Una risata nel vento, [29/11/08] Fenomeni Paranormali

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Ainsel
view post Posted on 31/12/2008, 17:14




Fandom: Originali.
Rating: 14 anni.
Tipologia: One-Shot.
Lunghezza: 3.051 parole, 5 pagine.
Avvertimenti: Angst, Character Death.
Genere: Drammatico, Introspettivo, sovrannaturale.
Disclaimer: Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro. Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione ed appartengono solo a me.
Note dell'Autore: questa storia è quella che può chiamarsi un’idea fulminante. Nata in pochi secondi, progettata nel giro di poche ore e scritta in meno di una settimana.
Io sono solita rimuginare per tempi impossibili sopra una singola frase, modificandola in modo quasi maniacale per un numero infinito di volte, invece con questa fiction ho sperimentato la sensazione delle parole che nascono per conto proprio, creando quasi autonomamente il racconto.
Introduzione alla Fan Fiction: Ancora oggi gli veniva da domandarsi se la morte di qualcuno non fosse sempre accompagnata dal sorriso esulante, spietato, di qualche spirito che attende in nostro trapasso; e sempre più spesso si chiedeva chi avrebbe potuto voler assistere al suo.



Una risata nel vento





Se fossi stato un poeta, avrei voluto parlare delle persone che vivono di notte.
Custodi di grandi magazzini, baristi di un piccolo locale di periferia, autisti che conducono il treno, ormai vuoto, verso la sua ultima corsa; ho sempre creduto che soltanto loro siano in grado di capire la bellezza struggente di un alba, l’amaro significato della solitudine.
Mio padre non è mai stato un uomo felice, ed ancora oggi mi chiedo se tutte le morti e rinascite del sole a cui sia stato costretto ad assistere non abbiano contribuito a forgiare quell’eterna luce amareggiata dei suoi occhi.
Negli anni della mia infanzia ero solito seguirlo quando andava a lavorare, non sopportando di vedere la sua schiena curva che usciva di casa senza di me; inginocchiato sui sedili macchiati di un vagone deserto, fronte premuta contro il finestrino e sguardo attento, osservavo il paesaggio mutare rapido ed implacabile al nostro passaggio.
Allora non avevo ancora gli strumenti per capirlo, ma ora so come quella dolorosa stretta che ogni volta mi attanagliava il petto non fosse altro che una profonda malinconia.
Ero stato un bambino triste, il silenzioso ed introverso ragazzino bruno delle ultime file, eppure lo splendore notturno dell’infelicità di mio padre mi aveva impedito di comprenderlo.
La prima volta che la vidi fu durante uno di questi viaggi, quando, troppo stanco per rimanere sveglio, mi ero rannicchiato in un angolo del vagone per abbandonarmi al sonno.
Fu la sua risata a ridestarmi, inafferrabile e limpida come il suono di piccoli campanelli nel vento.
Aprendo gli occhi mi accorsi che era una bambina dai lunghi e sottili capelli color cenere, di due o tre anni più piccola di me, con indosso un prendisole bianco scolorito dal tempo.
Le sue spalle esili erano scosse dai singhiozzi che parevano riempiere l’aria attorno a noi; e mi stupii di questo particolare, perché ero certo che fino a pochi istanti prima stesse ridendo.
Titubante, mi tirai a sedere.
- Chi sei? -.
Non ottenni risposta, come se lei non avesse neppure udito la mia voce.
Ora più infastidito che timoroso allungai il braccio per toccarla, non potei sfiorarla che la bambina si voltò all’improvviso verso di me.
Riuscii fugacemente ad immergermi in un paio di profondi occhi scuri, prima di non vedere più nulla.
Fu solo un istante, lungo quanto il battito di una farfalla, e quel vecchio vagone tornò ad ospitare me, e me soltanto.


la seconda volta che la vidi fu al funerale di mio padre; durante l’ultimo anno delle medie.
Era una piovosa giornata di novembre, ed il cielo era rimasto coperto dalla pesante cappa plumbea delle nuvole sin dal mattino.
Se fossi stato un bambino mi sarei ricordato quello che mi raccontava mia madre, di come le gocce di pioggia fossero le lacrime degli angeli in cielo; se avessi avuto un minimo di fiducia in Lui avrebbe potuto credere che fosse stato Dio stesso a commuoversi.
Invece, non pensai ad altro che la morte in sé non aveva il potere di cambiare le cose.
Mio padre aveva preso abbastanza sonniferi da dormire per sempre; ma questo cosa avrebbe mai potuto significare per il mondo, per una città, per il vicino della porta accanto?
La voce monocorde del prete mi scivolava addosso come acqua, e non riuscii a capire quasi nulla di ciò che stava dicendo. Lasciai vagare il mio sguardo sul quello che mi circondava; un modesto cimitero di campagna con le sue lapidi ed i suoi sentieri ombrosi.
Inizialmente fu solo un’ombra, pensai prodotta dalla mia mente e dalla tensione a cui era stata sottoposta fino a quel momento. Poi prese a diventare più nitida, fino ad acquisire dei contorni definiti.
La riconobbi subito, esile e minuta come ero certo di averla vista. Nonostante avessi finito per catalogare il nostro incontro come uno scherzo del sonno non ero mai riuscito a convincermi del tutto di quella logica e plausibile spiegazione, e, a dispetto del dolore che quasi mi stordiva, il mio cuore ebbe un balzo in petto quando posai gli occhi su di lei.
Era accovacciata a terra, immobile davanti ad una piccola lapide bianca.
Le mie gambe si mossero prima che potessi rendermene conto, ed incurante del bisbiglio inorridito di mia madre mi allontanai dalla funzione per raggiungerla.
- Sono io -.
Con il senno di poi non avrei potuto che trovare sciocco un simile esordio, ma allora la trovai l’unica cosa giusta da dire.
Lei volse la testa verso di me, come quella notte nel treno, tuttavia questa volta quando i nostri occhi si incrociarono non accennò a voler scomparire.
Si limitò a fissarmi, le labbra increspate in un lieve broncio infantile.
Le tesi la mano, esitante, e solo in quell’istante mi accorsi del tremore appena percettibile che mi stava scuotendo le spalle. Deglutendo a fatica chinai il capo, ritraendo di scatto il braccio.
Lei non mostrò alcuna reazione per il mio gesto, tornando invece a concentrarsi sulla lapide.
Lieto di potermi concentrare su qualcosa di diverso - perché sapevo di stare tremando, e la mia debolezza mi atterriva al punto da non riuscire a respirare - vi spostai a mia volta lo sguardo.
L’epitaffio era breve, poche righe che non mi attardai a leggere, poste sotto il nome del defunto.
Claire Haseley, 1992 - 1998.
La foto che catturò la mia attenzione era l’istantanea di una bambina bionda che sorrideva timidamente all’obbiettivo, le mani intrecciate in grembo.
Rimasi ad osservarla a lungo, quasi aspettandomi di potervi scorgere lo stesso barlume di vita che possedeva la creatura al mio fianco; sempre che di vita si potesse poi parlare.
I suoi singhiozzi mi giunsero alle orecchie sommessi, come se per arrivare a me stessero attraversando una barriera che io non sarei mai stato in grado di scavalcare.
Mi girai a guardarla, ritrovandomi ancora una volta a fissare il vuoto. Solamente il rumore del pianto perdurava, cullato e guidato dal vento.
Cinque anni fa, quel ventinove luglio del ’98, indicava il giorno in cui la incontrai nel vagone del treno, durante l’estate dei miei otto anni.
Claire.
Era solo un nome, il nome di una bambina morta troppo presto per poter accettare di lasciarsi alle spalle questo mondo; eppure, prima di questo momento non avrei mai pensato che un qualcosa a me estraneo avrebbe potuto acquisire una tale importanza ai miei occhi.
Non mi sorpresi che uno spirito stesse vagando sulla terra, né che io, senza capirne il perché, fossi in grado di vederlo. Ciò che mi lasciò quasi senza fiato fu come il mio arido cuore di tredicenne, incapace persino di versare delle lacrime per il proprio padre, si sentisse ora inspiegabilmente, dolorosamente coinvolto verso un’altra creatura.


Da quel giorno divenni un assiduo frequentatore della biblioteca, ormai vittima di una frenesia che non avevo mai sperimentato in passato.
L’unica cosa concreta che stringevo in mano erano dei nomi e delle date, e decisi che per arrivare ad un qualcosa di più significativo sarei dovuto risalire ai genitori di lei.
Non era un’idea così brillante come allora caparbiamente credevo, ma trascorrere intere ore a sfogliare giornali vecchi di cinque anni per ricercare un annuncio mortuario, in qualche modo fu la prima cosa in cui impegnai tutte le mie energie.
Mia madre non disse mai nulla sul mio comportamento, ma sapevo che intimamente mi biasimava.
Glielo leggevo sulle labbra quando mi vedeva rigirarmi il foglio stropicciato dove avevo annotato ogni cosa tra le dita, sapevo scorgerlo nei suoi occhi le volte in cui uscivo per rinchiudermi in biblioteca.
Credeva fossi crudele ed insensibile a comportarmi in questo modo durante il periodo del lutto, non comprendendo che la mia ossessione era alimentata proprio dal dolore di quella perdita, e dalla rabbia ad esso legato.
Disprezzavo mio padre per la sua debolezza; lo detestavo con ogni fibra del mio essere perché ero conscio di essere uguale a lui.
E con l’odio e la sofferenza veniva intensificato il mio grottesco legame con quella bambina; in un continuo circolo vizioso.
Trovai quello di cui avevo bisogno quasi per caso, sfogliando nuovamente i giornali risalenti al mese e l’anno della sua morte. Fu solo grazie ad un moto di frustrazione che ne gettai uno a terra, e nessuno potrà mai dissuadermi dalla certezza che la mia mano venne guidata da qualcuno quando, nel raccoglierlo, afferrai casualmente la pagina della cronaca.
La foto di lei si stagliava per quasi metà foglio, nitida e sorridente. Quell’infantile piega delle labbra la considerai un particolare grottesco considerando l’articolo che seguiva, come se l’autore avesse voluto rendere esasperato il senso dell’orrore che un eventuale lettore avrebbe potuto provare.
Lessi del suo rapimento in una cittadina poco distante, la sua scomparsa nel nulla mentre la madre si attardava pochi minuti a saldare il conto in un negozio. Poche, inconcludenti indagini, ed il ritrovamento, meno di ventiquattro ore dopo.
Le parole balzavano davanti ai miei occhi in modo disordinato, incastonandosi un puzzle che non ero certo di voler comporre. Il grande campo di fragole fuori dal paese, il suo prendisole bianco stracciato, sistematole quasi premurosamente sotto il capo; il sangue che macchiava l’erba, esami della scientifica e lacrime di genitori attoniti. Infine, l’arresto di un tranquillo e benvoluto dipendente delle poste.
Richard Anderson.
Quel nome mi fu estraneo quanto quello di lei, e mi sentii così avvilito da non riuscire a frenare le lacrime di rabbia che mi appannarono la vista.
Per quanto fossi ancora abbastanza infantile da avere una piena fiducia nelle mie capacità, ero anche sufficientemente adulto da comprendere quando mi capitava di sbattere la testa contro un vicolo cieco.
Non avrei mai potuto rintracciare delle persone la cui figlia era stata assassinata, e se anche vi fossi riuscito dubitavo avrebbero mai voluto parlare con me.
Non conoscevo l’omicida, non conoscevo lei. Non sapevo nulla. Ironicamente, solo in quell’istante mi resi conto di non avere alcuna utilità in quella storia.
La sgradevole sensazione di essere superfluo mi strinse una morsa in petto, e per scacciarla calpestai con collera il giornale, più e più volte.
Quel giorno me ne andai senza guardarmi indietro, ma anche fissando ostinatamente davanti a me avvertii qualcuno seguirmi con lo sguardo.
Mi voltai solo per fugace istante, attratto da forze più grandi a cui la mia volontà non sapeva opporsi. Tutt’oggi, pur a distanza di tanto tempo, mi chiedo se non fosse stato l’odio che lessi in quegli occhi neri, troppo poco simili a quelli di una bambina, a provocarmi il brivido gelido che mi tolse il respiro.


La rincontrai l’anno seguente, quando oramai avevo quasi perso ogni segreta speranza.
Era un’afosa domenica senza tempo, intrappolata nell’afa che aveva avvolto la mia cittadina. Giacevo annoiato sul letto quando sentii la voce ovattata di mia madre discutere al telefono, seguita dopo poco tempo dal rumore della cornetta bruscamente rimessa al suo posto.
Entrò nella mia camera subito dopo, le labbra serrate e gli occhi ridotti a due fessure.
- Vestiti - ordinò lapidaria.
- Perché? - mi azzardai a chiedere, scivolando lentamente giù dal letto.
- Andiamo a trovare tuo nonno -.
Questo, mi sorprese.
Mio nonno paterno era morto prima che nascessi, e l’ultima volta in cui riuscii a ricordare di aver visto quello materno risaliva a molti anni prima. Da bambino non avevo pensato a domandare per quale motivo il nonno non venisse più a farci visita, ma ora la curiosità si impadronì di me, impedendomi di notare l’aria cupa di mia madre.
- Come mai è sparito per così tanto tempo? -
- E’ dovuto rimanere a lungo in un posto -.
La sua risposta evasiva non mi soddisfò in alcun modo, ma lei mi interruppe prima che potessi aggiungere altro.
- Preparati Philip, per favore. Dobbiamo fare in tempo per il treno delle quattro -.
Nell’ascoltare quelle parole rammentai in modo vago come mio nonno abitasse in un altro paese, ma non seppe risalire a nulla di più preciso.
Avrei voluto indagare ancora, tuttavia mi ritrovai ad ubbidire in silenzio. In seguito alla morte di mio padre lei era diventata una donna nervosa, sempre pronta a scatti d’ira e gesti stizziti, eppure non le avevo mai visto l’espressione feroce di quel momento.
Il nostro fu un viaggio teso, dominato dal suo umore tetro e dal mio disagio. Realizzai troppo tardi che non ero ancora pronto per salire su di un treno, e stringere spasmodicamente il lembo della giacca non servì a frenare il tremore delle mie mani.
La chiamai; nonostante il terrore provato durante il nostro ultimo incontro la pregai di tornare ancora una volta da me. Era un desiderio irrazionale e folle, ma proprio per questo tanto trascinante.
Forse la mia era una reazione alla solitudine, forse volevo solo convincermi che ci fosse qualcosa o qualcuno a questo mondo per cui io fossi indispensabile; perché, altrimenti, si sarebbe mostrata a me solo?
O forse, chissà, ero semplicemente pazzo.
Della strada che percorremmo per raggiungere la casa di mio nonno non riuscii a realizzare quasi nulla, solo frammenti confusi che si mischiavano tra di loro.
L’indirizzo che mia madre diede al tassista ci portò in una zona poco fuori dal paese, con piccole villette a due piani dai colori chiari e cortili ordinati.
Quella davanti a cui ci fermammo non differiva in nulla dalle altre, e quel piatto anonimato così angosciante non fu d’aiuto per l’ansia che si rifiutava di abbandonarmi.
Mia madre rimase con la mano sollevata a pochi centimetri dal campanello, senza accingersi a suonarlo. Aggrottai le sopracciglia nel notare il suo atteggiamento, ma mi guardai dal dirle qualcosa.
Per impedirmi di fissarla troppo insistentemente mi misi ad osservare tutto e niente allo stesso tempo, immobilizzandomi quando la targhetta posta accanto alla porta mi saltò agli occhi.
Era semplice, di un legno laccato con su scritto sopra solo l’identità del proprietario di quella casa. Un cognome, nulla di più.
Senza accorgersi del mio viso cereo lei si decise finalmente a suonare, premendo il campanello con una tale forza che il suono tagliò l’aria.
L’uomo che venne ad aprirci era molto più anziano di quello che mi ero immaginato, ma nonostante il viso stanco e segnato gli occhi brillavano di una lucidità che mi mise quasi in soggezione.
- Ti avevo detto di non cercarmi mai più -.
La brusca uscita di mia madre mi turbò, invece lui la accolse con pacata ironia.
- Non ci incontriamo da sei anni ed è così che accogli tuo padre? - le chiese beffardo.
Vidi mia madre mordersi nervosamente il labbro, ma il suo sguardo rimase fermo ed affilato come la lama di un coltello.
- Sei anni sono stati anche troppo pochi - replicò gelidamente.
Lui emise un suono simile ad un sospiro, ma che avrebbe potuto anche essere un brontolio minaccioso.
- L’attenuante dell’infermità mentale è di grande aiuto, tesoro -.
- Non davanti al bambino - sibilò lei.
In un altro momento mi sarei offeso a sentirla appellarsi a me in quel modo, oltretutto parlando come se io non fossi accanto a loro, ma adesso nella mia mente non c’era spazio per cose simili.
Vi vorticavano una miriade di pensieri diversi, violenti, imprevedibile, che riuscirono a prendere forma solo nelle parole che pronunciai di getto, quasi vomitandole.
- Come ti chiami? -.
Alla mia domanda lui scoppiò in una breve risata, così simile ad un grido rauco che mi sentii rabbrividire.
- Non conosci il nome di tuo nonno? -.
Arrossii, nonostante il suo tono non fosse stato propriamente accusatorio. Nel mio imbarazzo non ci accorsi che lui stava guardando con rancore mia madre, né che lei ricambiava il suo sguardo con altrettanto astio.
- Richard - mi disse alla fine. - Richard Anderson, mio caro Philip -.
Prima che potessi dire qualcosa, qualsiasi cosa, la vidi per quella che ormai sapevo sarebbe stata l’ultima volta.
Prese forma all’improvviso, comparendo vicino a mio nonno come un alito di vento.
Il mio cuore prese a battere più forte, ma non mi mossi quando la guardai sollevarsi da terra, arrivando all’altezza del suo volto. Ebbi un solo sussulto nel momento in cui le sue piccole mani affondarono nel torace di lui, ed anche senza vederlo realmente raffigurai con nitidezza nella mia mente quelle dita infantili serrarsi attorno al cuore.
Mi immaginai il sangue che cessava di correre, le funzioni vitali scattare impazzite in stato d’allarme seguendo un mero istinto di sopravvivenza.
Mio nonno sbarrò gli occhi, perdendo la presa sulla lattina di birra che cadde con un tonfo sordo sul pavimento. Mia madre gli si avvicinò, allarmata suo malgrado, impallidendo alla vista del suo viso ormai cianotico.
In passato mi era capitato di chiedermi cosa accadesse in un uomo al momento del suo trapasso, e rimasi quasi deluso del corpo che ora mi stava riverso davanti agli occhi.
Non c’era nulla di nobile in quell’aspetto da bambola rotta, e le pupille che riflettevano il vuoto mi costrinsero ad abbassare lo sguardo.
Lei era ancora lì, e per un fugace istante i nostri occhi si incrociarono.
Sordo alle grida di mia madre rimasi immobile, le labbra socchiuse come a voler sussurrare parole che non avrei mai avuto il coraggio di proferire.
Infine, dopo un battito di ciglia non rimase nulla. Solo la sua risata continuò a protrarsi nell’aria; fredda come il vento che ti passa attraverso le dita in una serata invernale.
Anche adesso che sono vecchio, stanco e solo più di quando non sia stato a quei tempi ricordo con estrema nitidezza l’ espressione che mi mostrò pochi attimi prima di andarsene.
Mi rigiro la pistola tra le mani, trastullandomi all’idea di far partire o meno il proiettile con un infantilismo che non da bambino non aveva mai avuto.
Ancora oggi mi viene da domandarmi se la morte di qualcuno non sia sempre accompagnata dal sorriso esulante, spietato, di qualche spirito che attende in nostro trapasso; e sempre più spesso mi chiedo chi potrebbe voler assistere al mio.
Forse sarebbe venuta lei stessa a prendermi, magari non si è mai dimenticata di me.
Mi punto la canna alla tempia, e lascio scivolare il dito lungo il grilletto. E’ freddo, e pare capace di rubare sin da ora il calore della mia mano.
- Claire? -.
Un riso trattenuto mi giunse all’orecchie al di sopra dello sparo, piccoli campanelli dal suono chiaro e pulito.
Ne seguì il fruscio del vento, e mi resi conto per la prima volta quanto fosse simile al rumore del pianto.




 
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