Dalla fine all'inizio, [18/09/08] Dalla fine all'inizio

« Older   Newer »
  Share  
flyvy
view post Posted on 8/11/2008, 19:57




Dalla fine all’inizio


Rating: Per tutti.
Tipologia: One shot
Lunghezza:7198 parole, 13 pagine
Avvertimenti: nessuno
Genere: Generale, Introspettivo.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Note dell'Autore:Quando pensai all’idea per questa storia pensai di aver avuto un’illuminazione; poi riflettei sul fatto che abbinata a questo contest era anche più che plausibile…buffo. Per questo il titolo…ovviamente non mio, ma di Verochina, ideatrice del contest.
Introduzione alla Storia:Leggete maturità al posto di giovinezza; e viceversa fanciullezza al posto di vecchiaia. Qui si nasce vecchi e si muore bambini.


Durante la nostra adolescenza, io e James passavamo il tempo a fumare la pipa. Nei lunghi pomeriggi autunnali, seduti sulle nostre poltrone che odoravano di glicine, parlavamo del più e del meno affondando le parole negli abissi dei diversi argomenti; persino dentro a discorsi di morte.
Io ero uno profondo, parlavo con la voce cupa, mi accarezzavo sempre quei pochi capelli che mi ritrovavo in testa; lui si passava un dito sotto le labbra, tossicchiava, sorrideva più di me.
Mi sembra addirittura strano pensare che con lui, nel bene e nel male, sia vicini che lontani, io abbia trascorso tutto il tempo della mia vita.

Una delle tante volte, mentre osservavamo un temporale, mi parlò dei suoi progetti futuri. E la cosa fu strana perché per quanto più gioviale di me, non si scomponeva mai riguardo alle proprie faccende. Discuteva di filosofia e arte con grande piacere, a volte persino le scienze gli suscitavano una particolare eloquenza, ma gli affari che gli ruotavano intorno erano sempre segreti remoti.
Mi rivelò, con gli occhi vivi (pur con quella patina gialla tipica della nostra età), che avrebbe dovuto, a malincuore, lasciare la moglie, la cara Rose di cui io ero pazzamente innamorato fin dai miei primissimi anni di vita, per seguire un lavoro importante all’Università di Claymore.
“Congratulazioni” gli dissi, aspettando che mi spiegasse il reale motivo per cui si era deciso a parlare del fatto.
“Rose non accetterà sicuramente che io la lasci qui...” continuò “o che me ne vada con i miei problemi ai polmoni poi...Devi...aiutarmi”
“Cosa vuoi dire?” gli domandai perplesso.
“Andiamo! Siamo realisti, credi che quella pollastra dell’altra volta sia venuta solo per portarmi la lista degli iscritti al mio corso? Anzi, credi che tre belle femmine come quelle siano venute tutte per portarmi la lista degli iscritti al mio corso?”
Rimasi turbato dal modo in cui il suo atteggiamento nel parlare, sempre costante e mai propenso verso un eccesso, o l’altro, si fosse stravolto sotto l’influenza del ricordo delle donne.
“James! Quelle sono donne molto più vecchie di te!”
“E allora? Io ho sessantacinque anni e loro ne hanno quaranta! Non vedo proprio quale sia il problema!”
“Hai una moglie”
“Sì...l’avrei lasciata anche prima, non avrei voluto tradirla...però sai com’è lei...la prenderebbe molto a male se la lasciassi...”
Mi guardavo intorno e davo l’impressione che tutto fosse normale, ma quei discorsi così affrettati e leggeri su Rose mi mettevano molto nervosismo addosso.
“E ora vai a Claymore per lavorare o per spassartela?!”
James ridacchiò in maniera enigmatica alzandosi in piedi. Si chiuse meglio il giaccone e prese l’ombrello.
“Non vedo che differenza ci sia tra i due! Ormai i fiori dell’adolescenza si stanno schiudendo e la vita va verso vie migliori! Sono sicuro che anche tu subisci il fascino delle donne! E Rose credo sia la più probabile che tu possa avere”
“Non parlare così di lei!”
“Bene, cominci proprio bene amico! Falla tua e ti sarò grato per il resto della vita!”
Mi regalò un sorriso rassicurante, goliardico e splendente. Lui non aveva dovuto mettere la dentiera: i denti gli erano cresciuti subito, e tutti sani, dopo la nascita.
“Aspetta...aspetta un po’” lo richiamai quando fu a un passo dalla porta, per un motivo che sfuggiva anche alla mia mente “Ma tu...riesci...a far tutto da solo?”.
Posi quella domanda timidamente, curioso riguardo all’argomento; da una parte lo ripugnavo, ma dall’altra nascostamente e labilmente lo frequentavo per via della mia natura di uomo. Tanto che ora, quella domanda, pareva l’unica cosa a contare.
“Eh eh, a volte” mi rispose, soddisfatto “ma vedrai, tra qualche anno le cose cambieranno!”
“Specialmente per te” aggiunse poi, uscendo.


Effettivamente all’età di sessantacinque anni appariva un vero e proprio miracolo riuscire ad avere un qualche minimo controllo naturale sulla propria sessualità. James era sempre stato sfacciatamente fortunato rispetto a me. Era una cosa che in fondo in fondo invidiavo molto, sia a lui, sia agli adulti.
Io non avevo mai potuto constatare come avvenisse in realtà, o cosa accadesse di preciso, ma nell’angolo del mio cervello in cui questo pensiero abitava c’era anche la speranza di arrivare verso i quarantacinque per cominciare a considerarmi un uomo.
Nel frattempo, sia io che Rose dovevamo aspettare.



Il mondo mi appariva come un diorama di colori vivissimi e brillanti dietro uno schermo che non potevo attraversare.
La mia giovinezza pesante, ancora acerba, mi impediva di godere delle cose fin nel profondo.
Questo atteggiamento nei confronti della vita probabilmente si riversava continuamente nelle mie questioni private, giustificando il fatto di non aver voglia di trovare un lavoro (avevo la preoccupazione del lavoro solo perché James aveva cominciato a racimolare i suoi brillanti successi già in giovane età) e di non poterne tenere uno tanto a lungo da definirmi banchiere o amministratore pubblico; giustificando anche il perché io avessi sempre ammirato Rose a grandi passi di distanza senza aver avanzato mai verso di lei.
Gli adulti, specie quelli che avevano ormai raggiunto il culmine della maturità, erano straordinariamente vivaci, belli e ricolmi di energia.
Avrei voluto avere i capelli biondi, da grande. Aspettare i denti, bianchi, per poter sorridere come certe signore che abitavano qui vicino.
Spesso con James avevamo parlato di poter morire adesso, nei nostri ingiusti primi anni, rinunciando a tutto il bene che nella vita avremmo ricevuto; e a quel discorso, sebbene lui lo trattasse con molta fiducia e con una battuta di scherzo sempre sulla bocca, non ero ancora riuscito ad abituarmi.
La sensazione di angoscia, che derivava dal fatto che avrei voluto raggiungere la mia felicità al più presto possibile, non mi abbandonava mai.
Quella sera lui si sarebbe imbarcato su un aereo di linea per raggiungere Claymore e non avrebbe più fatto nemmeno un passo indietro per ricongiungersi a me e Rose, suoi unici accompagnatori.
Nel modo in cui energicamente si allontanò lessi proprio questo desiderio, magari inconscio, di fuggire dalle nostre due meschine figure, che non avevano niente a che fare con la sua adolescenza priva di dolore.
“Mi raccomando...controlla i polmoni” gli ripeteva continuamente Rose piangendo, mentre lui si limitava ad alzare la mano da lontano e a tornare alle sue occupazioni di viaggiatore.
“Mi raccomando!”
Avrei voluto stringerla sotto il mio braccio per proteggerla, vedendola tremare per l’intensità della voce con la quale urlava a lui di stare bene.
Le piccole spalle erano piegate in avanti, le mani chiuse, i gomiti stretti sui fianchi come un’adulta che scalpita, gli occhi infestati di lacrime lasciate ad asciugarsi sulle dolci guance arrossate...
Guardava James che camminava dritto di fronte a noi senza voltarsi, con la borsa stretta tra le mani, sicuro come un treno lungo i propri binari, impassibile e già enormemente distante.
Avrei voluto stringerla, quantomeno per evitare a lei di sopportare il gelido significato di quella schiena, ma non potevo permettermi in maniera così azzardata di essere quello che non ero mai stato.
Certo, James mi aveva chiesto di alleviare il dolore che avrebbe procurato a Rose, ma forse la verità era che permetteva a me di avere un’alleata, e a lei un compagno, contro la sua tremenda altezzosità.
Se avessi avuto la forza, se fossi stato anche un minimo più forte di lui, sarei andato lì e l’avrei cacciato via a calci, radiandolo per sempre dalla nostra vita.
“Ci mancherai” urlò tuttavia Rose, rimarcando il fatto che per quanto potessimo desiderare di allontanarlo da noi, James sarebbe stato sempre e comunque determinante nella nostra esistenza.
“Addio” pronunciai tra me e me abbassando le pupille; niente, rispose lui andandosene.


43 anni

Non lo sentii né ebbi sue notizie per più di vent’anni, eppure in un modo o nell’altro mi tornava in mente in maniera costante: Rose non sapeva coprire bene la tristezza della propria solitudine, né io ero così bravo ad allontanare la sua influenza dal nostro universo.
Ero diventato un giovane brizzolato, con la pelle più elastica che nella mia fanciullezza e con una discreta -d’accordo, pessima- capacità di sopravvivenza. A quanto pareva i miei capelli non sarebbero stati biondi, ma scuri come il carbone e leggermente crespi.
Non avevo trovato lavoro in nessuno dei luoghi presso cui avevo fatto domanda, né avevo definitivamente passato i colloqui che avevo sostenuto. Alcuni dicevano che fossi troppo poco brillante nel parlare, smagliante nella figura e inadeguato a ricoprire ruoli dove il carisma era fondamentale, altri si appoggiavano sulla semplice espressione “non abbiamo più bisogno di candidati” per cacciarmi via senza fatica.
La cosa non mi faceva rabbia, né mi affliggeva continuamente, ma mi costringeva a piegare le spalle in segno di arrendevolezza e accettare tutto per come veniva. L’abitudine, in fondo, era una cosa a cui ero assai affezionato.
Solo quando andavo a trovare Rose, che lavorava al negozio messo su con un po’ di soldi arrivati da Claymore, sentivo istantaneamente il peso del fallimento e la necessità di metterlo da parte ed ignorarlo.
Lei era bella, amava quelli che la facevano ridere e diventare allegra, quelli che in un certo qual modo sapevano comportarsi da uomini e sbrogliare con facilità le situazioni più complicate, quelli che erano capaci di attirare l’attenzione di tutti e farsi protagonisti assoluti, quelli come James, che riuscivano a trasformare il piombo in oro con un semplice schiocco di dita.
Speravo ancora di poter essere uno di quelli. James non era poi così irraggiungibile...anche se non salutava nemmeno al momento di partire.
“Rose! Ehi Rose!”.
Mi introdussi nel negozio chiuso, nella penombra, con un passo più incerto del solito, sporgendomi alla ricerca del suo viso angelico e solare.
“Rose...”
Sul bancone c’era solo un oggetto colorato che contava i giorni nel loro periodico fluire: 17ottobre.
“Ro...”
Sentii immediatamente un rumore frettoloso, il suono caratteristico degli involucri di plastica dei maglioni ripiegati e alcuni respiri un po’ stentati.
“Ehi! Sei tu” incalzò sorridente, sorreggendosi con entrambe le braccia al banco dopo esservi sbucata dietro.
“Rose...” pronunciai ancora una volta, impossibilitato nel parlare alla vista del viso ancora piangente.
Mi veniva angosciante dirlo, ma durante quel lungo periodo non avevo assistito ad altro che a scene simili.
Piegai la testa di lato con fare apprensivo e critico insieme, ricordandomi delle carte infruttuose e ingiuriose che portavo nell’inutile ventiquattrore rovinata dal tempo, e mi chiesi come mai, stavolta, stesse piangendo nell’ombra del suo negozio.....
“Era il nostro anniversario” mi disse sbottando in un nuovo pianto, raggiungendomi per abbracciarmi.
Come avevo fatto a dimenticarlo, stupido, se anche negli anni passati era successa la stessa identica cosa! 17 ottobre.
Mi tirò l’impermeabile sulle spalle aggrappandosi a me, ma subito dopo, facendomi tremare, si allontanò per chiudere il negozio alla clientela.
Qualcuno l’avrebbe interpretato come un gesto chiarissimo nei miei confronti, ma quando piangeva, senza ombra di dubbio, lei mi trattava come una figura sullo sfondo, priva di dimensioni esattamente come le stampe sulle pareti.

Certe volte, mentre cercavo di tirare su il morale di Rose senza poterlo direzionare su di me, mi domandavo cosa stesse facendo James in quel momento. Sicuramente più bello di me stava dedicandosi ad intrattenere una grande folla di amici pronti ad ascoltarlo e rimanere sotto la sua ombra.
Forse qualche donna assai più vecchia di lui stava supplicandolo con ogni mezzo possibile per poter restare tra le sue braccia giovani e sicure, forse la gente stava valutando quanto ottimo e meritevole fosse il suo lavoro, forse lui non stava minimamente rivolgendo il suo pensiero a cosa si era lasciato alle spalle, sicuramente lui pensava ad essere felice e basta.
La mia rabbia, comunque, non stava nel fatto che lui stesse godendosi egoisticamente la brillante esistenza che aveva costruito, ma che io fossi ancora fermo in quel limbo disgraziato, senza uno straccio di lavoro e un soldo per vivere dignitosamente, senza l’attenzione dell’unica donna che avevo sempre desiderato e in mezzo ad una corsa faticosa con molossi imbattibili.
Mi stupiva che Rose fosse ancora così accanitamente legata a lui, ma mi rispondevo, tutte le volte, che probabilmente la causa era riconducibile alla sua tenera età, e che con il passare degli anni, con la leggerezza dell’età matura (per non parlare della prima vecchiaia), quella storia le sarebbe apparsa come un misero sogno.
Poi mi dicevo che anche io non smettevo mai di paragonarmi a lui, di valutare la giustezza o l’insensatezza delle sue scelte; immaginavo dove fosse e con chi, e da vent’anni parlavo da solo seduto sulla mia poltrona -con la sua di fronte- e cercavo la pipa da fumare.


Avevo cominciato a fumare il sigaro tuttavia, come era più conveniente ai giovani che si apprestavano a vivere a pieno la loro età.
I soldi li avevo in un piccolo fondo che a poco a poco si esauriva, risollevato nell’ordine di anni dalla vendita acconciata di uno dei miei quadri a qualche turista, ma fortunatamente possedevo da sempre alcuni appartamenti locati, che mi assicuravano un introito decente. Per quanto misero esso fosse per la vita che desideravo.
Man mano che fossero passati gli anni, mi dicevo tuttavia, le cose sarebbero andate per il verso giusto.
Una mattina mi svegliai nel mio appartamento sporco cercando di decidere quali abiti sembrassero meno sdruciti e adatti ad una serie di colloqui di lavoro.
Quali, soprattutto, avrebbero potuto fare finalmente colpo su Rose; sebbene li indossassi da talmente tanto tempo, mi dissi subito dopo, da aver dovuto accertare la loro indifferenza agli occhi della donna.
“Questa piccola massa di capelli neri prima non c’era” esclamai guardandomi allo specchio con evidente soddisfazione “gli farebbero invidia?”.
Non sapevo in effetti a che punto fosse arrivata la crescita di quello pseudo-amico, ma forse per i capelli, che in quel momento erano l’unico orgoglio della mia persona, non mi avrebbe battuto.
Quando camminavo in strada, però, non riuscivo a pensare che tutti mi guardassero per quel particolare di cui andavo fiero, ma...forse mi osservavano perché la mia camminata era strana, il mio sguardo perso e i movimenti...goffi.
Gli adulti erano molto crudeli in questo: riuscivano a disprezzare tutto quello che era lontano dalla loro immagine di bellezza con una facilità impressionante. Non era necessario che mi ridessero sguaiatamente dietro per farmi capire: sapevo che erano molto migliori di me e aspettavo di poter finalmente diventare uno di loro.
Ma se per caso non ce l’avessi fatta?! Se ero condannato a restare così?
“Salve, benvenuti. Vi illustrerò brevemente in cosa consiste il lavoro, poi la nostra equipe discuterà ad uno ad uno con voi per conoscere meglio le vostre attitudini”
Il relatore aveva un modo di fare affrettato, un’intonazione quasi giornalistica e decisa, tagliente nel parlare, un paio di occhiali leggeri davanti agli occhi da trentenne, che gli davano un aspetto fresco e professionale.
Alla sua età, avevo deciso, anch’io avrei indossato una camicia azzurra a piccole righe bianche e rosa.
“Prego, venga avanti”.
Ah, avevo dimenticato di dire che le mie curiosità in fatto di sessualità maschile erano state soddisfatte. Ero un uomo, anche se non bello come questo signore.
“Così lei sarebbe interessato a far parte dei dipendenti dell’albergo? Di preciso vorrebbe stare in accettazione, portare i bagagli, manovrare gli ascensori o consegnare in camera?” mi dissero in tono inesplicabile, quasi fintamente serio.
Li guardai uno ad uno e cercai velocemente una risposta evasiva e convincente. Prima che parlassi, tuttavia, una signora seduta sulla destra, con un tailleur grigio e un’acconciatura impeccabile, mi incalzò.
“Qui c’è scritto che lei è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Rubery...dipinge forse?”
Mi voltai verso di lei e feci passare tra le labbra un sì.
“Le interesserebbe dipingere delle tele per l’albergo? Almeno una per stanza”
Rimasi perplesso, esattamente come tutti gli altri presenti.
“Adele, senza neanche aver visto se fa scarabocchi?!” esclamò uno dall’altra parte, alzandosi leggermente sulla sedia.
La donna si voltò con un’espressione pacifica cercando di rimetterlo a sedere.
“Ho visto i suoi quadri a casa di James Torton...ricordo distintamente il nome che mi disse quando gli chiesi chi avesse fatto quelle tele. Me ne porti una tra una settimana...e si prepari a farne più di un centinaio”.


La paga sarebbe stata cosmica. Avrei vissuto esattamente per come desideravo per un bel po’ di tempo, fino a che non avrei trovato, sulla stessa scia, un lavoro altrettanto redditizio.
Il pensiero che anche in questo caso James avesse, per quanto trasversalmente, manifestato la sua presenza e l’ingombrante influenza, veniva semplificato matematicamente solo dal fatto che con questo lavoro avrei potuto elevarmi al suo pari e cancellare il suo fantasma.
Anch’io ero qualcuno adesso, anch’io mi sarei guadagnato da vivere, e molto, con le mie straordinarie capacità; anch’io avrei potuto essere ammirato dagli altri per il mio valore.
Per festeggiare, e visto che era il compleanno di Rose, quel pomeriggio spesi gli ultimi soldi del mese -tanto poi sarei diventato ricchissimo- per comprare una collana alla mia amata.
In vent’anni James non le aveva mai comprato una collana: un bracciale, un paio di orecchini, un anello, un orologio, un servizio di piatti, uno di bicchieri e uno posate, due servizi da tè, una serie di cornici d’argento, una collezione lussuosa di Swarovski e una di Thun, tre o quattro vasi di cristallo e porcellana, due cuccioli di razza, una statua in marmo per il negozio, un’automobile, un viaggio in Egitto, uno in Perù, uno in Giappone e una crociera nel Mediterraneo.
Mi chiedevo cosa si sarebbe inventato quest’anno. E perché non una collana, visto che aveva più volte speso un sacco di denaro per le gioiellerie di Claymore.
Non era mai venuto a trovarla in occasioni simili e, come per confermare la non eventualità della cosa, per le festività inviava sempre dei fiori e un biglietto. Preferivo che non venisse, ovvio, ma per Rose tutto questo era molto spiacevole. James faceva sempre i suoi auguri anche a me, sottintendendo quanto sperasse che la mia vita procedesse nella direzione che io desideravo darle, ma inserendo quasi, tra quelle parole, una vena ironica che non mi andava a genio.
Quantomeno, io la vedevo così.
Entrai nella gioielleria e chiesi per una collana, con la mente offuscata dalla luce diffusa nei locali, che si stagliava sulla strada buia al di là delle vetrine. Forse apparsi alla commessa abbastanza confuso, ma dopo qualche secondo e molta esitazione riuscii a dire “una collana per una signorina”.
“Di che genere?” mi chiese.
Non riuscii ad articolare parola. Stavo comprando una collana per la donna che amavo, con lo scopo, lo sentivo chiaramente, di rivelarle tutto quanto riguardo ai miei sentimenti.
“Intendo...la preferisce d’oro...d’argento?”
“È per un’occasione speciale” dissi, come se fosse l’unica cosa importante da spiegare.
La signorina annuì guardandomi in maniera perplessa, poi mi mostrò alcuni pezzi per poterli scegliere.
Mi ricordai subito della collana di mia nonna, il tesoro di famiglia che avevo conservato fin dalla nascita, che avevo però venduto qualche anno prima in seguito ad un calo delle mie finanze. Poi mi dissi che ovviamente non potevo comprare nulla di equivalente.
James sicuramente sì.
Evitai di pensarci, visto che da quel momento in poi tutto sarebbe migliorato, ed acquistai una catenina piuttosto grossa, con un ciondolo rosso e a forma di goccia.
Il peso relativamente esiguo di quell’oggetto mi costringeva a camminare piegato, con il fiato corto e la vista confusa.
Tutti gli anni Rose invitava alcune amiche con le quali festeggiare il compleanno e, data l’esclusività della serata, non mi chiedeva mai di restare. Mi lasciava un po’ di torta per l’indomani, qualche rustico o buon piatto di pasta, e così mi ringraziava.
In fondo, io ero solo il miglior amico del suo straordinario marito.
Mi accostai alla porta con quanta più sicurezza potessi, ma sembrando sicuramente, e poi in paragone ad un ragazzo della mia età, una specie di coniglio spaventato.
Lì per lì, un attimo prima che Rose aprisse, lasciandomi vedere la sala da pranzo con le sue tre amiche ciarlone, mi maledissi per non aver comprato un mazzo di fiori.
Anche se quello di James avrebbe sotterrato il mio, almeno dieci volte più piccolo, non mi sarei presentato a mani vuote e con una collana nella tasca dell’impermeabile!
Quando mi aprì, Rose aveva un sorriso delicato. Si era truccata con un velo leggero d’azzurro e violetto e si era lasciata il petto scoperto, con le ossa che leggermente la disegnavano sotto il collo, fino all’insenatura del seno, che non si scorgeva per nulla.
Una catenina d’argento, che sperai non fosse il regalo di James, si sollevava ad ogni movimento energico del corpo.
“Ti aspettavo” mi disse facendo un passo indietro e voltandosi “Entra pure”.
Valutai improvvisamente che quel filo brillante sulla sua pelle non poteva, a causa della sua semplicità, arrivare da Claymore; così tirai un sospiro di sollievo.
Per il resto, visto che mi aspettavo di restare sulla porta, a un passo dal calore della casa e dal freddo della strada, rimasi turbato dalla sostanziale modifica operata a danno della mia immaginazione.
I miei auguri, il mio regalo, la mia dichiarazione avrebbero avuto come spettatori un tavolo, un divano, qualche vaso, dei tappeti ed ogni pezzo dell’arredamento.
Per un pittore, che taglia le scene e le leviga col colore, quella era una difficoltà piuttosto grande; per me, che non sapevo afferrare le occasioni a piene mani e preferivo guardare al domani come qualcosa che deve arrivare e non essere attirata, era una catastrofe.
Quando entrai non sentii di aver completamente dimenticato il colloquio di quel pomeriggio, ma effettivamente lo avevo fatto, e le conseguenze della cosa erano visibili in me.
Ero vestito di stracci, quella collana non valeva niente...e lì non c’era nessuna delle sue amiche...
“Ehi...non essere maleducato! Non mi fai nemmeno gli auguri?”
Mi batteva il cuore: in quel momento ero sicuro che quel battito senza freni corrispondeva a quello di cui sentivo parlare a proposito degli adulti. Ne ero assolutamente certo. Il battito delle emozioni, che si sentono vive; il battito di un cuore grande e adulto, nel pieno della sua forza, privo di ogni pesantezza, amarezza, grigiore, capace di sentire tutto quello che lo circonda.
Il tavolo era apparecchiato per due, con i servizi più belli che possedeva e con due tipi di sorrisi: il mio, quello impacciato che senza accorgersene stava vincendo, incredulo, una gara impossibile, e il suo, più tenue, dolce, smorzato immagino dall’imbarazzo.
Prima che chiedessi spiegazioni, quando sollevai la mano verso i piatti e le posate e le candele poi, con quello sguardo interrogativo, lei mi saltò al collo e mi abbracciò.
Non disse niente, ma io, che avevo già certe parole in bocca, che desideravo rivolgerle, direzionai semplicemente quelle stesse verso di me.
Avevo ottenuto senza sforzo anche questo. E sebbene, quando mi voltai tenendola stretta a me, io abbia visto i lembi e gli angoli di alcuni fogli e buste aperte e color beige nascoste sotto un cuscino porpora sopra una sedia, che facilmente mi parlavano mestamente di James e di Claymore, io non smisi di abbracciarla e di sussurrarle goffamente il mio perpetuo amore.
Da quel momento in poi, pensai, forse sarebbe cominciata una vita migliore.


Quando partii, memore della delusione ricevuta da James, mi ricordai di abbracciare Rose meglio che potessi. Sarei mancato per due o tre giorni, ma ciò non bastava a giustificare una leggerezza simile.
Il mio viaggio era pagato dai proprietari dell’albergo perché andassi a studiare un paesaggio naturale vicino a Jotana, a 60 km da Claymore, e ciò mi dava l’occasione per pacificare finalmente l’urgenza che riempiva tutti i miei sogni e le mie notti: dimostrare il valore di una vita nuova a chi, al contrario di me, l’aveva sempre avuta.
Avrei introdotto tutto con il racconto su me e Rose, ricollegandomi direttamente a quelle parole che io e James ci eravamo scambiati moltissimi anni prima, poi avrei cominciato a millantare il lavoro, il conto in banca e così via.
Lì per lì non riflettevo a proposito del torto che avrei fatto alla mia amata se avessi parlato di lei come uno scopo, o una sfida risalente a tanto tempo fa, ma ero così preso dalla mia vanagloria e dalla prematura soddisfazione di presentare questi successi di fronte al mio rivale da non preoccuparmi di niente altro.
Sicuramente una mancanza, da parte mia; ma in generale molte cose, durante la mia vita, mi dimostrarono che tutto di quel periodo, e in particolar modo quella viscerale voglia di rivalsa, furono delle imperdonabili leggerezze.
L’area universitaria di Claymore era paragonabile ad un eden, verde, elegante ed esteso.
L’ambiente -considerando i vialetti, gli edifici, le cravatte degli studenti- era in tutto e per tutto esclusivo e perfetto. Il luogo migliore in cui una personalità spiccata ed esuberante, brillante ed intelligente come quella di James poteva diramarsi al di sopra di quegli adulti che andavano via via dimenticando i concetti e l’istruzione.
Le menti degli adulti erano più atte all’apprendimento di quelle dei giovani, che invece possedevano il sapere in maniera innata e lo andavano perdendo con l’età. Il loro contributo alla conoscenza, per quanto frutto di studio e non di predisposizione naturale, era straordinario. Vivi nelle idee, agili nel ragionare, umanamente predisposti verso l’esaltazione sentimentale e dotati di una straordinaria carica interiore. Erano così almeno quelli che vedevo aggirarsi per l’università di Claymore, ma sapevo ovviamente che esistevano adulti anche molto lontani da quella descrizione. Essi preferivano dedicarsi poco alla conoscenza e lasciare declinare la loro vita più velocemente degli altri verso la fumosa dimenticanza delle cose che li attendeva nella vecchiaia.
Già verso i vent’anni avevano un primo seme della demenza dei vecchi e, per il fatto stesso che non fosse totale e completamente voluta, dava al contempo un senso di rabbia e uno di paura.
Ci si abbandonava per incuria o per stanchezza? La vecchiaia era uno stato piacevole o una tragedia per gli uomini?
Mi stupii del fatto che stavo domandandomi queste cose mentre scivolavo lungo i sentieri del cortile della facoltà. Quel che pensavo da sempre, in definitiva, non era relativo alla vecchiaia, che era emersa dal contesto per essere obbligatoriamente ricacciata giù, ma era legato agli splendori dell’età matura, che per forza, con matematica certezza, mi dovevano aspettare ancora più fulgidi di quelli attuali.
Avevo scoperto da bambino che il mio campo era quello della pittura: le tecniche, i colori, i linguaggi visivi, i significati.
James, invece, ricco di una gamma di conoscenze profonde sulla natura intellettuale dell’uomo, sulla filosofia, sulla letteratura, sulla storia dell’arte e della musica, aveva immediatamente trovato la strada nei vari atenei, insegnando in maniera più brillante degli altri -senza imbarazzo o timore di fronte agli adulti, ma con la magica capacità di attirare la loro attenzione- tutto quel che sapeva e provava.
Non avevo mai assistito alle sue lezioni, ma ogni tanto leggevo i ringraziamenti di certi studenti e stavo a chiedermi se forse quelle mirabili dimostrazioni di genio tra banchi e cattedre non fossero simili alle nostre discussioni, che ora si perdevano nel fruscio dei rami e nelle foglie caduche di quei sentieri.
“No, il professor Torton non c’è. È fuori sede” mi rispose la segretaria senza neanche guardarmi.
Era una donna anziana, con un viso che pareva una pesca.
“Grazie...grazie” balbettai, ma mi accorsi subito di non essere stato udito.
Uscii nuovamente nell’aria settembrina del cortile e camminai alla ricerca di una decisione, cominciando infine ad esplorare i vari edifici che componevano la struttura universitaria.
Arrivai agli alloggi piuttosto velocemente e mi fermai nel lungo corridoio deserto di fronte alla stanza di James.
Mi chiesi come avrei potuto entrare o se ero venuto lì semplicemente per ammirare una porta ben levigata.
Stare lì fermo, forse, avrebbe avuto molto più senso di mille discorsi pieni di superbia e vanità. Quantomeno la storia seguiva un filo conduttore ben visibile: di fronte a James c’ero sempre io che guardavo una porta chiusa.
D’improvviso notai la chioma bionda di una signora sfilata ed affascinante. Con i suoi jeans e una maglietta attillata color indaco venne fuori, sola, dalla stanza cui stavo di fronte.
Lei mi guardò scettica e sospettosa ruminando una chewing-gum, ma quando capì che volevo entrare, per quanto la cosa potesse sembrar strana, non si oppose minimamente e si allontanò ondeggiando.
Un ragazzo, giovane o ragazzino che fosse, non se ne sarebbe andato così senza una parola, né avrebbe permesso qualcosa che potesse essere anche per una minima percentuale definita assai discutibile.
Quando entrai un odore forte di tabacco mi investì, confermandomi che con il tempo nemmeno James aveva smesso di fumare e, come se non bastasse, aveva cominciato ad apprezzare i cubani.
Uno era rimasto a metà, inscurito sulla punta dal fuoco spento, sospeso sopra il posacenere, accanto ad una pila di libri ed una lampada.
Non mi servì esplorare molto quella stanza bruna, piena di carta, tappeti, divani e poltrone. Non mi interessò per nulla andare a vedere il letto sul quale riposava o dormiva con le donne più grandi di lui.
Mi fermai sull’entrata, osservai le note di merito, i successi, e presi un libro tra le mani.
Tra le migliaia che possedeva ricordo che quel libro, con la sua copertina sdrucita di pelle verdognola, lo aveva sempre accompagnato; più come un manuale che come una storia su cui riflettere o della quale emozionarsi.
Dentro c’erano alcuni fogli sottili, che aprendosi facevano un rumore speciale, a tratti spaventoso.
La sua scrittura era rimasta la stessa, scattante come se presa da una geniale follia, da un tremito o un impeto, tuttavia più marcata.
Lessi, rilessi poi, e fuggii.


Pensai a lungo, sul treno, che di gesti simili, di azioni imprevedibili, poco utili ma estremamente giuste, i giovani non fossero capaci.
Gli adulti, ancora una volta, con la loro indipendenza dal peso delle cose, con i piedi uno da una parte e l’altro dall’altra e la volontà di fuggire da qualsiasi cosa fosse opaca e imprigionante, si mostravano ai miei occhi come esseri capaci di affrontare follie simili.
Certo essi non dovevano vivere in un paradiso totale, come neanche i giovani in realtà, però forse loro, riflettei, avevano più coraggio rispetto a noi di vedere le cose nella loro spaventosa realtà.
Se poi chiudessero gli occhi per rendersi ciechi come noi, che la sofferenza umana la sentiamo soltanto sui polpastrelli delle dita che avanzano a tentoni, o rimanessero con le palpebre spalancate di fronte ad un nemico così indomabile, è un dettaglio.
Gli adulti, dico, a volte sono capaci di prendere decisioni irrazionali per dare un senso a molte cose, perché si sentono vivi e in dovere con la loro energia, mostrando ai giovani, su cui dopotutto pesano molte responsabilità, qual è quell’aspetto della vita umana che noi mettiamo sempre da parte.
Se noi fossimo in minima parte un po’ come loro non credo che avrebbero sollievo nell’abbandonare la nostra età. Né noi vorremmo sbarazzarcene con così tanta facilità.
Siamo pesanti, incatenati, frustrati; le emozioni credo siano troppo minacciate da questo e da quello per manifestarsi e crescere e vivere come dovrebbero.
Però, in quel gesto, James mi dimostrò di vivere liberamente anche a sessantacinque anni, di non aver paura della propria felicità né del suo sacrificio; e soprattutto che il più grande atto di egoismo che io gli attribuii, fu in realtà il suo più grande atto d’amore. Inteso, badate bene, nel senso più viscerale e profondo: ogni atto d’amore genera il male e il bene in forme mescolate, come la tempera bianca e nera subito prima di divenire grigia.
Se egli quindi, nella più passionale e insensata e astrusa decisione, pensò di andarsene per sempre lasciandomi Rose, ignorò che in realtà la amava intensamente e credé che fosse più giusto, per entrambi, vivere serenamente lontano da lui.
Era vero che io avevo continuato ad arrancare per più di vent’anni con il bisogno di superarlo, di stringere quella giovane donna meglio di come aveva fatto lui, ma, pur accettando questo tipo di sofferenza, forse non avrei mai sopportato la sua. Perché non era tornato prima? Perché non aveva messo fine a quella decisione presa a sessantacinque anni come uno spirito innamorato di diciassette?!
A volte la forza del proprio animo può essere un limite, mi dissi; per il semplice fatto che accanirsi potrebbe non servire, che forse è giusto non negarsi una felicità e portarla via a qualcun altro in nome di qualcosa di più grande...
Ma noi potevamo concepire quel disegno? Capire se Rose avrebbe amato più me o lui e quale delle due cose sarebbe risultata migliore?
Forse lui aveva capito qualcosa, indipendente da Rose, e sulla base di questa aveva deciso, per quanto non gli spettasse modificare una variabile così grande del mio destino. Aveva molte cose lui, aveva tutto quello che io desideravo. Doveva fare qualcosa per me, doveva. Ma strano come mi abbia donato l’unica ricchezza, tra quelle che possedeva, a cui teneva realmente.


26 anni

A ventiquattro anni Rose morì a causa di un incidente d’auto; e io lo rividi per quell’occasione.
Accosciato poco davanti alla terra chiusa sulla bara di lei accarezzavo con le dita i ciuffi d’erba che v’avevano disteso sopra e continuavo a maledire la sventura che me l’aveva portata via.
Non riconobbi il suo passo che arrivava da lontano, quell’andare come una sorta di angelo; rimasi sorpreso, quasi ucciso, dal vederlo poco dietro di me all’improvviso, specie considerando che durante il funerale lo avevo cercato senza speranza tra la folla di presenti.
Aveva una sigaretta in bocca, le labbra strette sullo stelo, l’accendino all’estremità; teneva le palpebre socchiuse, gli occhi puntati sulla fiamma che si piegava verso di lui.
Quando espirò sembrò quasi rompersi da quella posizione, e rinascere.
Non parlai, né lui mi rivolse una parola. Io guardavo lui, lui osservava Rose.
Dietro di noi il cielo si era imbiancato completamente, la folla si era diradata lentamente a testa bassa e nessuno di noi due si era accorto del tempo che passava.
Poco dopo anch’io mi volsi a guardare Rose ancora una volta, illudendomi che dietro i cumuli di terriccio potesse ancora vedermi. Mi convinsi persino che quella sigaretta potesse durare per sempre, che quel momento di dolore potesse essere inchiodato e fermato piuttosto che messo in corsa ed aizzato dentro di noi.
Mi parve vagamente di intuire la nebbia, il cambio di temperatura e l’avanzare del silenzio. Le foglie degli alberi erano di un verde cupo e forte sul fumoso bianco del cielo, così sull’erba fresca e viva.
Ero così adulto, ora. Perché Rose doveva andare via e lasciarmi questo vuoto...?
Anche James era grande, ma sul suo viso c’erano due ombre scavate e un’espressione da ragazzo.
“Stiamo diventando vecchi...che vuoi che sia” avrei voluto mi dicesse, salvandomi e reggendomi come tutte le volte, ma l’unica cosa che si limitò a dire, tra il tiro di una sigaretta e un altro, fu “ti amava vero?”.
Abbandonai il capo, cercai di nascondere tutto strizzando gli occhi. Non potevo sopportare da solo il peso di quella tragedia.
“Non ha mai smesso di amarti, in realtà”.
Non mi voltai, per non vedere.
“Non stavate insieme?”
“Le ho dato la collana di mia nonna, se questo può significare qualcosa” mentii, perché avevo capito quel cupo messaggio “abbiamo dormito insieme, se la cosa ti sembra importante...ma teneva anche tutte le tue cose...e tutte le volte che era trasognata...pensava a te”
“Forse dici solo un mucchio di sciocchezze” e per la prima volta sentii nel suo tono un accenno di paura.
“L’età ti ha fatto diventare ostinato” replicai con amarezza, incapace di chiudere il cerchio di quelle grandi bugie con un atto di sacrificio.
“L’hai amata?” tentò con l’ultima chance.
“Mi ha reso felice” risposi.
So che avrei dovuto dirgli che aveva vissuto una vita ricca di serenità ed allegria, che lo aveva sempre ricordato con molta tenerezza ma che l’amore l’aveva finalmente trovato in me, ma forse, pur cancellando i suoi sensi di colpa, in quel momento gli avrei dato un dolore più grande.
“Come va con le donne?” gli chiesi poi, con la voce persa per il cimitero di fantasmi.
Lui si chinò accanto a me, poggiò i gomiti sulle cosce come facevo io e sospirò amaramente.
“Uno schifo” ma io avevo capito a cosa si riferiva “un vero schifo”.


17 anni

Prima della vecchiaia vera e propria e prima della morte si attraversa uno stato molto strano della vita degli uomini. Dietro a quegli anni così turbolenti si nasconde la consapevolezza che molto presto, rispetto a quanto si consideri, arriverà un tempo ancora più drammatico, nel quale ogni certezza della vita svanirà dentro un amalgama di ingenuità, scarsa concezione di sé e un diverso, complicato, approccio con il dolore.
Ciò è dovuto ad una componente molto semplice, se ci si pensa. La mente dei vecchi regredisce frammentandosi pian piano, come uno spesso strato di nuvole che si apre e si disgrega, rendendo visibile il cielo.
Per capire esattamente quel che voglio dire, tuttavia, credo che sia più giusto immaginare un enorme telo scuro, permeabile o meno, messo a coprire una ciotola dal contenuto ignoto.
Il contenitore è fuori, in una giornata autunnale che promette pioggia, su un tavolo con una tovaglia di plastica sdrucita.
L’intelletto umano, ecco, è come quel telo; e con il passare del tempo perde la propria impermeabilità, riempiendosi di buchi e di strappi.
Gli eventi esterni, invece, sono quella pioggia che picchiettandovi sopra e non riuscendo a filtrarvi attraverso rimane sulla superficie, pronta ad essere elaborata e decodificata in pensieri e concetti. Soltanto un’abbondante rovescio riesce, a volte, a permettere a gocce veramente vigorose -poche tra i miliardi di altre- di passare attraverso le fibre intrecciate e cadere sul fondo della ciotola.
L’acqua caduta lì, nella parte più recondita, sconosciuta ed immediata della nostra mente., invisibile a chi guardasse la ciotola dall’esterno, si accumula col tempo.
È durante la vecchiaia che il telo si lascia permeare a tal punto da far scivolare l’acqua all’interno e che si indebolisce tanto da riempirsi di strappi, attraverso i quali far cadere direttamente le gocce.
Per questo gli eventi, le facce delle persone, le parole, le cause e gli effetti, celate nel cuore e nello... stomaco...degli individui non sono informazioni ed immagini precise come le altre, come quelle concepite sulla superficie, al chiarore del sole, ma diventano significati nel profondo, dove dominano l’ombra e la penombra.
Gli strappi non servono soltanto ad imprimere i contenuti sull’anima piuttosto che sulla mente debole, ma permettono anche che l’acqua possa uscire a suo piacimento.
Il telo giovane, non ancora usurato, capisce perfettamente quando la pioggia vi cade sopra e viene trattenuta, ma quello anziano, tanto è permeabile ed indifferente, non capisce né quando l’acqua lo attraversa né quando il fondo rigurgita il proprio contenuto.
Così i vecchi vivono questa vita diretta, priva della certezza di quelle conoscenze, assenti da un vero dolore e guidati dai calchi impressi sulla loro profondità dalle sofferenze, incapaci di ricordare perfettamente se non in maniera implicita, di direzionare certi comportamenti come facevano da ragazzi, dotati di quella misera e ingenua e nobile immediatezza che li rende affascinanti e spaventosi.
In realtà quello di cui volevo parlare non era il periodo estremo della vita, quegli ultimi dieci anni prima di morire, ma dell’arco di tempo subito antecedente, quello in cui, prima di godere dell’assenza del dolore, pare che si espii tutto quello provato e accumulato nella vita.
È un po’ come un purificarsi, un fare uscire il marcio prima della guarigione, un privarsi della sofferenza, soffrendo.
In realtà, lì per lì, io lo sentivo benissimo: il gioco non valeva la candela. Mi pareva più una presa in giro che altro: stare male a lungo, guarire in un attimo e poi non rendersi più conto di niente.
E il dolore era tantissimo, insensato, traumatico, sciocco ed estremamente, dico estremamente, reale.
James, al contrario, con i suoi capelli scuri ed acconciati, le T-shirt a mo’ dei vecchi e i jeans appena sotto la vita, sembrava non avere idea di dove fosse quel dolore. Parlavamo poco, rispetto a un tempo, sebbene fossimo nella stessa scuola e vivessimo l’uno di fronte all’altro.
Gli anziani li accudiscono i giovani. Noi due, tuttavia, non avevamo avuto bambini che potessero pensare a noi, né ora, né dopo.
La sua mente era rimasta più brillante delle altre, come sempre, e i miei disegni, pur avendo perso la sicurezza del tratto, non avevano dimenticato la loro bellezza.
Lui si divertiva in mezzo alla considerazione e il successo che gli erano soliti e “goditi quel che ti resta” mi diceva.
Io continuavo a pensare a quanto fosse spregevole la mia esistenza e...il dolore della morte di Rose lo sentivo ancora: nei lunghi pomeriggi in solitudine, non dietro la consolazione di altre o i bagordi.
9 anni

Come diceva James, la signora che abitava accanto alla nostra casa di cura per anziani senza figli, aveva le “poppe” grosse. Io ridevo esattamente come faceva lui quando parlava così, ma non ho mai capito perché lo facevamo. Era una signora molto bella; io arrossivo tutte le volte.
Subito dopo pranzo ci appostavamo nella nostra base segreta in giardino e discutevamo dietro il tronco dell’albero la missione del giorno. Io trascorrevo i primi minuti a cercare di guardare oltre lo steccato la bella forma della signora, che forse lavava o stirava, ma poco dopo James mi spiegava che cosa gli era venuto in mente e lasciavo perdere la mia occupazione.
Lui era molto più bravo di me con le missioni, ma quel giorno, ricordo, fu uno dei pochi in cui seppi di essere stato proprio un degno compagno.
Il piano consisteva nel prendere di nascosto il sacchetto di cioccolatini che Clarisse, una vecchina tutta codine, custodiva gelosamente sotto il suo banco. A nessuno, tranne che a lei, che era la più educata e disciplinata, veniva fatto un dono simile.
“Come la distraiamo?” domandò tra sé e sé, mentre io provavo a stare sulle punte per guardare oltre lo steccato “Ci serve qualcosa di veramente intelligente”.
“Hai pensato?” gli chiesi dopo un po’, rassegnato dall’assenza della signora-con-le-poppe-grosse.
“Facciamo un disegno e glielo regaliamo. Uno di noi la distrarrà e l’altro prenderà il sacchetto”.
“Sì okay, mi sembra proprio un buon piano!”
Quando disegnammo, infine, mi resi conto di essere stato veramente bravo. Provai un’assurda sensazione quando gli mostrai la mia opera e lui la scelse come esca per la vecchietta, come se avessi fatto qualcosa di importante non solo per quel momento, ma per una ragione superiore, ideale, che mi faceva piangere.
A James bastò solo un’occhiata per attirare a sé Clarisse con la scusa del disegno ed io, più velocemente che potessi, presi il sacchetto e lo portai con me.
A lui non piacevano le donne anziane, cercava sempre di tenerle lontane da noi e dai nostri giochi; quando poteva le prendeva in giro e tirava loro i capelli. Sembrava proprio che le odiasse, dal profondo, come se qualcuna di loro, per tutte le altre, gli avesse fatto qualche dispetto imperdonabile.
Gli diedi un cioccolatino tirato fuori dal sacchetto mentre ci avviavamo al nostro solito posto, sperando di addolcirlo un po’, poi gli sorrisi osservando dal basso i maestri intenti in un’operazione che chiamavano “fumare”.
Noi usavamo i colori per imitarli, quasi senza neanche sapere il perché.
“Missione compiuta...Avuto paura?”
“No” risposi allegro, gettando via il sacchetto ormai vuoto.
Ci accostammo al tronco che costituiva il nostro quartier generale e infine ci sedemmo a mangiar mele rosse, con le fronde degli alberi a ripararci dai raggi del sole.
 
Top
0 replies since 8/11/2008, 19:57   49 views
  Share