Persefone, [11/09/08] Myth's POV

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flyvy
view post Posted on 9/11/2008, 01:26




Rating: Per tutti.
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 4 pagine
Avvertimenti: nessuno
Genere: Generale
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me, sebbene siano rielaborati di miti di origine greca.
Note dell’autore: Avevo inserito nel testo una parole greca, che tuttavia non viene visualizzata con l’editor del forum. La trascrivo secondo i caratteri latini: la parola è fysis (fiùsis), e significa letteralmente “ciò che si manifesta”, e quindi è, e dunque “natura”. Il rapporto dei greci con la natura era assai profondo e filosoficamente fondato, da qui la necessità di scrivere “fusis” (espressione ricca di concetti) al posto di una parola equivalente -ma solo in termini di comprensione formale- nella nostra lingua.


Io sono Persefone, figlia di Demetra dea delle messi, fanciulla dai bei capelli neri, come dicono. Zeus è mio padre, il grande re degli dei che fa tuonare il cielo, colui che ha istituito la giustizia del cosmo e ha sconfitto i Titani, nemici del mondo.
Non l’ho mai incontrato tra queste spighe nelle quali trascorro le mie giornate, né ho mai incrociato il suo volto sicuramente austero e potente, né questo, chiaramente, mi pare un problema o lo è mai stato. Né io né mia madre sentiamo il bisogno di avere qualcuno a parte noi due. Basta il sole -sorgere e tramontare- e le piante donare i loro frutti migliori...

Era da molto che notavo dei lievi cambiamenti attorno a me. Verso sera nell’aria c’era sempre una leggerezza azzurrastra, limpida e serena. Me ne stavo in piedi, sull’orlo della collina, con le mani sospese sopra le spighe che si muovevano al vento e guardavo verso un avanti imprecisato, un altrove sconosciuto, respirando appena.
A volte, sempre più spesso però, quell’atmosfera così idillica mi mostrava delle venature inattese ed imperfette. Il crepuscolo dolce e chiaro appariva inscurito da un alone nero, tale e quale a quello di un’ombra che vi si fosse posata sopra come un velo. Le spighe sembravano tristi, come non le avevo mai viste, e raffreddate dall’aria: il loro frusciare più lento, meno naturale, assai sinistro...
Muovevo le mani davanti a me, entravo in contatto con quel fenomeno per scoprirne l’essenza, rimescolavo l’abbondanza della fysis con sorpresa e con incanto. Credevo che tra le tante e minuscole particelle color azzurro che danzavano nell’aria si fossero infiltrate altrettante polveri nere, capaci di legarsi e inquinare il puro lucore delle prime; ma in realtà non sapevo niente di quel nuovo atteggiarsi della sostanza, tranne che fosse debolmente affascinante.



Promisi alle ninfe che abitavano vicino al fiume che sarei andata da loro una mattina, quando il sole sarebbe stato particolarmente benevolo, per trascorrere un po’ di tempo giocando lietamente.
Le raggiunsi dopo aver salutato mia madre, che si era fermata ad ammirare un frutteto assai bello di pesche e prugne, e cominciammo a cantare insieme alcune melodie dei boschi.
Si trattava di canti che loro mi avevano insegnato e che a volte mi lasciavano intonare da sola, facendomi da coro.
La mia voce spezzava la robustezza dei raggi del sole e l’intenso colore del cielo levandosi in alto. A momenti sentivo che anche la mia gola poteva rompersi nel tentativo di produrre un suono abbastanza vigoroso. Anche in un attimo di quelli, mentre distesa sopra all’erba, con le braccia che mi trattenevano, tiravo indietro il collo e cantavo, mi pareva di vedere una traccia oscura nell’aria, piccola e sinuosa, ugualmente corposa; una macchia che forse mi aveva lasciato il sole dopo averlo osservato.
Giocammo a palla per molto tempo dopo i canti, tra i ciuffi d’erba e vicino al fiume, ridendo allegramente tra di noi tra un balzo e l’altro.
Mi sfuggì la palla oltre le dita, quando, presa da una risata, piegai leggermente il viso e mi coprii la bocca con la mano per delicatezza.
Feci qualche passo giocoso per raggiungerla e recuperarla, poi la lasciai scivolare, ancora per il riso, vicino alla sponda del fiume, nell’acqua torbida che l’aveva fermata con l’aiuto dei piccoli giunchi e della fanghiglia. Mi inginocchiai, con le labbra che si erano ormai quasi rasserenate, ed allungai entrambe le mani per afferrarla.
Un’ombra mi guizzò davanti senza che mi desse la possibilità di preoccuparmi o incuriosirmi di ciò. Due braccia sbucarono oltre l’acqua trascinandomi giù.
Subito dopo mi accorsi che assurdamente esse stavano conducendomi dentro la terra, che si apriva squartandosi al mio, anzi...al nostro, passaggio.
La mia guancia era compressa contro un busto di cuoio, sul quale avevo aggrappate per paura entrambe le mani, e gli occhi erano obbligati a restare chiusi per via della terra e del pietrisco che in quell’assurda corsa mi arrivavano addosso.
Dopo quel movimento rapidissimo e indefinibile nel tempo sentii che il mio corpo, e quello cui evidentemente ero aggrappata e che mi stringeva a sé, emersero dal sottosuolo spaccando le zolle. La mia mente, tuttavia, era ancora impegnata a decodificare e sopportare lo sferzare continuo dell’aria e i mille strali biancastri che si generavano a causa della velocità, per pensare oltre.
Con le mani riuscii a tastare meglio il torace, e l’occhio -quello sinistro- non compresso sul cuoio, ormai poco impaurito dai detriti, poté timidamente alzarsi per osservare poco al di sopra.
Vidi il volto bianco e fine di un uomo, un’espressione eterea, persa nella corsa, e una scia di lunghi capelli neri e mossi. Il vento sollevava i ciuffi fin tanto da mostrare gli zigomi, le tempie, tutti i particolari più alteri di quei lineamenti pallidi e perfetti.
Non mi degnò neanche di uno sguardo, nemmeno quando cominciai a dimenarmi e scuotere le gambe per cercare di fermarlo. Egli si levò nell’aria e continuò nel suo correre immobile, stringendomi tra le braccia possenti e tra le mani fredde...
Capivo che quel che stava accadendo non doveva lasciarmi indifferente; sentivo con tutta me stessa che quella bellezza era stata creata apposta per irretirmi e convincermi a fare di me quel che più desiderava il mio rapitore. La vedevo solo io, sicuramente non esisteva, perché niente di diverso dai frutti e dai fiori poteva essere bello.

Ruzzolai su alcune pietre scure, che rilasciavano con sé una orribile polvere nera, e mi ritrassi rimanendo a terra cercando di sfuggire al mio imperturbabile rapitore.
Eravamo in una caverna senza aperture, dentro la quale stranamente si trovava una debole luce senza sorgente, e lui era di fronte a me.
Si toglieva stancamente i pezzi di cuoio che gli comprimevano il corpo e camminava lentamente, senza darmi attenzione, verso di me che non avevo via d’uscita.
Quando gettò a terra anche l’ultimo pezzo e sulla sua figura rimase soltanto una tunica scura sollevò finalmente un occhio su di me, dopo uno sbuffo di stanchezza.
“Persefone...l’unico desiderio” mi definì.
Tremai, a causa della spaventosa ampiezza di quelle parole.
“Chi sei tu! Cosa vuoi da me!”
Il signore si avvolse le mani nel gesto di pulirle ed asciugarle.
“Io sono Ade”
“Ade...” sibilai.
“Re degli Inferi”
Si chinò di fronte a me. Il viso pallido e le pupille gonfie a causa dell’oscurità erano poco distanti dalla mia faccia spaventata.
Mi sentivo paralizzata...chissà cosa stava vivendo la mia povera madre lassù sulla terra feconda, la sua, la nostra, e non questa terra gretta entro cui lui viveva!
Notai distintamente un piccolo movimento del capo, il mento che si alzava all’in su, gli occhi che si levavano e, brevemente, decidevano di ritornare in basso.
Si sentì un boato fortissimo, incomprensibile e potente, che non interessò altri sensi che l’udito.
La sua espressione si trasfigurò, lasciandolo comunque calmo; lo vidi scattare sulle gambe robuste, rovistare velocemente dentro un telo ed estrarre un frutto bluastro, come sulla terra non ne avevo mai visti. Me lo piazzò di fronte agli occhi, insistendo con la presa delle sue mani lisce.
“Prendilo, hai fame”
“No” risposi insieme ad altri versi lamentosi.
“Mangialo. Tieni, mangialo” insistette, spaccandolo in due e porgendomene ora solo una metà.
Il melograno bluastro, nato negli Inferi, aveva un odore diverso da quello che io avevo sempre conosciuto. Forse anche solo per questo non mi andava di mangiarlo e ritraevo il capo.
“Tieni, tiè” proseguì, staccando con fretta alcuni semi e lasciandone passare tra le mie labbra quanti più poteva, insistendo.
Con le dita strappava un seme, forse anche due, e veniva a schiacciarmelo contro i denti seguendo il percorso della mano con lo sguardo; lo fece finché alle sue spalle non emerse una figura, e lui, sorridendo di sole labbra, si alzò sulle gambe impedendomi la vista.
“Si immaginava saresti venuto, fratello” scandì continuando a sorridere pacatamente, senza voltarsi.
La sua ombra era grande, anche maggiore del suo corpo, e mi sotterrava grandemente.
“Che cosa stai combinando stavolta Ade. Restituisci quella ragazza a sua madre!”
“Eh eh eh...ai tuoi ordini divino Zeus” disse, un po’ in maniera amara un po’ in maniera sarcastica “Senza dimenticare che chi ha mangiato un frutto degli Inferi non può più andar via”.
Zeus, Zeus, Zeus...., mi tamburellava nella mente. Non può più andar via...andar via...andar via...lo seguiva subito dopo.
Cominciai a strillare le mie richieste di aiuto cercando di farmi scorgere dal Re degli Dei, annaspando sulle pietre polverose e provando ad uscire fuori dal cono d’ombra, oltre la figura di Ade.
“Aiuto!”
“Sta tranquilla...ci penserò io. Presto potrai tornare da tua madre”
“Non credo, ha mangiato un frutto degli Inferi!”
“È così?” mi domandò Zeus.
“Solo dei semi” dissi piano.
Il Dio degli Inferi si voltò sdegnato verso di me, girando unicamente la testa e i suoi bei capelli neri.
“Semi! Quanti semi?” chiese Zeus.
Ade si chinò su di me e afferrò il mio mento stringendo le dita, che arrivavano serrate fino agli angoli della bocca.
“Quanti semi” disse anche lui, digrignando i denti.
I suoi occhi erano quasi incendiati da una fiamma oscura, che lo rendeva furioso come non avevo mai visto nessuno nella mia vita.
“Non so” risposi.
“Sei” aggiunse subito dopo per me la voce imperiosa di Zeus.
Ade si alzò, lasciandomi andare con una certa delicatezza.
“Sei semi equivalgono a sei mesi. Per ora li trascorrerà con la madre, la terra non può subire un così rapido declino...tra sei mesi sarà qui...così per l’eternità”
Lui non rispose.
“Andiamo Persefone, andiamo” continuò il Padre.
Rabbrividii, all’idea, ma in quel momento seguii il Dio solo per poter scappare via dalle braccia di Ade.
Lo vidi restare fermo in quel punto, poi sull’orlo della caverna (raggiunta dopo molto cammino tra le gole di quel mondo che sarebbe diventato il mio), quando Zeus mi condusse al suo fianco e mi fece rivedere la luce.
Mi voltai un attimo indietro, troppo accecata dai raggi per guardare subito; fu per me un gesto naturale, ma chissà che non abbia avuto un qualche altro significato.
Mi tornò in mente mia madre, il modo in cui mi avrebbe abbracciato gettandosi di peso. In quel momento immaginai la scena come se io fossi rimasta, tra le sue braccia, ritta e pensierosa a guardare al di là, mentre gli alberi rinverdivano a poco a poco e le montagne perdevano la loro neve.
Tutto sfumò poi sopra un’occhiata pallida di Ade, che quasi fosse l’ennesima volta che assisteva alla scena –Zeus che si allontanava portando con sé qualcosa che nutriva il suo cuore– rimaneva con gli occhi tristi, ancora forti, e le braccia abbandonate inerti ai fianchi.
L’ombra rimaneva posata sul suo viso, la grotta scompariva in favore di un mondo superbo, bellissimo e rigoglioso, e lui non muoveva un passo per venire oltre.
“Tornerai” sentii sibilare tra le sue labbra sottili, a un passo dalla soglia di luce.
Il silenzio si fece disteso e lento come il tempo.
“...Abbi cura di te”.
 
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