclusioni alle quali era giunta, il tintinnio del campanello d’entrata risuonò, richiamando l’attenzione di entrambe le donne.
Kate anticipò le mosse dell’altra, alzandosi. Conoscendola le avrebbe suggerito di andare ad occuparsi del cliente, cosicché si dimenticasse dell’orario e delle sue sensazioni. Tuttavia, quando aprì la porta che la separava dal locale riconobbe immediatamente la figura del nuovo venuto. Svelta richiuse la porta, osservando la collega con il terrore dipinto in volto.
Jane restò a fissare la sua strana reazione per alcuni istanti, in silenzio. “Beh? Cosa ti prende?” domandò incuriosita, alcuni istanti dopo. “E’ Alex” farfugliò la giovane evidentemente preoccupata. “E’ da giorni che lo eviti, si può sapere cos’è successo?” le domandò, ormai notevolmente interessata alla faccenda. Il suo sorriso, infatti, si dipinse di una notevole malizia.
Kate scosse il capo in maniera decisa, “N... nulla! E poi non è come pensi... è solo che... ho una sensazione” si difese, evidentemente imbarazzata. Jane sorrise, “Tu e le tue sensazioni. D’accordo, gli dirò che non ci sei, ma dopo mi devi raccontare tutto” propose ammiccando all’amica. Kate si limitò ad annuire debolmente, guardandola uscire dalla stanza.
Alex, dal canto suo, aveva fissato a lungo quella porta. Senza accomodarsi. In attesa di vedere qualcuno uscire da essa.
Quando finalmente la vide aprirsi si avvicinò alla cameriera bionda con passo pesante. “Dov’è Kate?” s’informò risoluto; lasciando intuire a Jane che quella di mandarlo via si sarebbe rivelata una missione molto ardua. “Non c’è oggi. Ha preso un giorno di ferie” rispose prontamente.
Dall’espressione del ragazzo, tuttavia, si denotò una notevole incertezza. Le parole uscite dalla bocca della cameriera non erano bastate per convincerlo. “Balle” sbraitò infine, “Sono giorni che mi dici la stessa cosa, non sono qui per farmi prendere in giro. Dov’è Kate!” urlò, corrugando notevolmente lo sguardo. Jane riuscì a sostenere gli occhi del ragazzo e la sua espressione minatoria. “Ti ho detto che non c’è. E anche se ci fosse mi sembra chiaro che ti stia evitando. Qualunque cosa le hai fatto dovresti solo vergognarti” lo aggredì verbalmente la ragazza. Alex la fissò per altri secondi, scurtandone l’espressione; “Io non le ho fatto niente. E ora levati di mezzo” s’impose scostando la giovane, strattonandola leggermente.
A grandi falcate si diresse verso la porta dietro la quale era sicuro di trovare l’altra giovane cameriera. A fermarlo fu nuovamente Jane che con tenacia gli afferrò un polso, “Questa è un’area riservata. Non puoi entrare” disse cercando di fermarlo.
Alex le rivolse uno sguardo rabbioso, si liberò della sua presa scostando la sua attenzione sulla porta. “Kate! Lo so che sei lì dentro. Puoi rintanarti dietro una porta finché vuoi, ma prima o poi dovrai uscire ed io sarò lì ad attenderti. Mi hai sentito?!” sbraitò inveendo contro l’asse di legno che li separava.
Kate, nascosta in un angolo della stanza, si tappò le orecchie; pur di non sentire ciò che stava accadendo fuori dalla porta. Chiuse gli occhi e si rannicchiò il più possibile. Nell’insana speranza di sparire completamente.
Tumulti e tafferugli seguirono ancora per diversi secondi, infine un leggero silenzio tornò a regnare. L’entrata si spalancò e Kate pregò con tutta se stessa che non fosse Alex. Ringraziò di tutto cuore quando riconobbe le mani dell’amica e collega che si posarono delicatamente sulla propria spalla.

Infine l’orologio segnava l’orario che Kate aveva atteso per tutto il giorno. L’orario di chiusura.
La giovane scostò distrattamente lo sguardo alla finestra, osservando la notte che lentamente era scesa sulla città. “Finalmente è ora di tornare a casa” costatò ad alta voce, senza essere udita da nessun altro. Aprì il suo armadietto, cominciando a togliersi quella fastidiosa divisa che aveva indossato per tutto il giorno. Via anche le scarpe da ginnastica; che sebbene fossero più comode dei tacchi che era solita indossare avevano una suola ormai logora. Doveva decidersi a cambiarle.
Quando finì di rivestirsi chiuse ermeticamente il suo armadio, afferrò la sua borsa ed uscì dallo spogliatoio.
Osservò per alcuni secondi la schiena della collega che, instancabile come sempre, era intenta a ripulire alcuni tavoli. “Jane, io vado” la salutò avviandosi verso la porta d’entrata.
L’altra alzò lo sguardo dal suo lavoro, restando a fissare l’amica per alcuni secondi. “Va bene, stai attenta tornando a casa” le raccomandò, soprattutto vista la terribile esperienza di poche ore prima.
Kate annuì, sebbene un po’ titubante, alzò la mano con l’intento di aprire la porta. Tuttavia, a pochi centimetri dal pomello ebbe un’indecisione. Come se fuori da quel luogo qualcosa la stesse aspettando.
Con non poca riluttanza uscì infine nel locale, immergendosi nella notte.
A pochi passi da lei, l’ombra si mosse.

Kate correva, ancora una volta. Correva, nonostante i tacci scomodi. L’adrenalina era il suo unico motore, ciò che le permetteva di scappare, nonostante tutto. Talmente grande era il terrore da darle la forza di superare qualsiasi dolore fisico. Ignorò, pertanto, la sensazione delle mani di qualcun altro che ancora sentiva sulla sua pelle. Viscide, sembravano ancora aggrapparsi a lei. Per questo correva, per quell’uomo che le dava la caccia, per avere ciò che lei non voleva concedergli.
E Kate correva, con l’unico scopo di trovare rifugio, in quella strada che ben conosceva, ma che la paura aveva tramutato in un luogo a lei sconosciuto. Come se le tenebre della notte non fossero sufficienti a oscurarle la vista. Anche il panico sembrava portarle via la percezione visiva.
Udì un tumulto, poi il suo nome. Urlato al vento da una voce che inconsciamente riconosceva. Nonostante ciò non riuscì a fermarsi.
E se quella non fosse davvero stata la sua voce? Se si fosse rivelato solo frutto della sua immaginazione, della sua speranza?
Ebbene sì, perché di tutte le persone che conosceva era
lui che voleva sentire. In una speranza quanto mai flebile e insensata.
“Kate, aspetta”la richiamò ancora la sagoma che la stava seguendo. Costringendola, questa volta, a voltarsi quasi per istinto.
Così facendo la prima cosa che vide fu
quell’orecchino. Le ci volle un po’, tuttavia, per riconoscerlo.
Il volto di Alex comparve dalle tenebre, facendo sussultare la ragazza; che in uno stato confusionario non accennò a fermare la sua corsa. Nemmeno quando lui cercò di afferrarla.
Dopo un primo tentativo andato a vuoto, Alex riuscì infine a prenderla, suscitando un sonoro strillo da parte di lei. In cerca di aiuto. “Calmati Kate, sono io” fu con quelle parole che la giovane sembrò calmarsi.
Poi un rumore assordante squarciò la notte. E tutto divenne rosso
.

Kate avrebbe voluto destarsi dall’incubo, purtroppo era già sveglia.

Quella sera il buio della notte si era colorato di rosso. Non solo del liquido cremisi che le aveva imbrattato capelli e vestiti, ma anche il rosso delle luci.
Le sirene della polizia e dell’ambulanza risplendevano nel cielo della notte e, per la prima volta in tutta la sua vita, Kate avrebbe di gran lunga preferito osservare le tenebre. Le stelle si nascondevano dietro quel bagliore lampeggiante, impedendo alla ragazza di guadarle. Non era una cosa che faceva spesso, quella di osservare il cielo stellato, ma ora che sentiva il bisogno di farlo sembrava che ci fosse qualcosa a impedirle di trovare rifugio per i propri pensieri.
“...right. Signorina Albright, mi sta ascoltando?” la ridestò dai suoi pensieri la voce di un uomo.
Kate scostò lo sguardo verso di lui, intento a scarabocchiare ogni sua parola su un taccuino. “Come?!” domandò spiazzata solo alcuni istanti più tardi. L’uomo in divisa sbuffò rumorosamente, “Signoria Albright, le spiacerebbe prestare più attenzione alle domande che le pongo?” s’indispettì il poliziotto, costringendo la ragazza a un leggero annuire.
“Molto bene, allora le ripeto la domanda. Ha visto chi ha sparato?” chiese l’esasperato poliziotto. Kate sembrò frugare tra i propri ricordi. Lei rammentava poco o nulla, “Will... Will Harper. Credo” farfugliò in uno stato confusionario. L’agente inarcò un sopracciglio, alzando la penna dal suo blocco dopo aver scritto parte del nome suggeritole dalla ragazza. “Crede o ne è sicura?” rincarò la dose, l’uomo evidentemente sul punto di perdere la pazienza.
Kate schiuse le labbra col chiaro intento di dire qualcosa, che tuttavia le morì in gola. “Io...” riuscì solo a farneticare. “Insomma, signorina Albright. Possibile che lei non abbia visto nulla? Eppure era presente al momento de...” “La smetta agente Duncan. Lasci stare la signorina, a lei ci penso io” intervenne un secondo uomo. Un superiore a giudicare dall’atteggiamento dell’agente. Subito sull’attenti appena si vide avvicinarsi.
Duncan si volatilizzò appena gli fu fatto cenno dal superiore che, al contrario del pretendente poliziotto, si accomodò sul marciapiede; accanto alla ragazza. Prima che Kate potesse dire nulla, l’uomo le posò sulle spalle una coperta. Porgendole in seguito anche una tazza di caffè. “Mi scuso per il mio collega, signorina Albright. Certe persone proprio non hanno tatto” brontolò il poliziotto. “Io sono l’ispettore Thomas Russell” si presentò in un secondo momento.
Kate si limitò a stringersi nella coperta appoggiando il capo sulle proprie ginocchia. Ora, che sentiva la tensione svanire cominciò a lasciar correre le lacrime dai suoi splendidi occhi smeraldo. L’ispettore restò in silenzio, ascoltando il pianto della giovane. Con delicatezza le posò una mano sulla spalla col chiaro intento di rincuorarla, “Sono sinceramente dispiaciuto, per il suo amico” le sussurrò. L’ispettore intanto osservò tristemente l’ambulanza allontanarsi, a sirene spente.

FINE



 
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