1990, [11/09/08] Behind the frame

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flyvy
view post Posted on 7/10/2008, 08:32




Rating: 14 anni
Tipologia: Long Fiction
Lunghezza: numero parole 7818, pagine 14
Avvertimenti:nessuno in particolare
Genere: Romantico, Triste, Drammatico, Introspettivo, Fantasy.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Note dell'Autore: La maggior parte dei nomi scelti appartengono a città o regioni scandinave (eh eh, stramberie).
Metto qui il link dell’immagine scelta se qualcuno volesse consultarla. Buona lettura

http://fc06.deviantart.com/fs23/f/2008/023...by_leventep.jpg


1990

Poiché le alte finestre erano spalancate alla giornata di sole e al suo sublime calore, il salone color aragosta era illuminato da una luce ampia e leggera, paragonabile a quella che si riflette sulle cascate rendendole brillanti e cristalline nelle mattine di primavera.
Essa si diffondeva sui muri con fare elegante, allargandosi e distendendosi come se non avesse misura sul soffitto e sulle pareti e sopra il pavimento perlaceo, come in un lungo tappeto di denti di leone sbocciati.
La rifrazione al di sopra della perfetta bellezza delle forme era un’intuizione favolosa per l’occhio, per quello abituato al classico incanto del colore della luce...

Quell’estatico bagliore si posava sul suo viso amalgamando ogni elemento, lei, invece, se ne stava con le palpebre socchiuse ed inondate di sole a lasciarsi riscaldare.
Teneva le dita timidamente appoggiate alle ginocchia, esitanti nel trovarsi separate le une dalle altre, intensamente bianche e lattee come quelle di una principessa, ma agitava la testa ogni tanto per ascoltare il rumore degli orecchini che diffondevano i loro riflessi neri sulla pelle del divano.
Bastò una mano passata sul naso, un segno di stanchezza, e tutto ritornò infine come prima.
-Dove hai preso quella roba?-
-Uhm?- pensò. Le parve strano che una voce parlasse lì dove di solito regnava il silenzio.
Si ridestò un momento e guardò indietro la madre che asciugava una teglia, affacciata oltre la porta del salone con i suoi occhi pesanti.
-Dove hai preso tutte quelle foto?-
-Erano in soffitta- rispose Laura con un sorriso raggiante, quasi spaventoso per sua madre che la guardava.
-Ahm...d’accordo...vedi di riportarle là quando finisci-
-Mamma...non mi hai ancora detto cos’è successo dopo che hai cominciato a lavorare al negozio della signora Parini-
-Mamma! Mamma!- la richiamò.
La signora ripeté la sua marcia verso il salone, dal quale si era allontanata, sporgendosi oltre la porta; infine si lasciò andare in un’espressione di disappunto asciugandosi frettolosamente le mani con un panno.
-D’accordo...Vuoi sapere cos’è successo dopo?!...Vorrà dire che te lo racconterò-
Si slacciò il grembiule, lo gettò sul divano e si accomodò accanto alla figlia, assumendo un tono più dolce ed evocativo.
-Bene...dopo che cominciai a lavorare al negozio della signora Parini, sebbene non smettessi di partecipare a concorsi su concorsi per riuscire a spendere la mia laurea in qualche modo, arrivò il 1990-
Scandiva bene le sillabe che componevano quella data, fornendole una solennità, una gravità, una drammaticità, che Laura non riusciva bene a decodificare.
Avrebbe potuto dire 1989, 1950, 1977, ma nessuno di quegli anni avrebbe avuto il suono spaventoso di 1990. Mille, novecento, novanta.
-Cos’accadde nel 1990?-
-Oh piccola...nascesti tu!- esclamò, con un sorriso ben fatto, assai vivo, che raramente vedeva sul suo volto.
Poi si girò dall’altra parte come una donna ferita, che accetta per amore il male inferto da un amante, ma che così implora, sempre per amore, che il dolore le venga risparmiato.
-E poi...beh...fu un anno particolarmente difficile per noi. L’azienda presso cui lavorava tuo padre ha chiuso i battenti e io non avevo uno stipendio necessario per poter sostenere il peso di una famiglia...c’era tuo fratello, ancora bambino, e tu che eri appena nata. Ci siamo ritrovati persi...dopo tutti i sacrifici fatti, per costruire dal nulla, una vita decente...tutto ci crollava addosso così...capisci?-
-E come avete risolto?-
-Abbiamo resistito...tuo padre non ha potuto più trovare un lavoro degno del primo...non c’erano aziende dello stesso tipo nel raggio di...regioni e regioni! Ha lavorato un po’ per il comune, che aveva presso di sé un po’ di disoccupati...ma non era di certo niente di che...prima faceva un lavoro che gli piaceva e lo pagavano bene...era il più esperto tra i suoi colleghi...- rimase un attimo in silenzio, ancora pensando.
-Cos’è successo ancora?-
-Oh beh...quando sei nata tu, in ospedale, la nonna è caduta e si è rotta il femore-
-Quando sono nata io?!-
-Sì, il giorno dopo la tua nascita stava badando a te, visto che io non potevo, ed è scivolata su una pozza d’acqua inavvertitamente lasciata nel corridoio-
-E si è rotta il femore?-
-Sì, non è una cosa strana. Accade spesso tra gli anziani...però la rottura del femore è sempre inizio di un lungo travaglio. Difatti dopo quell’avvenimento la nonna è stata colpita da diversi altri problemi, fino a che non è morta, come sai...-
-Sì, lo so- ripeté a testa bassa, quasi percependo su di sé il peso di quella responsabilità.
-Ti voleva molto bene la nonna...te lo ricordi? Ti portava sempre nella sua casa di campagna e voleva che ti lasciassi estati intere con lei...ti preparava da mangiare, ti pettinava i capelli...e credo si sia accorta anche lei, prima e dopo la sua lunga degenza, che in realtà tu non eri altro che una sua piccola copia...una traccia di sé che avrebbe resistito alla malattia...-
-Ricordo qualcosa- disse, con lo stesso tono di prima e l’espressione rotta da qualche muscolo contratto.
Il salone era grande e ricolmo di oggetti, ognuno di questi si apriva uno spazio slargando sempre di più l’orizzonte tra le pareti, ma rubando ciascuno una quantità d’aria per sé. Le pareti effettive si facevano assai più anguste, in una gabbia ridotta e custode del suo malessere.
-Dopo che la nonna ebbe quell’incidente fu necessario operarla. Sua madre, la tua bisnonna, fu talmente in ansia per lei che il cuore non le resse più...dovemmo affrontare persino quest’altra tragedia...accettandola così per come c’è arrivata...nella sua insensatezza e sconvolgente...stupidità...Eppure era una donna che scoppiava di salute!-
-È così strano...- commentò.
-Era stato sentire le voci dei suoi compaesani che si divertivano ad amplificare il problema della nonna dicendo che avrebbero dovuto amputarle la gamba e roba simile. Ma non era vero! Con una protesi riuscì ad arginare il problema abbastanza bene...ma come sai, fu il resto dell’organismo a cedere a poco a poco-

-...Altro?-
-No beh...potrei dirti che dopo, quando vi fu il processo per stabilire un qualche risarcimento che l’ospedale doveva per quella mancanza, la signora che avrebbe dovuto testimoniare, sempre una compaesana, si rifiutò di dire la verità ed affermò che la nonna non era caduta a causa dell’acqua lasciata sul pavimento ma per altre motivazioni indipendenti...-
-Non la risarcirono?!-
-No, purtroppo...Nemmeno una lira-
Una nuvola per un momento velò la luce.
-Infine poi ci fu il mio...di problema- ammise, quasi non volesse farlo.
-Il tuo?-
-Sì...il mio-
-E quale fu?-
La madre si alzò in piedi mostrando il suo corpo esile.
-Forse è meglio che non lo racconti cara...però- e si legò il grembiule -ti dirò semplicemente, con la gioia più grande che una madre può avere parlando di sua figlia, che ti ho partorito a rischio della mia stessa vita e che, per quanto mi avessero detto che non avrei potuto, dopo tuo fratello, avere altri figli, e per quanto insistessero nel convincermi che era pericolosissimo portarti alla luce, io non ho mai dubitato un attimo della volontà di farti nascere ed averti con me-
-...-
Un nodo alla gola le impediva di parlare. Qualcosa di diverso dal solito motivo per cui, anche chiacchierando, si arrivava a non dire nulla.
I loro occhi erano inumiditi e disciolti in un’espressione grigia; il viso piegato da un tale ricordo così viscerale e profondo appariva per una colmo di soddisfazione e gratitudine, per l’altra di un’anonima angoscia riposta di lato, che respirava pianissimo. La cosa stupefacente non era tanto rievocare e rivivere un momento particolare ed intenso, quando commuoversi, l’una di fronte all’altra, come se non vi fosse vergogna nel farlo.
-Questo ha provocato in me dei grossi, tutt’ora esistenti, problemi di salute...ma lo rifarei ancora, senza ombra di dubbio, se mi permettessero di rivivere quel momento. Perfettamente per come l’ho vissuto allora, senza sicurezza sull’esito, così stupendo, che ebbe poi-
Il suo sorriso era strabiliante, leggero, umano ed infinitamente materno.
-Mi raccomando- disse dolcemente, facendola scuotere e tremare -porta quelle foto in soffitta, quando hai finito-.


...

Il selciato era lento come un piccolo fiume torbido e il piede vi scivolava sopra con facilità disarmante. I lacci si spostavano a destra e a sinistra accarezzando la pelle della scarpa, ma non osavano compiere altro movimento che non fosse più limitato di quello.
Andava e sfuggiva via, con gravoso e costante fluire, il passo del mocassino nero.
Anche il ricordo del 1990 aveva un non so che di definito e rimescolato nella sua mente, gli eventi venivano ripercorsi come nel nastro di una musicassetta ripescata per caso e girati poi dall’altro lato per essere riascoltati ancora, angoscianti e profondamente spinosi per come li aveva sempre immaginati.
Cosa significava nascere in mezzo a tutte quelle disgrazie se non peggiorare la situazione? Generare da sé, ancor prima di capire, un male fin troppo pesante e impossibile da scontare?
-Ehilà...hai forse qualcosa da darmi?-
La mente conosceva gli angoli bui che circondavano la strada, ma gli occhi si spalancarono lo stesso quando furono attirati nella direzione in cui la voce li aveva, per riflesso incondizionato, risucchiati.
-Non avere paura...io elemosino solo denaro. Che c’è di male...anche sotto la pioggia...- un lieve colpo di tosse -Tutti dovremmo elemosinare qualcosa da qualcuno...un po’ di conoscenza, ad esempio-
Fece dei passi frettolosi per allontanarsi dai vestiti sudici, i sandali aperti e l’alluce sporgente dalla suola strappata.
-Aspetta aspetta! Guarda come corri!-
Si rivoltò indietro inquietata da quello sguardo vivo, il sorriso quasi sadico, ma non smise di sgambettare in fretta.
-Ti racconto una storia e mi dai un euro! Potrebbe servirti! Potrebbe servirti!-
Un’altra rapida occhiata sul ciondolo appeso al collo, sui leggeri pettorali bagnati di pioggia, e sul cartone sopra al marciapiede, accanto ai gomiti, scritto da una bella grafia ma slavato dall’acqua.
-Adoravano il cielo- cominciò il vagabondo, sebbene Laura avesse svoltato l’angolo lasciando la strada deserta e le canalette ricolme di fanghiglia corrente -Adoravano il cielo gli abitanti di un piccolo paese nell’est-...

Adoravano il cielo gli abitanti di un piccolo paese nell’est; scendevano sul terriccio della piazza e sollevavano le braccia alle nuvole, “Oh dea, proteggi le nostre vite, rigenera i nostri campi, aumenta i nostri armenti!”, mentre velocemente la volta cambiava il suo colore in un piombo scuro, ardesia e metallo, che annunciava in breve una tempesta imminente.
A volte una colorazione rossastra ricopriva la luna annebbiandola da un lato e la terra si scuoteva in previsione di un fiotto di lava pronto a incombere lungo il pendio della montagna.
“Oh dea, proteggi le nostre vite!” dicevano insistentemente, per godere di quei pochi giorni in cui le nuvole erano piccole e disseminate sul cielo azzurro e i ruscelli scorrevano pacati dentro alle linee guida dei loro percorsi.
Come se non bastasse si caricavano gli alberi, si moltiplicavano le pecore, si maturavano insieme sia l’uva sia le ciliegie e si faceva raccolta per tre mesi buoni per lo meno, tanto da sfamare tutti gli abitanti e rimpinguare le casse della comunità con la vendita dei prodotti più gustosi dell’intera regione.
“Oh dea, proteggi le nostre vite!” gridavano al cielo...
Presto l’urlo ripiombava giù, dato che non si allontanava di molto, e sprofondava nelle acque della fontana al centro della città, sul marmo scavato sul quale era seduta invincibile la dea irata, sopra due o tre figure ammantate dal muschio.
Avriel allungò il braccio scostando la manica leggera della veste e puntò la sua arma, una roncola da guerra con magici poteri, contro uno di quelli che sotto l’imminente temporale invocava rozzamente il suo nome.
“Dalarna ti fulmina...stupido, guardi al cielo mentre io sono qui!” disse rabbiosamente. “Continuate tutti ad invocarmi ma insultate il mio nome! Io sono qui, sempre più vicina, e provoco io la morte che volete scansare!”.
Gli uomini cadevano colpiti l’uno dopo l’altro, piegando per prime le braccia che issavano nella speranza di una salvezza, e starnazzavano al suolo martoriati dal fulmine che li attraversava bruciando nelle urla, che si facevano spazio al posto delle preghiere.
Ascoltando i boati dei tuoni, mentre la voce degli uomini si riduceva completamente, Avreil si volse a guardare dall’altra parte, riscoprendo a poco a poco, mentre l’immagine del suo viso si rispecchiava sull’acqua plumbea della fontana, una certa e breve ragionevolezza dentro al suo cuore.
Era proibito guardare una dea. Se anche fosse stato possibile nessuno avrebbe potuto vederla con occhi mortali, neanche l’uomo più sensibile avrebbe capito che l’energia vitale della sorgente apparteneva alla loro protettrice.
Gli uomini erano stolti, infimi, luridi al suo cospetto e rivoltanti; imprigionati nelle sporche passioni, nei bisogni dell’ingozzarsi e del soddisfarsi con l’amore, non potevano capire la superiorità divina che era al di sopra -poverini- della loro portata.
Doveva essere buona e clemente con loro, abbassare Dalarna fino a farle sfiorare l’acqua della fontana ed interrompere qualsiasi cataclisma che avrebbe reso ancor più irrisorio lo spessore della vita che andavano annaspando di qua e di là inutilmente.
Le toccava esser materna e benefattrice con quelle creature rozze, pur sempre inconsapevoli, prive di colpa e rese sofferenti dal destino; eterna produttrice di fecondità e ricchezza, non capricciosa e vanesia, non volitiva, non cieca.
Venti, tempeste, inondazioni cessarono d’un tratto anche quella volta, forse persino prima del solito, provocando nei cittadini un moto di gioia che si tradusse velocemente in canti, balli, esaltazioni e ringraziamenti alla dea.
Per non soffrirne infastidita rimase ad occhi chiusi e con la testa leggermente voltata in alto, conchiusa nella sua perfezione interiore e nel tentativo di estraniarsi da quella felicità che la irritava nuovamente e non poco.
Bastò un lieve rumore, come quello dell’acqua della fontana scossa, che sussultò sul marmo ritraendosi offesa.
Un uomo era chino per bere, un uomo dai lunghi capelli neri gettati sulla superficie dell’acqua. La terra intorno era colma di mille pozzanghere sparse qua e là e, tra queste, un bambino aspettava reggendo un panno nelle piccole mani.
Avreil continuava ad osservarlo con le spalle ritratte in attesa che l’uomo facesse qualcosa, ma le provocava soltanto un’immensa ira il fatto che con molto indugio continuasse a bere tranquillamente alla fonte divina, bagnandosi direttamente la bocca.
Richiamò a sé tutti i motivi per cui gli umani non avrebbero dovuto essere torturati dal suo potere, ma puntò Dalarna contro lo straniero ignorando ben presto le ragioni di bontà e protezione: in quello stesso attimo egli ritrasse il viso mostrando due occhi vivi e neri che la guardavano dritto dritto in mezzo alla profondità dello sguardo.
-Nessuno può permettersi di guardarmi in questo modo...- tartagliò tra i denti lei, scrutando la casualità di quello scambio di occhiate con evidente fastidio.
-La vostra dea è qui, perdiana!- incalzò tuttavia lui dall’altro lato, come se si trattasse di una, per quanto impossibile, risposta.
L’uomo allungò una mano verso il bambino ed afferrò il panno, poi sorrise a quello sguardo che si era spalancato ad una simile esclamazione tanto ricca di provocazione e intrisa di tracotanza.
-Dove-
-Chi è-
-Ma che dice-
-Dea! Dea!- cominciarono le voci da ogni lato: qualcuna piena di entusiasmo, qualcun’altra ripetendo il suo disappunto, tutte mischiandosi e contorcendosi con il resto della caciara.
-Tu puoi vedermi! Stupido mortale!- esclamò a quel punto la dea.
-Ha lunghi capelli biondi...e forse un po’ sporchi!-
-Come osi!-
-Ah ah ah...l’immaginavo più bella!-
-Morirai!- minacciò pervasa dalla rabbia.
Le bastò un attimo per puntare Dalarna contro di lui e mettere su un filo la sua vita mortale, ma egli con un balzo si fece indietro parando il colpo della roncola con uno spadone intarsiato di rosso.
Nessuno mai aveva resistito ad un attacco della sua arma, né, dopo di questo, aveva continuato ad avere sul volto un sorriso tanto brillante e sicuro.
-Tu...un mortale...resistere ad un mio attacco!-
-Sundsvall è lo spadone a due mani più temuto del mondo intero, non si piegherebbe mai ad una forza divina tanto scialba e inconsistente...per di più di fronte ad una femmina!-
-Ma come...- e strinse il pugno, concentrando la rabbia e schiacciando la stizza -Ti farò pentire di quello che dici...- ringhiò tra i denti, camminando minacciosamente contro di lui e puntando Dalarna contro Sundsvall -Hai rubato quest’arma a un dio, vero?! Chi mai di nascita mortale potrebbe maneggiare uno spadone così potente da resistere a me e alla mia Dalarna?! Dimmi il tuo nome, così che io possa sotterrarlo sotto le coltri più pesanti e virulente della feccia su cui sei nato!-
-Vaust, è il mio nome...e sono l’unico tra i mortali che può sfidare gli dei-
Avriel si avanzò verso di lui sfoggiando stavolta un sorriso sottile, che aveva a poco a poco messo da parte l’immediatezza della rabbia.
-Nessuno può permettersi di sfidare gli dei- tagliò corto in maniera risoluta “qui inizia la tua persecuzione”.


Il senso delle cose è labile, istantaneo ed immediato per la mente.
L’occhio lo intuisce correre sopra al campo di grano ancora verde, nell’ammasso di salsedine che pare offuscare la vista, insieme alla scia lasciata tra l’erba dal corpo mortale di Vaust.
I suoi colpi di spada sono precisi e attenti a Dalarna, le gambe corrono all’indietro scattando come ruote di treno a vapore e l’espressione, seppur seria, ha un non so che di perso e grandioso.
Mentre Avriel lo insegue volando, i suoi capelli neri si spostano qua e là e i muscoli sfoggiano tutta quella potenza che non vacilla e crolla nemmeno di fronte ad un dio.
La dea impazza, la sua superiorità è implicita e tuttavia mai efficace.
Parrebbe che ogni loro movimento sia guidato da una foga intuibile tra due nemici, dall’incalzare dell’ uno e dal districarsi dell’altro, ma in realtà i gesti che li legano sembrano fluidi e modellati, guidati da un non so che di soprannaturale che si disperde nell’alone etereo che li avvolge.
Le armi sbattono le une sulle altre come onde che si riversano sulla spiaggia e roteano senza creare alcun rumore nelle mani dei loro possessori rubandone la natura propria.
Le gemme rosse luccicano, le magie divine generano una pacata luce e il giorno assai velocemente tramonta.
-Vuah- si lasciò sfuggire la dea voltandosi appena, sferrando un colpo vuoto nell’aria per scacciare al contempo la fatica del lungo combattimento e restare ancora ricolma di orgoglio.
I suoi piedi erano saldi ed incollati al terreno mentre il corpo di Vaust rotolava di giocosa stanchezza sull’erba del prato.
Immaginava che quando si sarebbe fermato ad osservare a braccia distese il cielo arrossato ed inscurito che si volgeva alla notte, con la sua arma infernale accanto, avrebbe dimostrato con ogni mezzo possibile -gli occhi, la bocca, la pelle- l’entusiasmo di chi resiste nel suo proposito, umilia una dea altezzosa e si eleva al di sopra di tutto.
“Stupido mortale”, pensò.
L’ultimo giro attorno alla braccia lo fece più lentamente, aprendo poi il petto all’umidità con fare dimesso e uno sbuffo leggero. Sul suo volto, ecco, non c’era l’ombra di un sorriso.
-Ti lascerò riposare straniero. Torneremo a combattere molto presto vedrai-
-Non mi tirerò certo indietro- disse nel brontolio dello stomaco, senza neppure guardarla.
-Bene, allora prega per questi ultimi momenti...gli dei ti hanno dato la vita e gli dei te la ruberanno di nuovo-
Bastò lo svolazzo di una veste bianca ormai familiare e l’intervento di una leggera luce a segnare il suo allontanamento da quel luogo, ma un forte boato costrinse Vaust a sollevarsi allarmato sulle braccia, allungare la mano verso Sundsvall e voltarsi indietro.
Il silenzio era piombato sulla notte che cadeva prossima, l’erba si era piegata al vento che strisciava intimando alle cose di non fiatare e un’immensa pace si era adagiata sul sonno che arrivava.
Un piatto di cibo fumante era stato lasciato, senza troppe spiegazioni, poco distante da lui.

***

Emerse dall’aria e appoggiò i piedi sull’erba, cadendo elegantemente dallo squarcio apertosi per trasportarla lì, dove -tra i rumori che conosceva alle perfezione- senza avvertire alcun peso gravare sulla mente, e percepire invece la forte convinzione che solo l’abitudine sa dare, aveva preso a spendere il suo tempo eterno.
Il masso su cui Vaust era seduto era poco distante da lei, posto solo in mezzo ad una landa verde e rigogliosa, che era stata numerose volte teatro dei loro combattimenti e ora luccicava sotto il sole generoso della primavera.
Il guerriero era fermo in posizione d’attesa con una gamba distesa sopra la roccia ed una piegata per sorreggere il braccio; sosteneva il collo dritto e gli occhi ben fissi su di lei che si avvicinava.
-Cosa aspetti a...-
Vaust la interruppe con un gesto della mano, protese il braccio in avanti e distese il dito indice come se volesse dire prima qualcosa lui stesso.
La fece zittire sorpresa, catturando la sua attenzione sopra il proprio viso divertito, compreso di un’espressione trasfigurata da una smorfia falsamente seria e, ora che vi faceva più caso, assai derisoria.
-Dove hai trovato quell’arma da quattro soldi?- proruppe infine, facendola andare su tutte le furie.
Avriel impiegò qualche secondo per raccogliere la voce nella gabbia toracica e riuscire ad aprire gli occhi senza fulminarlo.
-Non osare più insultare la mia Dalarna! Insultare la mia arma è come insultare me!- urlò -Dovresti saperlo anche tu, che per un guerriero la propria arma è come la propria anima!
Ora sguaina la tua spada...e combatti!-
Vaust rimase con il collo leggermente piegato indietro, il respiro rallentato dalla vicinanza della lama di Dalarna vicino alla gola e lo stesso sorriso scherzoso, stavolta anche soddisfatto, adagiato sul volto.
Si mise in piedi sapendo che Avriel avrebbe ritirato la roncola almeno quel tanto che era necessario per non sgozzarlo e camminò verso di lei fino a che non la costrinse a riporre l’arma completamente. Le fu accanto dopo qualche passo, rendendosi assai enigmatico ma apparendo estremamente leggero con quella sua espressione lieta, guardandola poi con il movimento di un solo occhio.
-Non credo che potrò combattere-
Avriel sbottò subito in una esclamazione offesa.
-E per quale motivo!-
-Avevo una promessa da rispettare- rispose laconico.
-Te ne andrai?- deglutì -Senza nemmeno sfidarmi un’ultima...volta?!-
-A causa di qualche stupido viaggio, immagino...- aggiunse poi rabbiosamente tra i denti, tra sé e sé.
-Ho solo comprato un biglietto della rotta navale del Nord a Ribad-
-Il bambino che ti seguiva- si sentì puntualizzare.
-Al giorno d’oggi costa caro raggiungere oltreoceano i tuoi genitori che ti hanno abbandonato da piccolo-
Vaust fece nel frattempo così tanti passi che Avriel dovette voltarsi per guardarlo.
-Lo accompagni lì! Ma che nobile proposito!- sbottò sarcastica -Eppure penso che tu possa spendere cinque minuti per combattere con me! Tanto per non incorrere nella mia ira, visto che sono venuta qui apposta. Per vendicarmi dei giorni precedenti e decretare finalmente un vincitore: me-
Vaust continuò a camminare senza fermarsi. Con un tono più limpido di quello di lei pronunciò poi qualche semplice parola.
-Non è questo- incalzò con convinzione.
-Allora cosa? Che non hai più il coraggio di sfidare gli dei?!-
-Ho venduto Sundsvall- disse.
Usò un tono talmente denso da sapere fin da subito che a quella frase non sarebbero seguite risposte, poi riprese a camminare lasciandole notare l’assenza dello stupendo spadone dietro la sua schiena tornita, che fino a quel momento non era risaltata sopra all’occhio divino della dea.
-Addio- esclamò serenamente alzando la mano destra senza voltarsi -Hai vinto tu...Io ritorno nuovamente uno straniero-


La mano aveva un fremito strano sopra la veste e lungo il fianco. Le labbra e lo sguardo non si erano minimamente mossi dalla loro posizione iniziale, né si erano allontanati dalla linea immaginaria che li collegava all’orizzonte oltre il quale Vaust era sparito, ma le dita avevano impercettibilmente espresso una sorta di increspatura.
Era il principio stesso che un’arma tanto potente potesse essere venduta a qualcuno che non ne avrebbe concepito neanche per un decimo il valore o la velocità con cui tutto questo era piombato lì, o che per la prima volta i suoi progetti divini non trovavano un’attuazione nella realtà e, ancor in precedenza, che non avesse voluto forzare il naturale con i suoi poteri per assoggettare gli eventi al proprio volere..almeno non tutti.
Strinse le dita e socchiuse gli occhi nel tentativo di aprire uno squarcio sul luogo in cui Sundsvall era custodito malamente da mani sporche, e senza rendersene conto cominciò a rompere la serenità del cielo.
Le nuvole si gonfiarono aumentando il loro volume e si prospettarono spaventose oltre i tetti delle case sempre più scure e minacciose, allarmando i cittadini.
Le bastò spostarsi sulla sua fontana e sollevare le braccia in alto per richiamare i poteri distruttivi della natura sulla sozzura allarmata che brulicava nelle piazze, dentro le case, in mezzo alle campagne.
Qualcuno di loro aveva comprato con il denaro (la più misera delle creazioni umane) qualcosa che non poteva essere venduto.
Richiamò l’acqua dei fiumi, la pioggia delle nuvole e le saette del potere divino contro le vane preghiere che gli uomini non smettevano mai di borbottare, un attimo dopo essersi spostata in un balzo tra la muffa di un bancone e la puzza della polvere, mentre le catapecchie venivano evacuate.
Sundsvall era appoggiato su un muro umido, in una casa misera e buia, tra scaffali, armadi e angoli pieni di oggetti trascurati, comprati l’uno dopo l’altro a prezzi esigui, di cui ora, ahimé, non sarebbe rimasto più nulla.
Si levò in alto, trascinando con sé lo spadone, e si ritirò sulla collina osservando da lì la fuga confusa degli uomini e l’arrivo incontrollabile dell’acqua del fiume, fatale come il sorriso irato di una dea.


La terra esalava più che un semplice odore di bagnato. Le case, quei pochi muri che erano rimasti in piedi, avevano un colore strano, assai più vivo e brillante di prima, per quanto scuro.
Faceva soffrire, agli occhi degli uomini, quanto poco fosse rimasto di ciò che avevano costruito. Non era la prima volta, non era certo il caso di perdere la speranza, ma era comunque doloroso, affezionarsi e abbandonare, sperando che un giorno forse le cose sarebbero tornate uguali.
Avriel era seduta sull’erba asciutta, dove il sole non aveva smesso di battere un momento, aveva Dalarna accanto e Sundsvall sulle ginocchia, eternamente padrone del suo sguardo sedotto.
Ora che lo stringeva in mano effettivamente non capiva perché l’avesse sottratto a quel lurido spilorcio mortale, ma ormai che il tumulto era stato scatenato era il caso di chiedersi cosa sarebbe stato meglio fare.
Rimase ad osservarlo ancora per parecchio tempo prima di trovare una soluzione.
“Sì, proprio un’altra cosa da allontanare giustamente dagli uomini” pensò, alzandosi in piedi.
“La terrò io” si disse dopo un po’, saltando nella mente qualche pensiero implicito e poco gradito alla coscienza.
Si voltò indietro ed allungò Dalarna verso la grande terrazza che sulla collina costituiva un’ampia pianura e la lasciò sospesa, radiata di una luce bianca, finché fu necessario.
Dalle fondamenta si levò a poco a poco la consistenza di un marmo levigatissimo, si innalzarono leggere delle lunghe schiere di colonne, un timpano e una cupola.
La luce pareva essere stata inglobata da quella costruzione elegante, slanciata sull’occhio che la osservava, come in un dolcissimo ingurgito, e la pietra emanava intorno, agli alberi, al cielo azzurro, una sensazione di pacatezza assoluta, di perfezione ideale, di magnifica imperturbabilità.
Stringendo le armi l’una in un palmo l’altra in un altro si introdusse nella prima stanzetta ed entrò poi attraverso una porta di legno nella sala successiva, molto più raccolta e solenne. Si inginocchiò al centro e posò su un banco, con mano timida, la sua Dalarna e l’altra pesante arma.
Sundsvall era uno spadone molto elegante; ora che lo osservava meglio poteva dire che fosse anche più di un’arma divina.
Era liscio e ricoperto da uno strato scuro suadente al tocco. Il dito lo capiva perfettamente, quando accarezzava la lama apparentemente finta, che era certo più di un’arma degli dei: era l’unione di qualcosa di umano, tremendamente umano, che si protendeva prepotentemente al cielo, ma non era né l’una né l’altra parte. Nella gemma rossa che si trovava alla base poteva cogliersi la sua essenza. Quella di un’arma demoniaca.

***

Ora so che nella tua mente dovrebbe prospettarsi una fine che possa legare insieme il destino di una dea che odia i mortali, la sorte di un uomo che sfida gli eterni e il lento degradarsi di una massa di comuni individui erosi dal tempo, il quale passa al di là delle mura costruite da Avriel nelle dita alacri di quelli che ricostruiscono al meglio la loro città, tosano le pecore, salano il formaggio e vanno a letto con le loro mogli ogni giorno più vecchie.
Tuttavia ai fini della storia che sto per raccontare e per il messaggio che voglio dare non è importante sapere quanto una donna immortale possa essere superba e impulsiva, o perché possa aver rubato un oggetto che trasuda il potere di un uomo che ha aperto una falla nella sua perfezione; non è neppure importante guardare il modo in cui tutti pregano per un domani stabile, luminoso come l’alba che sorge, e considerano ciascun momento come l’ultimo da poter assaggiare nella vita incerta che è stata loro donata.
Ma per avvicinarsi di più alla fine che giunge gravando su ognuno di noi bisogna ricordare che la dea irata attende, che il tempo trascorre al di fuori del suo universo senza lasciarle un granello di polvere, rinchiudendola in una bolla ed estraniandola da tutto, e che gli uomini ammassano un mattone su un altro, pian piano, grazie alla distrazione di lei, e innalzano cumuli d’oro. Si nascondono e strisciano per non vedere distrutte le loro fatiche, per scrollarsi di dosso il terrore della morte imminente.
Mentre il tempo scorre senza che nulla sconvolga l’ordine degli eventi tutto tende a serrarsi, a chiudersi in una morsa nel tentativo di resistere a ciò che più forte si scaglierà dopo.
E l’aria di disgrazia, infatti, aveva già disperso in giro il suo odore.


Come se una lastra immaginaria le separasse, la vita e la morte crescevano e decrescevano in un gioco spaventoso: la prima era la parte visibile agli uomini, che essi con un semplice movimento delle dita potevano tirare verso di sé ed estendere il più possibile, la seconda era quella che al di fuori del loro sguardo, in maniera diametralmente opposta, si allargava, in un sottile sorriso ironico della sorte, quanto più abusavano dell’esistenza.
Più vita avevano, più morte ricevevano in cambio.
Nel periodo in cui Avriel rimase chiusa nel suo palazzo ad osservare le armi senza mai sfiorarle, essi smisero di temere le catastrofi e le disgrazie; la lenta corruzione e la perdita di qualsiasi significato si muovevano sulla terra ingiallita dall’arsura, sotto gli occhi della dea che non se ne avvedeva e nel tacito assenso di ogni forza della natura, ormai da molto tempo completamente sopita.
Le donne spingevano gli uomini a vendere le capre per comprare i tessuti più pregiati, gli uomini andavano nelle locande a caccia di ebbrezza e lussuria; la terra era madre incestuosa di oro e d’argento e gli ortaggi perdevano il loro sapore nella bocca di chi li coglieva con le proprie mani.
I bambini schiamazzavano disprezzando i coetanei e cercavano di vincere le loro corse affossando i concorrenti; poi, come se non bastasse, ingiuriavano le case del paese e tiravano calci alla fontana infestata di zanzare.
“Avriel” ...e a quella voce sobbalzò sul seggio e cominciò a voltarsi da una parte e dall’altra.
Chi poteva chiamarla? Forse Vaust, appena tornato?
“Avriel, sono io” tuonò con voce potente qualcuno alle sue spalle.
Un’oscurità vellutata si era improvvisamente disciolta su cielo; dall’interno del palazzo l’effetto delle finestre che prendevano lo stesso colore buio delle pareti era forse anche affascinante.
Avriel si voltò alle sue spalle e guardò oltre la prima porta aperta il fascio grigio che arrivava dall’entrata e l’ombra composita, il drappo nero con spicchi e mezzelune (i riflessi opachi) debolmente illuminati, che si stendeva sopra il pavimento.
Dedicò all’uomo uno sguardo lento e timido, apparentemente quasi svogliato, accucciandosi poi nell’incavo caldo del proprio collo in attesa di sibilare una qualche risposta. Sebbene avesse guardato soltanto un’ombra appoggiata con tutto il peso ad uno stipite, quell’occhiata fuggitiva non ne necessitò una seguente.
“Non saluti più i tuoi superiori?”
“Mjosa...è un piacere vederti”.
In realtà non lo guardava: teneva gli occhi chiusi, la testa immobile in quella posizione protetta e non si voltava, però aveva impressa nella mente la sua figura incombente sulla soglia, gettata su un lato.
“Mi domandavo come mai avessi smesso di martoriare quelli che abitano la tua città...ma ora mi fa quasi ridere constatare che sia solo una questione di...amore per le armi!”
“Ho forse sbagliato qualcosa?”
Mjosa interruppe la sua risata facendo percepire distintamente la rottura del tono verso una serietà spaventosa ed opprimente.
“Il popolo ama il denaro, non te ne sei forse accorta?” la schernì “e il denaro ottenebra le loro menti...diversamente da come...devo, e sottolineo devo, fare io.
Tu capisci queste cose, no?”
Avriel allungò le dita immaginando di solleticare Dalarna, ma tenendo la mano sempre vicina al proprio grembo.
“Hanno dimenticato il significato della morte. Credono che essa non esista più, che si possa fare e disfare come ritengono più giusto. Non devo essere io a doverti dire che devi punirli. È tuo dovere”
“È mio dovere...”
“Sì, lo è”.
Le tenebre si dissolvettero rapidamente, il tempo di scuotere la testa. La figura non era più alle sue spalle e la voce non parlava più nella sua mente.
Mjosa, Re degli Dei e Dio dell’Ombra.

Aveva gli occhi semichiusi e la mente confusa dall’eterno aspettare -dall’eterno sostare cioè- e non provava nemmeno rabbia per gli uomini che aveva invece sempre odiato.
Velocemente allungò la mano verso l’arma accorgendosi in maniera intuitiva che quel gesto avrebbe spezzato un legame durato chissà quanto tempo, ma non riuscì a pensare niente di così definitivo da convincerla a ritrarre le dita.
Mjosa aveva parlato, e detto bene.
Avvolse il legno della roncola in maniera dolce, avvertendo la forza attrattiva che l’aveva sempre legata a lei, e riscoprì, in una leggera onda d’energia che la pervase, il potere di una dea, la freschezza della magia, tutto ciò che aveva dimenticato e lasciato da parte per l’amarezza incomprensibile di un distacco.
Eppure, ora, sebbene non avesse sonno, le pareva di aver chiuso gli occhi e non vedere, spaventosamente, più niente.


Il cielo era sereno, con le nuvole acconciate in forme strane, completamente disteso sopra la sua vista.
Aprì gli occhi impastati percependo un odore fortissimo di fango e qualcosa di spigoloso premere sul cranio indolenzito, ma subito non riuscì a produrre un movimento delle dita abbastanza significativo per -visto che pareva proprio che fosse distesa a terra- alzarsi in piedi.
Il vento, poi, fischiava come se stesse arrivando un freddo intenso ed una grande tempesta.
“Cos’è successo...” riuscì ad elaborare, alzandosi più o meno sulle braccia.
Si voltò intorno, scrutò lentamente ogni dettaglio, si terrorizzò.
Dalarna era riposta accanto a lei sprofondata nel fango, le case erano diroccate e distrutte come se un tifone le avesse travolte, la fontana era stata privata di qualsiasi antica bellezza, degli alberi erano rimasti soltanto scheletri neri e, come se non bastasse, alcuni corpi, grandi e piccoli, erano ributtati qua e là con le pance gonfie; morti annegati, come evidente.
Il silenzio vibrava nell’aria, tutti i colori erano vividi come se si trattasse di un incubo, dall’azzurro vastissimo e basso del cielo a quello della terra bruna estesa e gigantesca intorno.
Si alzò in piedi e si guardò in giro, correndo come un cane in una gabbia, poi si buttò sulle ginocchia accanto a Dalarna, respirando innaturalmente e tendendo a lei le dita.
“Brava! Brava! Brava!” si levò una voce in mezzo ad un applauso vigoroso “hai fatto proprio un bel lavoro!”.
Si voltò appena, tanto da poter scorgere con la coda dell’occhio il drappo scuro del vestito di Mjosa, seduto su un pezzo di marmo rimasto, e continuò a respirare in maniera intensa.
“La tua arma è diventata davvero fortissima e tu sei notevolmente migliorata...in quanto a cattiveria, soprattutto.
Era quello che meritavano, complimenti”.
Il dio scomparve, lasciandola inginocchiata e disperata sulla terra umidiccia. Gli uomini dovevano essersi ritirati in un luogo lontano -quelli che avevano potuto- ma la città era andata completamente distrutta insieme a qualche cadavere supino qui e là. A quanto pare era stata lei: lei con la sua Dalarna.
Quando si arrischiò a sollevare l’arma si stupì nettamente di sentirla leggera, leggerissima, come se fosse stata svuotata e prosciugata di qualcosa. La trasportò con sé fino al palazzo provando una certa paura. Giurava di non avere avuto coscienza di niente, che un potere superiore l’aveva usata per scatenarsi incontrastato, credeva che non fosse possibile, stando seduta per un tempo incalcolabile, aumentare la propria forza.
Boccheggiava ancora ed ansimava terrorizzata quando la fece ricadere al suo posto desiderando con tutta se stessa di non doverla toccare mai più. Avrebbe voluto un periodo felice, lasciar stare gli uomini e non ucciderli mai -perché anche prima si trattava di distruggere le loro cose ma non derubarli della loro vita- e rivivere i momenti in cui la sua natura divina era priva di superbia e capricci, cioè i suoi momenti con Vaust.
Sapeva perfettamente che aveva rubato Sundsvall per questo motivo, che osservava continuamente le armi e l’orizzonte perché lo aspettava e che non le restava altro che maledire il fatto di non poter abbandonare il perimetro di quella città e di quelle campagne per nulla al mondo, pena la dissoluzione (che noi chiameremmo...“morte”) ma non le piaceva considerarlo, era un pensiero da mettere sempre da parte.
Ancora presa dal panico le bastò un veloce e continuo movimento delle mani per realizzare un coperchio di pietra al banco, dentro il quale isolare le due armi.
Pose, con i suoi ultimi poteri -prima che questi scomparissero a causa del mancato contatto con Dalarna- un sigillo per lei stessa, perché le impedisse di distruggere la pietra e poter ancora una volta usare quell’arma spropositatamente forte e incontrollabile.
Mjosa sarebbe tornato quando gli uomini avrebbero ancora una volta dimenticato la morte e si sarebbero creduti eterni e capaci di costruire, costruire, costruire come gli dei; ovvero -dopo la disfatta recentemente subita- tra molti molti anni...sempre ammesso che l’avrebbero fatto.
A questo problema ci avrebbe pensato dopo; forse addirittura Mjosa l’avrebbe privata, per un rifiuto così giustificato, della sua natura divina e l’avrebbe finalmente liberata dal suo obbligo di vivere in quello spazio limitato, senza...ucciderla.
Sarebbe tornata una fanciulla normale, certamente estremamente giovane rispetto a Vaust, girovago per il mondo, e non avrebbe avuto neppure la facoltà di combattere contro di lui, una volta ritrovatolo dopo lunghe peregrinazioni, ma stranamente queste difficoltà non avevano importanza, soprattutto quella di non poter combattere.
Si chiedeva come mai...e smetteva subito di domandarselo.
Le armi erano nascoste, Dalarna non poteva più annebbiare la sua mente e spargere la distruzione in giro, e lei poteva solo aspettare, camminare, girovagare, rimembrando il loro aspetto.
Mjosa, tuttavia, senza presentarsi, guardava quella scena passeggiando lentamente dietro di lei, con un sorriso appagato e gli occhi consapevoli, calmi e divertiti rivolti al sarcofago.
“...la paura di uccidere e radere al suolo l’ha schiacciata a tal punto da compiere l’errore di rinchiudere quelle due armi insieme e addirittura vicine. Sarà troppo innamorata per capire che il loro potere fermenta in maniera esponenziale, l’uno accresce l’altra...e il tutto sotto uno stampo negativo, una certa...ombra.
Ah ah ah, se ne vedranno delle belle. Davvero...non me le perderei per nulla al mondo, per nulla al mondo, ah ah”.

***

Sul davanzale, tra le pietre bianche e le venature, era cresciuto un fiore.
Quando lo vide, con la sua corolla rosa, ebbe subito l’istinto di racchiuderlo tra le mani come per proteggerlo, di guardarlo attentamente per fissarlo, eternarlo con il colore, l’odore, per poter rievocarlo ogni qual volta vi fosse il desiderio -e v’era sempre- di veder comparire un fiore sul campo improduttivo della pietra.
I petali parevano di carta e lo stelo era sottile, flebile; restava leggermente piegato da quel peso esiguo flettendosi un poco. Il senso e la bellezza che quell’essere sapeva dare rapiva lo sguardo e la mente di chi lo riscaldava con il proprio respiro vitale vaporoso ed incantato.
C’era una vena di tristezza ed una di speranza, capaci di creare attorno a quel punto una barriera protettiva ed isolante.
Per questo i passi sugli scalini esterni non furono altro che battiti d’ali di farfalla; per questo, quando la porta si spalancò, non se ne avvide per il grosso rumore che si scatenò, ma per il lento oscillare del fiore; il fragore non le mise paura, ma la fece voltare con grazia e sguardo vivo, con l’indice che ancora accarezzava lievemente i petali.
La bocca di...lui...si allargava e si chiudeva percorsa da un respiro intenso; i lati erano increspati in un sorriso composto.
Teneva una mano, quella sotto la manica più gualcita, abbandonata stanca su un fianco, e l’altra, la mano bianca dalle lunghe dita mortali, appoggiata alla pietra all’altezza della spalla.
-Vaust...- sussurrò come dentro a un sogno.
-Vaust...- ripeté percependo l’aria di gioia nelle loro risate sempre più ilari.
-Vaust!- e si lanciò contro il suo petto, abbracciandolo inaspettatamente.
Che le cose sarebbero cambiate tanto, non l’avrebbe mai detto; che lo stesso amore che lo aveva portato lì, subito dopo essere riuscito a scamparsela senza Sundsvall alle mille peripezie ed esser tornato, avesse dolcemente irretito anche Avriel, lo avrebbe sostenuto ancor meno.
Eppure nell’immediatezza di un minuto si erano raccolti milioni di momenti, ogni pensiero si era spento e la sensibilità di avvertire il presente si era fatta ancora più fallace, così che un secondo appariva un anno ed era ugualmente inafferrabile e fuggitivo.
-Non ci credo...- disse irrigidendosi -tutto questo deve pur avere un senso-
Avriel sorrise timidamente e si fece indietro, ruotando su se stessa a braccia aperte.
-Sono cambiate molte cose Vaust...io...io ti stavo aspettando!-
-Io sono tornato per te- rispose inflessibile, forse addirittura confuso ed imbarazzato -Non pensavo...non pensavo davvero-
Avriel ridacchiò, gettandosi nuovamente contro di lui, e lo baciò a piccole riprese, muovendo il collo come si muove un’onda.
Le labbra si sbirciavano tra di loro, a volte alcuni sorrisi teneri mostravano i denti dell’uno o dell’altra e le lingue percorrevano il bordo seghettato delle arcate sfiorandosi mollemente.
-Sono così contenta...che sei tornato-
-Io continuo a non credere alle mie orecchie-
Le mani di lei, le mani che avevano abbandonato il filo della potenza divina con il disuso, scivolarono sopra le sue spalle tornendo i muscoli. Le dita ricaddero lungo la schiena, accarezzarono con delicatezza le scapole, poi le vallate affascinanti di quel corpo ancora perfetto.
Improvvisamente, notando lo spazio libero da foderi e guaine, si ricordò di Sundsvall.
Si piegò, poi cercò di tirare via le labbra dalla morsa gustosa in cui erano state catturate.
-Aspetta! Aspetta! Aspetta! Ho una cosa per te...-
Voltandosi e camminando in fretta non si avvide dell’oscurità che era calata. Egli, troppo preso dallo sguardo furbo di lei, non si guardò neppure intorno, dove Mjosa sostava invisibile.
-Cos’è...ehi-
-Distruggi questo- esclamò con entusiasmo -Distruggilo-
Un sorriso marcato passò sopra il volto di Mjosa. Vaust riuscì a spaccare il sarcofago, costruito così apposta, con un solo pugno.
Sundsvall e Dalarna erano distese vicinissime, belle come se le avessero appena forgiate e riempite dei loro poteri magici.
-Sundsvall- disse, allungando energicamente la mano come incontro al senso di tutta la sua vita.
Sebbene Avriel avesse terrore di guardare Dalarna, bianca e gelida sulla pietra, provava una profonda commozione nell’osservare ancora una volta Vaust con la sua arma, quella che lei aveva custodito per lungo e lungo tempo.
Mjosa ridacchiò ancora e si sporse in avanti, ascoltando le parole commosse della donna.
-Sei...contento?...Tutto ritorna come un tempo, finalmente-
Vaust allungò il braccio con Sundsvall stretto nel pugno, osservandolo con fierezza.
-Certo...che sì- esclamò, all’improvviso, freddo.
Avriel indietreggiò; allungò le mani come per difendersi dagli occhi scuri e vuoti che erano appena emersi dalle più profonde gole dell’Inferno e capì, in quell’attimo, mentre Dalarna si stringeva tra le sue dita senza che lei avesse voluto, che cosa stesse accadendo all’amore or ora ritrovato.
Il sonno stava impadronendosi di lei ancora una volta e sicuramente a lui era successo lo stesso, consacrando il tutto alla distruzione e la sfrenatezza.
Le ultime speranze venivano accerchiate dall’ombra, le ultime immagini si opacizzavano nascondendo la creatura più bella mai incontrata pronta a fare una strage di tutto.
Così si chiudeva il loro amore, lo capiva anche senza sentire l’applauso soddisfatto di Mjosa: così si chiudeva tutto.


Mjosa aveva costantemente un sorriso strano, che nessuno degli dei era riuscito a dimenticare dopo averlo visto anche una volta soltanto.
Aveva anche una camminata strana, un movimento delle mani, e delle dita, strano.
Guardava i corpi di Avriel e Vaust riversi e squartati sul pavimento con uno sguardo anch’esso strano.
-Complimenti...questi ve li siete meritati tutti- borbottò lasciando cadere un sacchetto ricolmo di monete -Non avrei mai detto...che sarebbe stato...- e sfiorò una macchia di sangue sulla parete scura -così divertente-
-Ah ah ah- concluse, e se ne andò lasciando l’ombra sostare tra i muri.


Ben poco era rimasto dell’antico splendore di quel piccolo palazzo. I fregi emergevano consunti nel buio e le pareti si erano spezzate sotto i colpi della lotta più cruenta ed ingiusta che ci fosse mai stata.
Le ante della porta scivolavano lente sui cardini ed al di là, nell’ombra, si scorgevano travi ed assi ammucchiate dalla distruzione senza ordine.
I loro corpi giacevano da questa parte, a momenti schiacciati contro un muro ricolmo di crepe, ed erano caduti uccisi l’uno da Dalarna l’altra da Sundsvall senza lasciare nessun segno di quel che aveva preceduto quello scontro cruento. Almeno non un segno che portasse il loro nome.
Improvvisamente, senza una precisa ragione, il pavimento si spaccò in un certo punto, richiamando in mezzo alle ombre di Mjosa, che si diradavano, un chiarore violaceo, dei cristalli che andavano depositandosi in stupende schegge svettanti verso l’alto.
Erano belle, sebbene restassero legate alla terra e a quel colore scuro della disfatta. Il lungo vortice polveroso e bianco, invece, che saliva dalle piccole ombre create da queste, portava con sé un significato più leggero e impalpabile.
La grande luminosità della cupola, infine, faceva emergere le superfici riluttanti con gradazioni diverse: illuminava un poco le schegge violacee, rendendole magiche e speciali, investiva il vortice di polvere che brillava e vibrava, mentre saliva in alto, e definiva l’ombra di ogni altra cosa; l’ombra dei corpi sanguinanti dei due amanti raggiunti dalla scia risplendente sul pavimento, che sfuggiva a quel disegno lugubre e disfatto.
Chissà, forse Mjosa aveva finalmente trovato una rivale, una Dea della Luce, ma io non so dare risposte tanto difficili per la mia mente comune.
So solo che quel brillio sublimava ingenerato, senza dare una spiegazione del suo perché, come fa ogni evento che si presenta alla porta di noi viventi.
Sapendo che questa storia può giustamente applicarsi alla tua vita,
ti dico: ben guarda ai mali da cui sei stata dal divino dipartita!
È vero che le disgrazie vengono insieme e mai da sole,
ma c’è qualcuno che la rinascita in mezzo a queste...vuole”.
 
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0 replies since 7/10/2008, 08:32   39 views
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