Le cronache di Illica, Fantasy-Fantascienza

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rtwfm
view post Posted on 29/9/2008, 13:28




Rating: 16 anni
Tipologia: Long Fiction
Lunghezza: Attualmente indefinito
Avvertimenti:
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Fantascienza.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Introduzione alla Storia: Un mondo si appresta a finire, il suo futuro è nelle mani del suo passato, sopravviverà solo se riuscirà a cambiarlo...
Cinque ragazzi, cinque continenti, due destini possibili, un nemico che è uno e molteplice, fra terribili creature, guerre e magia, una storia che saprà ammaliarvi...

"La luce riempiva la chiesa vuota. Il silenzio invadeva le navate sperdute. L’essenza d’incenso colmava l’assenza."



Prologo





Solo l’oceano fino a dove si perdeva lo sguardo. Non c’era altro all’orizzonte.

Zheno attendeva immobile seduto sulla spiaggia, della sabbia vorticava lentamente attorno a lui, i granelli salivano, scendevano, roteavano, talvolta, come animati da volontà propria, si radunavano formando delle figure nell’aria per pochi secondi e poi tornavano a vagare in circolo. Visi, oggetti, parole, di volta in volta si avvicendavano in quel turbine di sabbia, evocando emozioni, ricordi, pensieri.

Lentamente la figura di un veliero comparve all’orizzonte, era ciò che Zheno aspettava, il vortice si spense. Quando Zheno si alzò il veliero era già giunto in porto, era un grandioso tre alberi, sulla prua una mostruosa polena riproduceva un phamos, una delle mostruose creature che pochi anni prima erano comparse su Illica.

Zheno salì sul ponte della nave e chiese del capitano, gli indicarono un uomo canuto che esaminava alcune carte nautiche insieme ad altri membri dell’equipaggio. Attese pazientemente la fine della discussione, dopodichè gli chiese:

«Potete portarmi fino a Hydra?»

«Non imbarchiamo passeggeri»

«Posso pagare»

«Ti ho già detto che non imbarchiamo passeggeri»

«Posso anche dare una mano, so…»

«Vattene ragazzo, non ho tempo da perdere»

«Sono un mago elementale»

«Non puoi usare la magia, hai le branchie, sei un sirenide…»

In quell’istante un mozzo stava caricando un barile sul ponte. Ad un cenno di Zheno il barile esplose e il mozzo si ritrovò sotto un blocco di ghiaccio.

«Basta come dimostrazione?»

«...umh...interessante...va bene...ti porterò fino a Hydra...in cambio di qualcuno dei tuoi giochetti...spero ti accontenterai di un’amaca...e un’altra cosa...mi devi un barile di rum».



(†)



La cabina era buia, un nonnulla ad illuminarla, solo la fioca fiamma di una candela.

Gana stava lucidando uno dei suoi pugnali seduta sull’unica, sghemba sedia della cabina. Ogni tanto si fermava ad ammirarlo, era di fattura nana, lama ondulata in mithril e manico in osso intarsiato a mo’ di un ramo e due serpenti avvolti l’uno all’altro. La sua famiglia lo tramandava di generazione in generazione dai tempi in cui nelle terre delle fiamme erano i nani ad essere assoggettati agli umani e non il contrario.

Era notte fonda ormai, la fiamma si spense. Gana posò con cura il pugnale nel fodero, uscì dalla cabina, silenziosamente salì sul ponte e si appoggiò al parapetto guardando l’orizzonte. C’era una leggera brezza, non una nuvola in cielo, il mare era calmo, la luna piena si specchiava nel blu scuro dell’oceano. All’improvviso il rumore di un passo, la mano di Gana scatta prima verso il pugnale che porta al cinto, poi verso la gola della persona che si era avvicinata fermando la lama pochi millimetri prima di fendere la carne.



(†)



Un fruscio tra le foglie, il rombo di una cascata in sottofondo, un ruggito, terribile, nella notte.

Voros era a caccia. Acquattato dietro un cespuglio tendeva il suo arco, in attesa dell’istante in cui scagliare la freccia. La preda era un jackal, orride creature a metà tra una gigantesca lucertola e un canide, per la cui pelle i commercianti di Hydra farebbero qualsiasi cosa. Era lì, davanti agli occhi scarlatti di Voros, la bestia si avvicinò ad una pozza d’acqua per bere, era il momento giusto, fu un attimo e il jackal cadde a terra immobile. Voros era un elfo, un elfo albino. I candidi capelli che scendevano sul petto e sulle spalle con riflessi argentei, gli occhi rosso rubino che scintillavano al minimo luccichio, la pallida ed eterea carnagione lo facevano essere simile ad un fantasma, e così veniva chiamato dalla sua gente, Hantar, lo spettro. Tornò al suo rifugio momentaneo, una piccola e umida grotta nel folto della foresta, depose la carcassa a terra e la scuoiò scrupolosamente. Mancavano ormai poche ore all’alba, Voros si mise a dormire, il giorno dopo sarebbe dovuto partire per andare a vendere le sue pelli a Hydra.

Helyris sorse come ogni mattina, alcuni raggi filtrarono dentro la grotta svegliando Voros. L’elfo si alzò ed uscì dalla grotta con un lungo flauto tra le mani, vi soffiò dentro e dallo strumento uscì un’unica lunga nota, dopodichè rientrò per raccogliere tutte le sue cose. Passarono pochi minuti e Dharma, il loyadar di Voros, uscì dalla vegetazione. Era un animale simile ad una grossa tigre, ma senza strisce, con degli affilati denti a sciabola, molto robusto, ma agile e veloce. Udendo Dharma l’elfo uscì nuovamente per accarezzarla e la caricò con le pelli e l’arco, poi salì sul suo dorso e s’inoltrarono nella foresta.



(†)



La luce riempiva la chiesa vuota. Il silenzio invadeva le navate sperdute. L’essenza d’incenso colmava l’assenza.

Dria era inginocchiata davanti ad un altare. Le mani giunte, bisbigliava sommessamente cantilenanti preghiere. Indossava un abito di seta candido e leggero come una nuvola, i riccioli biondi le ricadevano delicati sulle spalle come una morbida cascata d’oro, gli occhi chiusi nascondevano delle iridi di un azzurro cielo talmente intenso che ci si poteva perdere dentro.

Attorno a lei il trionfo dell’architettura, una chiesa immensa, piena di stucchi dorati, mosaici, affreschi e statue. Il rito era stato appena celebrato e in meno di cinque minuti la grande folla che vi aveva partecipato era scomparsa nel nulla. L’unica anima dentro l’edificio era quella di Dria.

Dria aveva un dono. Lei Vedeva.

Vedeva cose lontane, nello spazio e nel tempo, fantasmi del passato e del futuro, storie di uomini e di mondi sconosciuti. Vedeva fin da quando aveva memoria, poteva accadere in qualsiasi momento, ogni visione narrava piccoli passi di una vita o disegnava scorci di bellissimi paesaggi. Dria teneva un diario di tutte le sue premonizioni, aveva iniziato due anni addietro con l’intento di trovare la motivazione di questo suo dono, ma fino ad ora non c’era riuscita. Quella sera cambiò tutto per lei. Quella sera sognò un ragazzo che fuggiva, un ragazzo dal braccio di metallo.
 
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rtwfm
view post Posted on 30/9/2008, 19:03





(Schegge di luce a Mezzanotte)


La falce di Nysiris era l’unica luce. Non una stella in cielo. Nell’ombra della notte un ragazzo con un arto bionico fuggiva.

Ulysses correva a perdifiato per i viali dissestati di Vecchia Caligo, dietro di lui due ghoul lo seguivano scivolando orrendamente nel buio. Imboccò un vicolo laterale, poi un altro e un altro ancora, doveva seminarli, non poteva permettersi di condurli al Rifugio, il luogo dove la Resistenza si nascondeva dopo l’inizio della Guerra dei Phami.
La guerra era iniziata circa mille anni prima quando ormai la popolazione di Illica si era abituata alla comparsa di quegli strani esseri e li lasciò condurre la loro esistenza in pace. Allora la Mente Ultima, l’essere che controlla tutti i phami decise di mettere in atto il suo piano di conquista e distruzione. In breve i phami aumentarono di numero esponenzialmente, nessun esercito, ne umano, ne elfico, ne nano, ne atlantideo potè arrestare quell’abnorme invasione e in breve rimasero solo delle piccole resistenze nelle città che un tempo erano state le più grandi. Crollata la civiltà le forze oscure di Illica uscirono allo scoperto ed il destino del mondo fu segnato per sempre…

…o forse no…

Ulysses non poteva continuare a correre ancora per molto, aveva tentato di distanziare i ghoul in ogni modo ma quegli esseri non si davano per vinti.
Rimaneva un’unica possibilità.
Si fermò e si voltò, in breve i ghoul lo raggiunsero e prepararono le loro falci. Ulysses premette un tasto sul suo arto metallico e questo, divenuto prima un unico blocco, si aprì in due rivelando al suo interno un cristallo dai riflessi abbaglianti. Alla luce di quel minerale i ghoul emisero urla agghiaccianti e in breve si dissolsero come la nebbia al mattino. Dopo di ciò l’arto bionico rimase immobile, con l’altra mano Ulysses lo richiuse, si recò al tombino più vicino, lo aprì e vi scomparì dentro richiudendo il passaggio alle sue spalle.
Attorno a lui ora c’era il buio e umido paesaggio di quella che era stata la cloaca cittadina. Ulysses si diresse rapidamente verso il Rifugio, odiava quella zona, odiava quegli stretti cunicoli, odiava la melma che gli arrivava quasi al ginocchio. In breve tempo giunse ad una grande porta in pietra divorata dal muschio, la superficie era perfettamente liscia tranne che per un’incisione nella metà superore, una clessidra alata.
«Lakrodis »
Tempo.
La porta svanì lentamente e, una volta che Ulysses ebbe oltrepassato la soglia, riapparve. Il ragazzo si trovò davanti ad una lunga scala che scendeva in profondità al termine della quale trovò due persone che si accingevano a salire gli stessi gradini.

«Ulysses! Dove eri finito? Eravamo preoccupati!»
«Scusa Doc, ho incontrato due ghoul sulla via del ritorno. Ho dovuto usare la scheggia di luce per entrare»
Doc era un’istituzione nella resistenza. Era la mente di tutto, dotato di un’intelligenza fuori dal comune era anche l’unico bio-meccanico nel raggio di chilometri. Nel Rifugio aveva allestito con mezzi di fortuna una vera e propria officina-laboratorio dove costruiva ogni sorta di macchinario potesse essere utile alla lotta contro i phami e dove studiava i pochi esemplari di cui entrava in possesso. Era un uomo alto, trasandato e distratto, con i capelli grigi in perenne disordine e la barba incolta.
«Un’altra scheggia?!? Ma tu sei pazzo! Di questo passo finiranno! Ci servono per il Traslatore!»
«Tranquilla Jinn, riguardo al traslatore non ti preoccupare, tanto non è ancora pronto e le schegge che abbiamo raccolto fino ad ora dovrebbero bastare.»
Jinn era la figlia di Doc, passava quasi tutto il suo tempo nel laboratorio, aiutando il padre nei suoi esperimenti o conducendone propri. Era una ragazza sulla ventina non molto alta, capelli mori acconciati a coda di cavallo, occhiali, labbra carnose, ma quello che colpiva di più in lei era il suo straordinario desiderio di rendere il mondo migliore, di debellare tutti i mali che lo affliggono, insomma aveva ereditato l’antico entusiasmo dei primi alchemici, dei pionieri di quella scienza poi diventata terribile eresia e ora nuova speranza.
«Già ma se continui a sprecarle così non ne rimarranno abbastanza! Ne hai consumate più di una dozzina nell’ultimo mese!»
«Ho bisogno delle schegge per far funzionare il mio braccio, lo sai. E poi…»
«Finitela voi due di battibeccare! Abbiamo del lavoro da fare! Andiamo nell’Officina»


(L’uovo di fuoco)


Ulysses e Jinn seguirono Doc attraverso un lungo corridoio scavato nella roccia, ogni tanto nella parete si apriva una biforcazione della quale non si vedeva quasi mai la fine, quelli attraverso cui si stavano muovendo erano i vecchi cunicoli dei goblin e degli Uriani, scavati secoli prima e ora abitati solo da chi desidera celarsi nell’oscurità.
Finalmente arrivarono alla fine della galleria, attraversarono la porta blindata che si trovarono di fronte ed entrarono in una stanza in cui regnava lo scompiglio più totale. Macchinari, provette, fogli, schemi, parti metalliche erano sparsi secondo la legge del caos. Appoggiati alle pareti laterali due enormi tavoli, l’uno ricoperto da ogni sorta di vetreria e da campioni di quella che doveva essere stata materia vivente, l’altro invaso da antichi tomi, rotoli, pergamene. Nella parete di fronte, in un angolo un pannello blindato conteneva le schegge di luce, Ulysses lo aprì e sostituì il cristallo dentro il suo braccio con uno nuovo.
La differenza tra i due cristalli era lampante, quello consumato sembrava ormai un comune pezzo di vetro, l’altro invece emetteva una luce calda, che trasmetteva come un senso di conforto. Inserito il cristallo nello spazio apposito il braccio meccanico riprese a funzionare, muovendosi al solo pensiero di Ulysses.

«Allora Ulysses, sei riuscito a procurarti quello che ti avevo chiesto?»
«E’ stato un po’ complicato, ma credo di averlo trovato.»

Ulysses aprì la sacca che portava sulle spalle e ne estrasse un oggetto, avvolto in un panno, poco più piccolo della testa di un uomo. Era un uovo dello stesso colore del fuoco, ed esattamente come il fuoco ardeva, nel senso letterale della parola. Il guscio era caldo, se non bollente, e avvicinando l’orecchio si poteva sentire qualcosa come un crepitio di fiamme provenire dall’interno. Doc rimase allibito, estrasse dalla baraonda dell’officina un gran numero di strumenti e si mise a eseguire ogni tipo di misurazioni gli passassero per la testa. Jinn si avvicinò, si appoggiò con entrambe le mani alla scrivania e rimase a lungo in quella posizione a studiare l’uovo scrutandone ogni sua sfumatura, ogni suo più piccolo dettaglio.

«Allora Doc? Che mi dici a proposito di quest’uovo? E’ quello che cercavi, no?»
«…»
«Doc?»
«…»
«DOC???»
«…uh?...ah!...sì…scusa…sì, volevo proprio quest’uovo…»
«Esattamente cos’è?»
«…»
«Doc?»
«…»
«Come non detto…Jinn…cosa sai dirmi tu sull’uovo?»
«…lascia stare mio padre…quando è preso dal lavoro non si accorge di nient’altro…comunque credo che sia un uovo di fenice…e sembra attivo…»
«Una fenice? Ma non si sono estinte?»
«Beh…de facto si…dopo la distruzione dei loro nidi a Tapa Ognis abbiamo creduto che fosse arrivata la loro fine, ma a quanto pare almeno un esemplare è sopravvissuto»
«Sai quando si schiuderà?»
«No, non so dire nemmeno se si schiuderà»
«Ma hai detto che era attivo, che volevi dire allora?»
«Vedi, le fenici sono animali molto particolari, anche aldilà della loro semi-immortalità, tra le tante stranezze per esempio le loro uova non si schiudono se non trovano particolari condizioni come caldo secco e luce intensa»
«E non potete simulare in laboratorio l’ambiente adatto alla schiusa?»
«Non è così semplice, fino ad ora nessuno è stato in grado di far nascere una fenice fuori dal suo nido»
Ulysses si ritrovò a fissare l’uovo, poi ad un tratto sentì un canto idilliaco, una melodia che sapeva d’antico, gli si chiusero gli occhi, gli parve un sogno, vide l’uovo risplendere di luce e poi esplodere con un fragore immenso bruciando fogli, rompendo provette, spaccando il tavolo. Poi aprì gli occhi, l’uovo era ancora al suo posto, ogni provetta, ogni pergamena era in perfetto disordine, tutto era come se non fosse successo nulla.
Si guardò attorno stranito, Jinn era ancora lì accanto a lui, lo guardava preoccupata, disse:
«Stai bene? Sembra che hai visto un fantasma»
«Tu non hai visto niente?»
«No, cosa avrei dovuto vedere?»
«L’uovo! …brillava e poi è esploso…e tutto è saltato in aria…»
«Dai, non scherzare»
«Non sto scherzando! L’ho visto con i miei occhi!»
«Sei solo stanco, ogni tanto i ghoul fanno questo effetto, vai a dormire, domani mattina ti sentirai meglio»
«…si…forse hai ragione…’notte…»

Ulysses uscì dall’Officina che ancora non riusciva a credere ai suoi occhi, aveva ancora in mente il fuoco che divampava, tutto era ancora così nitido nei suoi pensieri, non riusciva proprio a staccarsi dalle immagini che aveva visto poco prima.

(†)

Il Rifugio era articolato su cinque piani sotterranei, il più profondo era adibito a magazzino per le scorte alimentari, al quarto piano erano stati allestiti i vivai e gli allevamenti che fornivano i viveri alla Resistenza, al quarto vi erano le abitazioni, i dormitori, le sale comuni, al terzo i campi di allenamento e una piccola infermeria, al secondo piano erano state allestite alcune trappole per i visitatori inaspettati e infine il primo era quasi completamente disabitato, vi era solo l’Officina.
Ulysses scese al quarto livello e si scoprì tra la gente. Donne, uomini e bambini gironzolavano ancora per le camere sotterranee nonostante l’ora tarda, del resto sottoterra il giorno e la notte diventano un’unica cosa. Al suo passaggio molti si giravano a guardarlo, i bambini gridavano il suo nome, altri rimanevano indifferenti, ma da tutti era considerato uno degli eroi della Resistenza per le sue incursioni al limite dell’impossibile.
Percorse rapidamente il corridoio principale e si ritrovò davanti alla porta della sua stanza, pigramente la aprì e si lasciò cadere sul letto.
 
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