Nascita di un'ombra, [31/07/08] Cappa e Spada

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PadrEterno™
view post Posted on 27/9/2008, 20:52




Parametri

Rating

14 Anni

Tipologia

One-Shot

Lunghezza

2598 Parole, 1 Atto

Avvertimenti

  • Morte di un Carattere
  • Violenza

Genere

Drammatico

Disclaimer

Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene sono una mia creazione e appartengono solo a me.

Credits

La frase "Destino: l'autorità di un tiranno per un crimine e la scusa di uno sciocco per un fallimento." possiede tutti i diritti riservati. Autrice: Ambrose Bierce.

Caratteri

Ittõkama Musashi, Sakuragi

Note dell'autore

Traduzioni

Niten-ichi RyuLetteralmente “Due cieli, una scuola”; scuola o stile di spada.
KenjutsuLetteralmente "arte della spada".
ShojiPorta di legno e carta tipica delle case giapponesi.
SeizaPosizione in ginocchio, con i piedi sotto le cosce e gli
alluci volti verso dietro.
SenseiMaestro.
BushidoLetteralmente “Via del Guerriero”. Codice d’onore di samurai e alte caste.
BakufuGoverno militare di uno shogun.
YukataVestito informale molto simile a un kimono.
TatamiSorta di tappeto foderato che veniva usato come pavimentazione delle camere.
FutonMaterasso basso.
Nihon nukiteColpo portato con indice e medio verso gli occhi di un avversario, nel tentativo di accecarlo.
Hana wa sakuragi, hito wa bushiLetteralmente “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”. Notare la corrispondenza fra detto e nome del personaggio.

 

Introduzione


Dìo s. m. 1 Iddio, Domineddio, Ente supremo, Essere supremo, Creatore, Altissimo, Onnipotente, Padreterno, Signore, divinità, nume, essere immortale 2 (fig.) persona eccezionale, superuomo, idolo, mito.

Si tratta poi di un traguardo così difficile? Nei confronti di qualcuno forse sì, ma nei confronti dell'umanità no.

-


Era l’ultimo anno in cui il Dojo Musashi impartiva il Niten-Ichi Ryu ai ragazzi del feudo Sastuma. Anzi, per meglio dire, non avrebbe più insegnato niente, essendo il kenjutsu l’unica arte impartita dal vecchio maestro Ittõkama. In una di quelle fredde sere d’autunno, quando fuori pioviggina e il sole comincia a calare prima, maestro e allievo erano riuniti in coppia sul pianerottolo in larice antistante alla shoji di entrata del dojo. Entrambi in seiza, rivolti verso il giardinetto zen di fronte all’edificio, ormai colorato solo di tristi pennellate gialle e marroni. I pochi capelli sulla testa del sensei Ittõkama rispondevano deboli e flebili ai colpi inferti dal fievole vento che spazzava le guance rosse dei due. Il volto tranquillo del vecchio rideva disprezzo al volto serio del ragazzo.
    - Perché mi fai questo sensei?
    - Sei piccolo per capire, Sakuragi, ...
Il ragazzo era uno dei migliori allievi della scuola del vecchio maestro, e teneva più al sensei che agli insegnamenti impartiti. Raggiungeva l’eccellenza per la sua età.
    - ... che la via del bushido non si compone solo imparando dagli altri, ma soprattutto imparando da se stessi. Io non abbandono per me, ma per voi...così potete scegliere se imparare ancora da qualcuno, oppure da voi stessi.
Sakuragi, l’allievo, abbassò triste e comprensivo gli occhi, posando lo sguardo sulle venature lignee delle assi su cui poggiavano le ginocchia. Il vecchio, sebbene avesse lo sguardo alto, si accorse della movenza del capo altrui, e la replicò dopo poco, fissando il medesimo quadro.
    - Sakuragi, so di procurarti dolore, ma non posso negarmi questa scelta. Posso ancora insegnarti, come favore personale, ma questo lo devi scegliere tu... Se seguirmi, o meno.
E, detto questo, l’anziano si alzò, prima su una gamba e poi su due; aprì la porta shoji e si posizionò davanti la finestra sulla stessa parete da cui era entrato. Osservava il giardinetto, dove leggiadre gocce di leggera acqua scendevano lente, e si attaccavano a tutto come neve, creando quella atmosfera di pseudo-nebbia. Erano quelle immagini che rievocavano un senso di inadeguatezza triste e solitaria. Se l’allievo avesse voluto continuare ad apprendere da Ittõkama avrebbe varcato la soglia, ma il vecchio continuava a ripetersi che non sarebbe successo. Nello stesso istante in cui questo pensiero sfoggiava nuove domande nella mente del sensei, i suoi occhi osservavano una sagoma avviarsi lungo il giardino verso l’uscita della proprietà.
E, mentre il sole calava e le foglie caduche gialle concludevano la cornice visiva cominciata dalla pioggia, una buona dose di soddisfazione dava tregua dalla sete della mente del vecchio. Almeno così credeva: era la mente che esigeva questa visione, non il cuore. La mente.
Destino: l'autorità di un tiranno per un crimine e la scusa di uno sciocco per un fallimento.


Erano passati 9 anni da quella immagine, e ormai Ittõkama sorvolava la soglia dei 68 anni. Trascorreva l’anno 1868, l’anno del Drago in Giappone, e quel vecchio, che una volta era sensei, ora era uno dei venerabili nobili della corte di Tokugawa Yoshinobu, lo shogun che avrebbe dato il secondo nome a quell’Era, detta anche Era Edo. Yoshinobu era stato il 15° shogun del bakufu Tokugawa, ed era stato anche l’ultimo avendo abdicato la carica poco tempo prima, esattamente il 9 novembre dell’anno prima. Ittõkama si era messo al servizio dell’allora shogun all’incirca nel 1867, poiché nel 1866 si era formata l’alleanza Satcho tra Saigõ Takamori, del feudo Satsuma, e Kido Kõiu, del feudo Chõshũ, con lo scopo di sbaragliare proprio Yoshinobu. Il vecchio non riteneva giusto tutto ciò, dato che veniva tutto sotto la falsa effige di “sostenitori della causa imperiale”, e, provenendo lui stesso dal feudo Satsuma, si ritenne così colpevole da decidere di dare man forte alla resistenza dello shogunato. Per sua sfortuna Tokugawa si arrese lo stesso, anche se il vecchio continuò a sostenerlo affinché potesse rialzarsi. Grande era la sua potenza, tanto che i capi della Satcho decisero di prendere maniere sgarbate per “tagliare le erbacce”. Cominciarono ad inviare sicari nelle corti dell’ex-shogun, uccidendo parenti e pali portanti tra i suoi sudditi. Negli ultimi mesi del 1861 si sparse molto sangue per i castelli della casata, e sempre in maniera lesta. Assassinio, avvelenamento, omicidio di gruppo, fughe da parte della servitù e calo dei sostenitori. Arrivò il gennaio del 1868, e questa era definitivamente catalogabile come guerra. La guerra Bonshin. Fu la battaglia campale di Toba Fushimi a segnarne l’inizio storico, nonostante questa fosse già iniziata nell’ombra.

Ittõkama nel febbraio del 1868 era ancora fedele all’ex-shogun, e insegnava le arti marziali proprio al primo nipote del nobile. Il vecchio era ormai divenuto un venerabile: vestiva ancora il tradizionale kimono, in mezzo alla conformata occidentalità, con la testa pelata colmata da qualche simpatico e singolo capello, e la faccia rovinata da rughe d’esperienza. Aveva mani e spirito forte, e l’espressione di uno che non ha paura della morte. Fiera, e simpatica. Con quella vocetta rauca e roca impartiva i ritmi con cui colpire l’aria a pugni chiusi. E il giovane allievo sudava fierezza. Fiero d’esser allievo di tale sensei. Una di quelle sere dopo i faticosi allenamenti, quando l’allievo si lavava e si ritirava stanco nelle sue stanze, avvenne ciò che da tempo si prevedeva. Il nipote era oramai una delle prede più facili per gli aguzzini dello zio e, in prossimità delle celebrazioni della festa di famiglia, ci si sarebbe aspettato molto sicuramente un sicario ai suoi danni.
Mentre costui si ritirava nelle sue stanze, nel buio del corridoio, un suono molesto si unì allo scrosciare della pioggia all’esterno, come se si fosse aperta per pochi momenti una porta, dando quella sensazione di accentuazione del rumore. Il ragazzo si soffermò, facendo ondeggiare la gonna del suo yukata blu notte ormai umido, e poi riprese il passo, un po’ allerta. Aprì lo shoji della sua stanza e lo valicò, portandosi su uno dei morbidi tatami della sua camera. Si chinò sul futon e afferrò l’asciugamano che vi era sopra riposto, cominciando ad asciugarsi i capelli irsuti e bagnati con vigore. L’umido si trasferiva dai capelli all’asciugamano, conferendo al ragazzo un piacevole senso di freschezza. Un secondo rumore, altrettanto molesto, si levò dall’angolo destro della stanza, che era completamente immersa nel buio: era quello di un click metallico, come di una molla o di una lama che cozza sulla chiusura del fodero. Un secondo fruscio lo seguì, quando il nipote era già sull’allerta immobile: il silenzio fu rotto da un improvviso urlo, esterno alla stanza. E il ragazzo si gettò a terra istintivamente, gemendo. Una decina di spiedi gli sibilarono sopra la testa, mentre lui non pensava altro che a un modo per fuggire. Ma la paura lo inchiodava a terra, immobile, con le mani sul capo. Si sentirono alcuni passi venire dall’angolo destro verso di lui, con l’ultimo abbastanza marcato come quando si carica prima un colpo. Nel contempo, altri passi vennero dalla porta verso lui. Il nipote, in preda al panico, riusciva malapena a digrignare palpebre e denti. Ci fu un impatto sopra di esso, morbido, come di due corpi che si scontrano. In realtà, erano due gambe che si erano incontrate mezzo metro sopra il suo corpo; una mirava a colpire il ragazzo, e l’altra mirava a proteggerlo. Poi si sentì una voce, rauca e roca, probabilmente dalla persona che era venuta dall’esterno della camera.
    - Esci, nobile nipote!
Il ragazzo non ci pensò due volte, e, alzandosi di scatto a testa china, slittò con i piedi sul pavimento, sgattaiolando fuori. Ora vi erano due persone nella stanza. Quella che era sbucata dall’angolo indietreggiò, verso la parete di fondo, ed andò ad aprire una finestra. L’interno della stanza era immerso nel buio, fino a quanto i tiepidi raggi della luna non inondarono lo spazio. Ora si presentavano quasi chiaramente i due corpi. L’uno, che aveva attaccato dall’angolo il ragazzo, era di un uomo, sui vent’anni, ben rasato e con una barbetta semi-incolta. Indossava un completo in cotone nero da mandarino e dei tabi, neri anch’essi. L’altro, che aveva interagito dall’esterno, era di un vecchietto, sui 68 anni, pelato e con il viso crepato ma ben curato, che vestiva un normale yukata da casa bianco-grigio. I due si fissarono, sotto i raggi della luna che caricavano l’atmosfera di calda intimità. Il vecchio parlò, con la sua voce profonda e roca.
    - Sakuragi?
Era pregna di amara colpevolezza, di dubbiosa e infida incertezza, che voleva essere smentita il prima possibile. Una sola risposta, mossa da quella barbetta incolta attorno la bocca.
    - Si, Ittõkama-sensei.
Il vecchio fu preso da sconcerto. E proprio durante questa conscia debolezza, l’altro attaccò: bruciò il divario tra i due con pochi passi ed eseguì una spazzata al ginocchio. Il vecchio, seppur lento, ebbe buoni riflessi, e parò con il polso, eseguendo un classico gedan barai. Sakuragi mise il piede placato a terra, sbilanciò il busto all’indietro e sferrò un colpo al mento con l’altra gamba, in un’immediata reazione. Ittõkama parò con facilità anche questo. Allora il ragazzo si gettò all’attacco con una serie di pugni e colpo di lancia, con la mano a nukite; ma il sensei le parava tutte, o con l’avambraccio o deviando semplicemente con il palmo della mano. Disperato, il ragazzo sferrò un nihon nukite, nella speranza di accecare il vecchio; ma questo si abbassò, flettendo prodigiosamente le ginocchia, e vibrò un colpo dell’aquilone al ventre avversario, con il polso destro. Il giovane si sentì mancare il fiato, ed indietreggiò, per evitare di essere colpito alla sprovvista. Ittõkama si rialzò lentamente in posizione eretta, e fissò gravemente l’ex-allievo dalla sua totale statura.
    - Perché mi fai questo?
Ciò che era stato messo in questione era sottointeso, ma, fra gli sguardi severe di uno e gli ansimi di dolore dell’altro, era stato afferrato subito. Rispose il ragazzo.
    - Tu mi dissi di imparare da me stesso. Io ci provai, ma fallii. Ebbi però fortuna, perchè un altro sensei mi prese sotto la sua insegna.
In poche parole aveva recuperato la forza, e il dolore al ventre era ormai cosa da niente. Un’ultima frase si aggiunse alla risposta di Sakuragi.
    - E ora sono qui per servirlo!
Culminò la frase avventandosi di nuovo sul vecchio, stavolta con un pugno. Questi lo evitò facilmente, gli intrappolò il braccio attaccante con le sue vecchie mani forti, e lo proiettò oltre le sue spalle, con una mossa tipica del judo. Il ragazzo, subita la proiezione, si trovò addosso al muro, a testa in giù. Si raddrizzò, tastò il caldo sangue che gli dava fastidio al naso e lo controllò ai raggi bianchi della luna.
    - Disprezzo della morte e fedeltà al proprio padrone... Non l’ho scordato.
E con queste parole il ragazzo sparì nell’ombra da cui era sbucato. Il vecchio non potè che trarre un respiro, chinato sulle ginocchia, con il petto pesanti di nuove preoccupazioni. Da lì a pochi momenti sbucarono dai corridoi le guardie del palazzo, invadendo tutto come acqua in un bicchiere.

Il vecchio era nella sua stanza, quando la shoji si aprì ed entrò una figura. Ittõkama era in seiza, con la katana tra le mani. La luna illuminava benissimo la stanza, così come la faccia di Sakuragi, appena entrato. Anch’esso stringeva una katana infoderata. Erano trascorse alcune ore dalla sua incursione ai danni del nipote oramai. Silenzio. I due immobili si scrutavano per determinare i ruoli di preda e predatore. E il vecchio si accinse a parlare, grave.
    - Ti sei dimenticato una cosa...
    - Cosa?
    - Rispetto di se stessi. Il bushido che ti ho impartito era disprezzo della morte, fedeltà al padrone e controllo di sé stessi.
    - Io lo interpretò in maniera diversa.
    - No... Tu sei alla stregua di un ninja. Hai tradito il bushido. Non hai onore da far rispettare.
    - Menti... Io sono un cavaliere, fedele ai nobili della Rivoluzione.
    - Tu menti! Non sei un samurai! Ti lasci manipolare come le canne dal vento!
Il ragazzo sfoderò la katana, che brillò ai raggi della luna, sempre rimanendo impassibile ai rimproveri, eretto sull’uscio della camera. E allora rispose.
    - Ittõkama... Se non sono samurai sarò ronin, ma il bushido rimane in me.
    - Bada! Stolto... Sangue Musashi diviene pietra nelle mie vene e gli Dei dei Fujiwara mi fanno forte... Io sono il tuo sensei.
Il vecchio scattò in piedi in un attimo, sfoderando istantaneamente la spada e bruciando i 68 anni che portava sulle spalle con la velocità di un cerbiatto. Ora era un sensei che doveva raddrizzare l’allievo.
    -Io sono Ittõkama Musashi!
Sakuragi fu colto alla sprovvista dal movimento fulmineo del vecchio, e si portò subito sull’attenti.
    - Vecchio... Come mai prima sei intervenuto?
    - Solo un buon ninja inganna un buon samurai, senza lasciare tracce. La mia forza è andata compensata dall’esperienza.
Non fece in tempo a terminare la frase che il ragazzo gli fu addosso con un fendente dall’alto verso il basso. Il vecchio lo deviò facilmente a destra. Ma Sakuragi non demorse, e subito vibrò la katana verso il polpaccio del sensei. A causa della sua età e della flessibilità ormai persa, non riuscì a parare il colpo, ma colpì con forza maggiore il bicipite del ragazzo che sosteneva la spada, con la sua lama. Ora si trovavano entrambi lesi; uno con il bicipite squarciato e l’altro con il polpaccio strisciato di rosso sangue. Ancora una volta l’allievo era in caduta libera, e non fece in tempo a passare la spada da una mano all’altra che Ittõkama lo colpì in volto con l’impugnatura della sua katana, atterrandolo. E gli piombò sopra. Ora il vecchio sovrastava il giovane anche fisicamente, puntandogli la lama alla gola e bloccandogli le braccia oltre la testa con la mano libera, minacciando di staccargli la testa con un fendente.
    - Rimembra, Sakuragi, rimembra! Hana wa sakuragi, hito wa bushi!
    - Taci vecchio!
    - Guardati! Hai appreso e non sei niente! Devi forgiarti da solo per arrivare da qualche parte... Ora sei solo inutile!
    - Taci!
    - Sakuragi... Non conta tanto quanto ha appreso il corpo, ma quanto ha appreso la mente. Vinci nella sconfitta, rifugiati nel “corpo come la roccia”...
Tirò via la lama dalla gola del ragazzo e la caricò oltre le spalle. La spada sibilò in aria.
E un fendente andò a squarciare la parete di legno e carta oltre di loro con un solo colpo. Nonostante Ittõkama fosse ormai settantenne.
    - ...la spada non fa il guerriero, Sakuragi.
Con queste ultime parole addolcì l’espressione, cercando di esprimere qualche ultimo insegnamento utile al ragazzo ma questo, vedendo il vecchio distratto, si liberò dalla sua morsa, e fuggì dallo squarcio nella parete. Il vecchio si sedette, ormai esausto. E sospirò, gemendo dolore, temendo di aver fallito come aveva scoperto di aver già fatto. Purtroppo non avrebbe avuto altra vita per constatare se il suo allievo si sarebbe messo sulla retta via. Guardò fuori dalla finestra.
Ormai era quasi l’alba e aveva anche smesso di piovere. Seduto davanti alla finestra osservava la figura, che sempre più indistinta, si allontanava lungo il viale. Un deja-vu, eppure qualcosa di completamente nuovo. Già, perchè non era più lo stesso uomo.
Un caldo piacere gli spanse soddisfazione nel corpo. Ma gli rubò prima la vista e poi le forze. Crollò a terra, colpito a morte da un altro sicario della notte. Ora era un cadavere, un cadavere con il sorriso.
Destino: l'autorità di un tiranno per un crimine e la scusa di uno sciocco per un fallimento.


Questa era ormai la fine dell’Era Edo. Nel maggio del 1869, le ultime truppe dello shogunato furono sconfitte, determinando il termine della Rivoluzione Meiji e l’inizio della vera Era Meiji.



CITAZIONE
NB: I miei post sono creati per essere visualizzati con FireFox v3; l'utenza utilizzante IE potrebbe trovare imprecisioni o sbavature nella corredatura del code.

 
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