Credo di poter dire, [24/10/08] Legami di sangue

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Fantafree
view post Posted on 4/1/2009, 23:59




Rating: 16 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 4035, contante con Word.
Avvertimenti: Angst.
Genere: Drammatico, Sovrannaturale (forse...un pochino XD).
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Note dell'Autore: Il sentimento che ho scelto come chiave è il rancore.
Introduzione alla Storia:
Se davvero qualcuno leggerà, sappi non mi rivolgo a te scrivendo quanto segue. In fede, che la mia firma qua in fondo non sia l'ultima parola che scriverò, che alzando lo sguardo dalla carta veda solo vecchie foto e il mio caffè.




Credo di poter dire fin da ora che questo scritto rimarrà senza titolo e senza rivisitazione. Tutto quello che ho da dire lo dirò così com’è, non ho più nessuno da impressionare e non voglio mentire adesso.
Quando è buio ho troppa paura per fare il mago e inventare scuse come faccio di giorno, per cui scriverò di notte.
Non sono sempre stato un prestigiatore, quando arrivai per la prima volta a Crouch ero scampato per un pelo alla guerra nei deserti giù a sud, che come so adesso e come pensavo anche allora non avrebbero mai finito di far da sfondo alle ostilità fra noi stranieri e i loro abitanti nativi.
Io almeno ero sopravvissuto - i miei genitori e mia sorella non avevano avuto la stessa fortuna. Quindi capite, mio pubblico inesistente, che la prospettiva di vivere da saltimbanco cantando e raccontando storielle sconce non mi pareva più divertente come prima.
Ma a Crouch conobbi la ragazza che sarebbe diventata mia moglie, proprio durante una delle mie esibizioni.
Una ragazzina coi capelli rossi mi saltellava intorno fingendo di saper ballare, mentre io e il mio compare cantavamo filastrocche su peti di cavalli e brutti raggiri a fanciulle vergini e poco accorte, quando mi capitò di alzare gli occhi su quella che era, ne sono certo, la più bella ragazza del paese, e certo allora mi parve anche la più bella fra quelle che avevo visto nella mia breve vita.
Si copriva la bocca con la mano per nascondere un sorrisetto, più un vezzo che autentico pudore.
Di certo stonai un poco e mi persi qualche parola per strada per come ne rimasi colpito, ma non avevo un pubblico tanto attento e pignolo da accorgersi di una tale mancanza.
A fine spettacolo raccolsi le monete ricevute e intascai quanto mi spettava, e subito andai a cercare la ragazza. La trovai che parlava con la nostra ballerina improvvisata, che feci sloggiare ridendo con un battito di mani per poter invitare l’altra a fare una passeggiata.
Fu sicuramente la passeggiata più lunga della mia vita (se non si includono quelle spiacevoli) e anche se non parlò tanto di sé, perlomeno seppi il suo nome e che non era sposata né fidanzata. Altre cose le capii senza bisogno che le dicesse, sono sempre stato un bravo osservatore, e se alcune la potevano divertire glie le facevo notare, deciso più che mai... beh, a far colpo. Ero un ragazzino dopotutto, e dar fondo a tutto il carisma che possedevo è nella mia natura di esibizionista.
E la mia compagna non era solo bellissima, era intelligente, anche se un po’ remissiva, e aveva il senso dell’umorismo. Cose banali da dire, ma ero (e sono, temo) un uomo presuntuoso, non avevo un opinione molto alta della gente nata e vissuta nei paesini, senza mai mettere fuori il naso dalla propria cuccia.
Al momento di tornare a casa (ed io di trovarmi una taverna, per nulla al mondo mi sarei rimesso in viaggio in quel momento) accettò di vedermi ancora il giorno dopo. Quando fece per andar via le dissi che se non mi baciava era solo per pudore, e non val la pena di rinunciare alle occasioni per pudore. Rise, mi prese per il naso e mi baciò sulla fronte. Vedete, mi prese per il pollo che ero fin dall’inizio. O forse non è giusto dire così, ero un burlone ma lei mi stimò tanto quanto adesso ho disgusto di me, e non è poca cosa. Non faccio la vittima... ho promesso di non mentire, no? Credo di essere in grado di guadagnarmi tutto il disgusto dei miei inesistenti lettori prima della fine.
Ma è presto ancora, i tre mesi che seguirono, al termine dei quali le chiesi di sposarmi, i nostri primi anni di matrimonio, con la nascita della mia prima figlia, sono stati il periodo più felice della mia vita.
Ci amavamo molto, e in fondo io sono un romantico, credo davvero che i sentimenti possano vincere qualunque ostacolo, anche il tempo. Adesso mi spaventa, ma ci credo.
Io mi trovai un lavoro come insegnante. Non un granché penserete, ma insegnavo solo ai figli di gente benestante (se si possono chiamare benestanti una cricca di contadini arricchiti), giovani con un futuro di commercio brillante nelle testoline, a cui era indispensabile conoscere di persona la lingua della gente con cui i paparini negoziavano. Senza contare che, gli si leggeva negli occhi, nessuno di loro aveva intenzione di trascorrere la vita in una modesta cittadina dell’entroterra.
Figli di gente che pagava bene, ad ogni modo.
Per cui, quando io e la mia giovane moglie ci trasferimmo in una casa tutta nostra, avevamo le più rosee aspettative e non vedevamo l’ora di metter su famiglia. Eravamo due tradizionalisti, sia lei che io. Ero sì vissuto da giramondo per parte della mia vita, prima per piacere e poi per necessità, ma ero cresciuto in una famiglia felice, primogenito e prediletto di papà, e avendola persa al modo in cui l’ho persa non desideravo altro che farmene una tutta mia. Avevo solo bisogno di un’occasione.
La mia prima figlia, però, tardò un po’ ad arrivare. Non che non ci provassimo.
Avrei avuto modo di scoprire che la mia bambina aveva bisogno dei suoi tempi per farsi avanti.
Quando il dottore me la mise in braccio mi parve di maneggiare una mina inesplosa, mi sentivo passato in rassegna da quella cosina con gli occhi ancora chiusi più di quanto il generale del mio reggimento abbia mai potuto fare, con sommo divertimento della neomamma.
Non la chiamammo Eleanor, ma è così che la chiamerò io qui per meglio spiegarmi, poiché io non voglio assolutamente che il vero nome di qualcuno dei miei familiari o di chiunque altro io abbia conosciuto compaia in questo scritto.
E la mia bimba, era più che carina, era bella! Somigliava alla madre, aveva i suoi capelli e la sua pelle, ma gli occhi erano i miei e nel viso, a volte, a seconda delle espressioni, mi ricordava mio padre.
Era testona ma non capricciosa e fino ai tre anni non volle saperne di dormire la notte; allora la portavamo nel lettone con noi, nel mezzo.
Ero combattuto fra la mancanza del far l’amore con mia moglie e il senso di gioia che provavo nel veder mia figlia dormire abbracciata alla sua metà del mio guanciale.
Nessuno dovrebbe morire senza aver fatto un figlio, il cielo aiuti gli sfortunati che non ne hanno possibilità.
Io sono un uomo facile all’orgoglio, ero così fiero di avere al mio fianco una donna meravigliosa, e lo fui ancora di più quando mi convinsi di piacere a mia figlia.
La mia sorellina mi detestava amabilmente, mi considerava un cicisbeo fanfarone e presuntuoso, e anche se fra fratelli si è sempre ben felici di rendersi insopportabili, speravo di fare un’altra impressione su Eleanor (è strano usare questo nome!).
Non fallii, non in quello almeno. Mi voleva bene tanto quanto io ne volevo a lei, eppure il suo non era un modo di amare infantile. Anche se rideva facilmente, non era mai spensierata, una traccia di serietà le rimaneva sempre sul viso e io ancora una volta riconoscevo come quel carattere fosse lo stesso che aveva mio padre, solo con l’aggiunta di una vitalità che a lui mancava.
Mi amava, e dava per scontato che io fossi e rimanessi per sempre un padre di cui poter essere fiera, senza variabili a cui lei potesse pensare. Proprio mia figlia, no? E in fondo aveva ragione, tutti dovrebbero poter dare per scontato l’amore e la protezione dei genitori.
Certo, potrei rispondere che siamo tutti umani e gli umani commettono errori, ma non mi piace come luogo comune, andrebbe aggiunto che ho fatto del mio meglio per non farne, ma non è così -ho promesso di non mentire, devo mantenere la parola.
Eravamo felici e io davvero pensavo che sarebbe durato per sempre, però le disgrazie succedono e con quelle davvero non c’è impegno che tenga.
Un gruppo di banditi che avevano dato forfait alla guerriglia nel paese vicino fece razzia a Crouch, nel nostro paesino di reduci o di gente che la guerra neanche sapeva dove la si combattesse. Uccisero quattro persone, anche un bambino; quando successe Eleanor era a scuola, io a lavoro e mia moglie sola in casa. Filai verso casa più veloce che potevo quando sentii della carneficina nei campi, e un vicino mi disse che era rimasta ferita ed ora era in ospedale.
Se non sono morto d’infarto quel giorno per il correre e la paura posso dire con certezza che non è questo male che mi porterà nella tomba.
Non volevo sapere quello che già immaginavo e corsi nella stanza in cui l’avevano ricoverata senza dar ascolto al dottore, e la trovai che piangeva sul letto, con un braccio fasciato.
Quando mi vide mi tese le braccia e corsi ad abbracciarla. Avevo paura e mi sentivo inutile per non averla protetta, ma soprattutto perché non sapevo che avrei fatto né cosa risponderle mentre mi diceva che uno di quei bastardi l’aveva violentata e che avrebbe voluto vomitare fino a farsi uscire le budella per l’umiliazione e il disgusto.
Ed io, che potevo dirle? Che sarebbe andato tutto bene? Era già andato male. Per amor suo mi rimboccai le maniche per fingere di non essere spaesato quanto lei, le dissi che l’amavo tanto ed ero sincero. Le dissi tante altre cose, quelle dolcezze sceme che gli innamorati si dicono quando rischiano di perdersi; ed io ero terrorizzato a morte che lei non mi volesse più accanto quanto lo era lei che lo facessi io.
Ma passò. Mi presi cura di lei quanto più potevo, forse ero fin troppo; a poco a poco ricominciammo a fare l’amore e a occuparci di nostra figlia come meritava, anche se lei non si lamentò mai se qualche volta la trascuravamo.
Non era grande abbastanza per spiegarle cos’era successo, ma capiva che la mamma si fatta male abbastanza seriamente da aver bisogno di tempo per riprendersi.
All’inizio fu difficile per lei, ma era un donna forte (ho già detto quanto ero e sarò sempre fiero di averla sposata) e riuscì a superare quello schifo.
Quando pensavamo di essere sulla giusta via per buttarci tutto alle spalle, mia moglie scoprì di aspettare un bambino.
La possibilità che non fosse mio era minima ma bastò a mantenere fra noi un sottile linea di tensione, finché non le chiesi di richiedere delle analisi su un campione dalla città per sapere se era mio figlio. Era costoso, ma potevamo permettercelo, anche la moglie dell’uomo da cui lavoravo aveva fatto qualcosa del genere, o almeno così mi pareva.
Lei si rifiutò, mi disse che se intendevamo tenerlo lo dovevo amare a prescindere, perché era figlio nostro e l’avremmo cresciuto noi, non perché avevamo lo stesso sangue. A che serviva, mi chiese, se avessi saputo che Eleanor non era figlia non le avrei forse più voluto bene?
Se ero d’accordo? Teoricamente sì. Ero sicuro che guardare un figlio che non mi somigliasse e non poter ammettere con se stessi che quella sottile inquietudine in fondo allo stomaco non se sarebbe mai andata, beh, sarebbe stato diverso.
Ma comunque non l’avrei mai costretta ad abortire, e quando la pancia prese a gonfiarlesi non ci pensai quasi più. Lo trovavo curioso, voler bene a due persone in una.
Quando nacque, la mia secondogenita era piccola, bianca come un serpente albino e con un ciuffo di capelli neri sul capino. Non le mettemmo nome Jean, ma sapete già che la chiamerò così.
Il guaio era che era lo specchio di sua madre, anche se più gracilina. Non aveva niente in cui potessi riconoscermi senza dubbi, né tratti che non potessi attribuire a sua madre (e alla madre di sua madre per quanto concerneva le manine piccole, a detta della mia dolce metà).
No, in verità il guaio non fu lei e il suo non assomigliarmi, tutti i guai che seguirono alla sua nascita sono mie colpe.
Cominciai a sentirmi come estraniato dalla mia famiglia, sentivo che loro erano miei, ma io non appartenevo a loro. Era uno strano e stupido modo di sentirsi soli. Capisco adesso che forse non era che il capriccio di un presuntuoso egoista (oh, sorellina), che non accettava che le cose non fossero andate secondo i suoi desideri.
Mi allontanai da mia moglie, la tradii e mi allontanai dalle mie figlie senza quasi accorgermene.
In cuor mio, sapevo che Eleanor per prima e suo madre dopo avvertivano questo cambiamento, ma per Jean non era lo stesso, ci era nata e cresciuta in quel clima di silenzi e cose non dette.
Lei stravedeva per il papà, e sentendolo così distaccato faceva di tutto per attirare la mia attenzione. Voleva che fossi fiero di lei, non è buffo? Non lo sono mai stato. E ora so che dal momento in cui è nata la mia bambina ha passato ogni momento della sua vita chiedendo aiuto, ma non sono mai venuto a prenderla per portarla nel lettone.
Una volta eravamo soli in casa, io aggiustavo delle scartoffie mentre lei giocava con dei dadi colorati impilandoli a forma di castello. Lei mi guardò mentre mi alzavo per andare a versarmi del caffè e mi chiese se le volevo bene.
“Papààà, mi vuoi bene?” quante volte lo avrò sentito dalla mia sorellina, quando si annoiava e non aveva altro da fare che attaccarsi ai calzoni di papà e fare domande inutili, allo scopo di far le fusa alla faccia del fratello.
Però non era così che me lo chiese Jean, le vedevo il dubbio negli occhi e mi chiedevo come -come?- potessimo essere arrivati a quel punto.
Le chiesi che razza di domanda era mai quella, certo che le volevo bene, ma forse lo dissi troppo seccamente perché si mise a piangere lo stesso, facendo crollare inavvertitamente il castello di dadi.
Pianse per tutta la sera, è un ricordo molto nitido, quello di me che la tengo in braccio e giro per ore in cucina e in corridoio. Non credevo, neanche dopo averle accudite fin da piccole, che una persona potesse contenere così tante lacrime. Quando il pianto si ridusse a singhiozzi eravamo tutti e due stanchi come gufi diurni e mi addormentai sul divano insieme a lei, aggrappata al mio fianco e ancora tremante perfino nel dormiveglia.
Non lo accettavo anche se avrei fatto meglio a farlo, ma era una ragazzina fragile e lo sarebbe sempre stata. Non aveva bisogno di essere spronata, aveva bisogno di conforto, a cui sua madre provvide abbondantemente, e di sostegno e fiducia, che sarò sempre grato a Eleanor per averglielo fornito al posto mio. Anche se so cosa farebbe ora come allora della mia gratitudine.
Ma la situazione andò pigramente a peggiorare, mentre a me capitava sempre più spesso di fare le ore piccole e lezioni notturne, ora in compagnia di questa o di quella, ritirando fuori dal baule il mio vecchio umorismo e la mia parlantina da quattro soldi. Andai a letto anche con una mia alunna, augurandomi che il padre non lo venisse a sapere e mi castrasse su due piedi con la zappa che teneva nel ripostiglio. Quando ormai si è dato il via alla caduta, più si va giù meglio si sta, almeno a me così sembrava.
Amavo ancora mia moglie, ferirla era come ferire me stesso, ed era quello che volevo.
Mi era stato chiesto di dimostrarmi un uomo migliore, più forte di come ero abituato ad essere, ed ero stato capace solo di scendere più in basso che potevo per sconforto o per una sorta di ripicca, come un gonzo o un ragazzino.
Più stavo fuori, a lavoro o con altre donne, meno ero costretto a sopportare gli sguardi freddi più che accusatori di Eleanor, quelli patetici e supplicanti di Jean, o vedere come mia moglie si sciupava e non mi guardava più negli occhi.
Aspettavo solo di arrivare in fondo alla discesa e flop!, fine dei giochi. Che sarebbe stato della mia famiglia? Non ci pensavo.
La fine arrivò, ma non era esattamente come me l’ero immaginata io.
Una sera ero rimasto a dormire da una delle mie amiche, inventando non so quale scusa con mia moglie, una bionda cittadina che era venuta a stare in paese per aiutare il fidanzato a regolare i conti con sua madre.
L’avevamo appena fatto e stavo armeggiando alla macchinetta del caffè (robaccia tecnologica di città) quando qualcuno prese a tempestare di pugni la porta di casa. Lei si infilo una vestaglia in fretta e furia, dicendomi di restare lì, in caso fosse il suo fidanzato inaspettato, e quando aprì la porta quel tanto che glie lo consentiva il catenaccio per chiedere chi è sentii mia figlia chiederle di chiamare suo padre. Non la chiamò puttana e non so perché non lo fece, sarebbe stato da lei. Quando scesi e mi guardò, coi capelli spettinati e la camicia spiegazzata, non ebbi bisogno di aver disgusto di me, avevo lo specchio migliore del mondo nei suoi occhi, ci vidi tutto, rabbia, schifo. Odio. Poi tornò il lampo passò e tornò fredda come prima, dicendomi che mamma si era sentita male, ma non voleva per nessuna ragione chiamare il dottore.
In quel momento capii di aver perso mia figlia senza possibilità di ritorno -non importa quanto le cose potessero migliorare, non mi avrebbe mai perdonato e non avrebbe dimenticato di essersi dovuta vergognare di suo padre.
Quando arrivai a casa Jean stava porgendo a sua madre una tazza fumante di qualcosa, e lei sembrava stare abbastanza bene. Ma per Dio, quando era diventata così magra?
Le strinsi la mano e la sentii che provava a ritirarla.
Disse di avere solo un po’ di febbre e che voleva parlarmi da sola. Quando Jean e Eleanor furono in camera loro mi chiese di andare via, per il bene nostro e delle ragazze.
Forse avrei dovuto accettare, sarebbe stato meglio, invece mi buttai ai suoi piedi piangendo e affondandole il viso in grembo. Le promisi che sarei stato un marito migliore, un padre migliore, che non avrei più guardato un’altra donna che non fosse lei –l’amavo, le altre non erano contate niente, ma che per favore non mi lasciasse.
E come in fondo sapevo anch’io mi amava troppo per farlo. Provammo a fare l’amore quella sera ma sembrava che fossimo tornati a subito dopo lo stupro, quando non riusciva neanche ad abbracciarmi senza tremare. Come poteva essere precipitato tutto fino a quel punto? Certo, avevo sbagliato, ma mi sembrava ieri quando andava ancora tutto bene.
Ero zelante, non volevo sprecare l’ultima occasione che avevo per rendere felici i miei cari, e una sera che avevo lasciato dei fogli a “scuola” ne approfittai per comprarle dei fiori.
Quando le dissi che uscivo a prendere le scartoffie vidi un ombra passarle sul viso e mi affrettai a consolarla. Sarei tornato in mezz’ora, andavo solo a prendere quelle carte, e le avrei portato una sorpresa. Sorrise un poco almeno, e mi diede un bacio.
Il fioraio lo trovai già chiuso, ma c’era ancora qualcuno dentro e battei alla porta finché non si decise ad acconsentire a farmi un mazzo di rose volante.
Però ci misi più di mezz’ora, per la deviazione e per quei maledetti fiori ci misi quasi un’ora e mezzo, e quando rientrai mia moglie era già a letto.
Si era distesa sul letto, ancora vestita da casa, e quando visi quella scatola di pillolette blu sul comodino -neanche sapevo che avesse quei cosi in casa, buttai per terra rose e fogli per tirarla su e farle vomitare la roba che aveva preso. Quando la tirai su per le spalle sperimentai cos'è un cuore spezzato, non lo dimenticherò mai. E' un'espressione maledettamente romantica, ma io sono un romantico, e non ne ho mai trovato un'altra che descrivesse altrettanto bene quello che ho provato quando le ho messo la mano sotto il collo e non ho sentito più nessun battito.
Lo chiamata, le ho sentito il polso, finché non mi è rimasto altro da fare che piangere. L'ho abbracciata e ho pianto finché qualcuno (mia figlia? Quale delle due?) non dovette chiamare il dottore o chiunque fosse quello me la tolse di mano. Ma mentre ero lì, da solo con mia moglie ancora calda fra le braccia, ho sentito il ticchettio dell'orologio e ho saputo che era morta sola e disillusa, perché non ero tornato e le avevo mentito un'altra volta.
E la odiai quasi perché aveva ragione, quello del miglior padre e del miglior marito era solo un altro dei miei capricci, Dio sa cosa sarebbe venuto dopo, e lei era stata troppo stanca per assecondarmi ancora. E non aveva trovato altro modo per dirmelo.

Il ricordo dei giorni che seguirono fino a quello in cui Jean morì è nebuloso. Eleanor la vidi solo al funerale, poi se ne andò da una amica (era maggiorenne, ormai).
Jean era andata a stare da quasi due mesi dalla zia materna, vicino alla città, per curarsi una brutta polmonite. Quando lo seppe dalla lettera che un suo stupido amico riuscì a mandarle prima che lo facessi io, ne scrisse una indirizzata a me, nome e cognome, data in alto a destra e firma in fondo a sinistra, dove mi chiedeva di perdonarla perché non aveva mai voluto far del male a nessuno, addio papà, ti voglio bene.
Dopo averla spedita era andata alla stazione piangendo e come poi mi raccontò un ragazzo suo coetaneo, che fra i tanti lì presenti se la sentì di farlo, lesse distrattamente un quotidiano con le lacrime agli occhi e quando arrivò il treno si lasciò cadere sulle rotaie.
Fine dei giochi per lei, e sono sicuro che si è sentita felice alla prospettiva di venir pianta e amata una buona volta, anche se da morta.

Con Eleanor parlai un'altra volta soltanto, prima che se ne andasse in città. Mi disse non avrebbe mai avuto un uomo né una famiglia, ora che la sua non esisteva più, e non voleva qualcuno che l'amasse tanto da farla morire.
Poi gettò dei fogli sul tavolo, della roba che aveva fatto arrivare dalla città dopo la morte di Jean.
Erano le analisi del nostro sangue. Jean era mia figlia.
Aveva sempre detto che aveva il mio naso, mi disse freddamente, e quando cominciai a piagnucolare con il viso nelle mani e le chiesi di lasciarmi solo mi prese in parola.
Non la rividi mai più viva. O forse sì, si può chiamare vita quella?
Anni dopo l'andai a cercare per tutto il paese e seppi che le era accaduto un fatto terribile quanto strano. Me lo disse la sua ragazza: la mia bambina aveva mantenuto la sua promessa.
Era diventata una donna bella anche se un po' ombrosa, e come biasimarla? La vedevo abbracciata nelle foto a quella ragazza bionda e magrolina che ora mi raccontava come un giorno mi figlia fosse sparita, e l'avessero ritrovato dopo non meno di quarantotto ore, sulla spiaggia sassosa del mare lì a Nord, incapace di parlare e di fare qualsiasi altra cosa oltre respirare.
In stato catatonico, come era ancora quando l'andai a trovare in ospedale.
Aveva occhi bellissimi, fissi sul soffitto, respirava da sola ma era alimentata da un ago in vena.
Quando l'ho vista ho avuto un malore, ma la sua ragazza a cui non sembravo stare molto simpatico mi portò fuori credendo a uno shock improvviso, mentre io avevo solo paura.
Una paura fottuta.
Perché vedete, quegli occhi e quella stanza non mi hanno mai più abbandonato.
Lo faranno ora, che ho ripercorso tutta la strada da capo?
Ho paura nel buio, ho paura di quel che potrei vedere (e che ho visto, Dio mi aiuti) nei miei incubi, ho una paura fottuta dell'acqua scura, ho paura di essere trascinato giù.
Ho paura che il rancore che le ho visto negli occhi non si esaurisca mai e mai e mi perseguiti in eterno.
Non torturarmi più così, o altrimenti, vieni a prendermi!
Sarei ben felice di andare in ogni posto tu mi voglia portare, qualunque posto.
Non puoi guardarmi per sempre, non chiedo pace né perdono, tirami piuttosto giù con te.
Ma non posso più sopportare quello sguardo!


In fede,
Anonimo.



Edited by Fantafree - 5/1/2009, 00:39
 
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