18 ottobre 1943, [28/01/09] Home Sweet Home

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cassiana
view post Posted on 25/3/2009, 16:55




Rating: Per tutti
Tipologia: One-Shot
Genere: Generale, Introspettivo, Storico.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: In primo luogo a mia nonna che spesso mi ha raccontato questa e altre storie di guerra, ai centinaia di manuali di storia contemporanea letti durante i miei studi universitari, a History Channel, La Storia siamo noi, internet e Wikipedia per le rifiniture.
Note dell'Autore: Questa storia è liberamente ispirata ai ricordi di mia nonna, testimone oculare dei fatti narrati, così come la figura di Biancamaria. Pur cercando di mantenermi quanto possibile aderente agli accadimenti storici, eventuali imprecisioni sono dovute alla sottoscritta (e alla labile memoria di mia nonna!).
Introduzione alla Storia: Biancamaria è una ragazza un po’ ingenua e frivola, cammina in una Roma devastata dalla guerra e non si rende del tutto conto della tragedia che la circonda. Fino ad un evento inaspettato che comincia a farla riflettere…

Sei e mezza del mattino. La stanza era buia e soffocante, gli scuri strettamente serrati dalla sera prima, per via del coprifuoco. Un mormorio e una lieve scossa sospinsero gentilmente Biancamaria fuori dal sonno. La ragazza sbadigliò e fece una smorfia quando la madre, con un rumore stridente, sollevò le serrande per fare entrare la debole luce di prima mattina. Il cielo aveva un aspetto malaticcio, giallastro per via dei fumi e dell’opprimente umidità che sembrava aver avvolto la città come un panno intriso d’acqua. Biancamaria sbadigliò di nuovo e svolse il lenzuolo umidiccio dalle gambe magre. Si alzò di malavoglia intanto che la madre le intimava di sbrigarsi. Giuliana, la sorella, si era già preparata e la stava aspettando in cucina per fare colazione. Biancamaria tolse dallo stendipanni il suo vestito di cotone leggero celeste, pettinò con cura i riccioli che aveva avvolto in carta di giornale la sera prima e mise il solito rossetto rosso. Lo guardò con aria mesta: ormai ne era rimasto solo un mozzicone e chissà come avrebbe potuto procurarsene un altro. Raggiunse gli altri in cucina, Giuliana era in piedi, appoggiata all’acquaio, già vestita di tutto punto. Biancamaria sospirò, invidiava un poco la sorella: era così strepitosamente bella e sicura di sé, sembrava un’attrice del cinema, alta, formosa, elegante. Mentre lei era piccola e magra da far spavento. Il padre quando entrò le sorrise, aveva gli occhiali appoggiati sul sommità del capo pelato che gli davano sempre un aria da gufo. Bevvero tutti insieme il succedaneo amaro di caffè, espresso di cicoria lo chiamavano con sprezzo. Parlarono poco e sottovoce: temevano di sentire la sirena dell’allarme antiaereo che il giorno precedente aveva suonato in continuazione, lasciando i loro nervi scossi ed esasperati dalla tensione. Giuliana, che lavorava presso un ministero ed era, per questo, sempre molto elegante, quasi la guerra non l’avesse che sfiorata alla lontana, trovava sempre il modo di trafficare con le tessere annonarie, di solito scambiandole con i colleghi. Dopo aver salutato con un cenno uscì in tutta fretta in un veloce ticchettio di tacchi alti. Biancamaria, anche se aveva tutti i motivi per esserne invidiosa, l’amava ed ammirava: era il suo modello e il suo punto di riferimento. E Giuliana la ricambiava teneramente, riempiendola di regali e trattandola quasi come un figlia, sebbene non avesse che pochi anni più di lei. Mentre impastava la farina di scarsa qualità in una forma grigiastra e appiccicosa, il suo compito mattutino, Biancamaria non si era resa conto del tempo passato. Alzò gli occhi all’orologio di cucina e trasalì. Era arrivato anche per lei il momento di uscire. Baciò la madre e scese di corsa le scale. Il passaggio dal buio dell’androne alla luce fu reso ancora più brusco dal riverbero dei raggi del sole sulla piccola piramide bianca che sorgeva proprio dall’altro lato del piazzale. Biancamaria si fermò un momento, strizzando gli occhi. Se si fosse voltata dall’altra parte avrebbe potuto scorgere in lontananza le forme aerodinamiche del gasometro. Ma quella mattina non aveva molto tempo.
Camminava in fretta mentre i tacchi sbattevano con rumore sordo sui sampietrini. Il cielo era sempre più basso ed opprimente. Il sudore aveva già cominciato ad accumularsi nel solco dei piccoli seni e il retro delle ginocchia della ragazza che attraversava la via. Forse, se fosse stata davvero fortunata, avrebbe trovato una vettura. Ma da tempo i tram erano divenuti rari e avevano orari talmente incostanti che era quasi un miracolo trovarne uno che funzionasse. Se non era per la benzina che scarseggiava, era per le linee interrotte dalle bombe. Di vetture, infatti, neanche l’ombra. Biancamaria sospirò, come ogni mattina, e iniziò la lunga passeggiata verso il centro. Il lungotevere era la via più breve e a Biancamaria piaceva guardare il fiume, osservare il luccichio delle sue acque sempre mutevole. Quella mattina era giallastro, più del solito, e pigramente adagiato sul suo letto, quasi fosse troppo stanco anche per scorrere.
Fino a qualche mese prima Biancamaria non aveva avuto la sensazione di essere in guerra, a parte la fame. Ma a quella vi era abituata, era una figlia del regime e per anni aveva dovuto fare i conti con l’autarchia e le conseguenze a cui questa aveva portato. Ma aveva continuato a sentirsi viva e giovane, le piaceva cantare gli ultimi successi sentiti per radio, Ma l’amore no[1], La strada nel bosco[1], Un giorno ti dirò[1]; si arricciava i capelli come Clara Calamai[2] e alla domenica le piaceva andare al cinema con Liliana o Giuliana a vedere Isa Ferida[2] e Osvaldo Valente[2], o ancora meglio Amedeo Nazzari[2] per cui aveva un debole.
La guerra le arrivava solo attraverso le lettere di Alberto, il suo figlioccio. Biancamaria sorrise nel ricordarlo, nella borsetta aveva sempre l’ultima lettera arrivata e la leggeva e rileggeva fino quasi ad impararla a memoria. Avevano cominciato a scriversi durante la campagna di Russia, poche lettere piene di righi neri tirati dalla censura. Ma l’importante era che potesse leggere le parole sempre più accorate e sempre più dolci rivolte a lei e al loro futuro. Quando aveva compreso quale sentimento fosse sbocciato da quelle pagine rovinate dalle intemperie e dal lungo viaggio, Biancamaria aveva tremato. Di emozione e di paura. Quando l’avesse vista, così piccola e magra, l’avrebbe amata ancora? Erano questi i tremori che provava fino a qualche mese prima. Ma ora la paura serpeggiava per la città come un miasma purulento che avvelenava l’aria e avvolgeva i romani, lei compresa, in un drappo di oppressione e morte.
Un forno con la serranda abbassata a metà riportò Biancamaria alla realtà. Il fragrante odore di pane appena cotto le fece gorgogliare lo stomaco. Aveva già fame, pensò con desiderio al bigonzo [3] con le lenticchie che portava sempre per il pranzo. Questa volta decise risoluta che l’avrebbe fatto durare almeno fino all’ora di pranzo, ma era un fioretto che puntualmente eludeva ogni giorno. La ragazza lasciò il lungotevere, i primi garzoni in bicicletta già le scampanellavano dietro per farsi largo, e le massaie trascinavano stancamente i piedi verso il mercato dove avrebbero trovato poche vettovaglie a prezzi folli. Poi sarebbero arrivati i ragazzini smunti a elemosinare qualche cosa da mangiare. In quel tratto il Tevere faceva un’ansa, Biancamaria guardò la prua di quella nave naturale che era l’Isola Tiberina. La pietra bianca luccicava mentre l’acqua mulinava sotto le arcate del ponte Sublicio e i gabbiani lanciavano il loro richiamo stridente. Biancamaria allungò il passo, la strada era ancora lunga ma lei avrebbe tagliato per il portico d’Ottavia, inoltrandosi nelle viuzze sempre affollate del ghetto, e sarebbe sbucata a via del Plebiscito. Di lì si sarebbe di nuovo infilata nei vicoli della città per spuntare finalmente a piazza di Spagna a ridosso della quale c’era la cartoleria. Chissà se quel giorno il fruttarolo all’angolo avrebbe regalato a lei e Liliana un po’ di frutta o verdura...e pazienza se era un po’ toccata dai celletti[4]! Biancamaria già sentiva l’acquolina in bocca pensando a raspi di pizzutello[5], agli scuri e profumati settembrini[6], o magari il sor Toto avrebbe regalato loro un paio di grosse radiche gialle[7]. Ma lo stomaco della ragazza gorgogliò rumorosamente inducendola a cambiare il corso dei pensieri.
Questi tornarono inevitabilmente a Alberto, erano mesi e mesi che non riceveva più sue notizie. Inizialmente si era preoccupata da morire: dopo un breve ritorno in patria era stato nuovamente chiamato in Grecia. E da allora più niente. Poi si era infuriata, lui non aveva il diritto di trattarla così, non ora che erano fidanzati! Biancamaria si era messa in testa che qualche bella greca avesse rapito il cuore del suo innamorato. Ma adesso non era più tanto sicura, la paura l’aveva presa di nuovo. Dopo quella specie di pace avvenuta un mese prima non si poteva essere più sicuri di niente: i vecchi nemici erano ora diventati alleati e quelli che erano stati indotti per tanti anni a credere amici erano ora gli invasori. Avevano preso Roma mentre il Re era partito e Mussolini era andato su al nord a fondare addirittura una repubblica. Di questo Biancamaria sapeva poco, quello che sussurrava Giuliana al padre. Se doveva essere sincera Biancamaria odiava i tedeschi, li riteneva cattivi e prepotenti e ne era terrorizzata. Qualche giorno prima ne aveva incontrato qualcuno con Liliana. Era una bella serata e il sole splendeva ancora, così le ragazze avevano deciso di fare il giro lungo per tornare a casa. Erano sul ponte Sant’Angelo, abbacinante nel suo biancore che contrastava in maniera spettacolare con il castello che si ergeva poco più in là, dorato e solitario. Una camionetta di tedeschi le aspettava dall’altra parte del ponte. Liliana si era irrigidita.
- Camina veloce e fa finta de gnente
aveva intimato ad una Biancamaria impallidita dal terrore. Le tremavano le gambe e l’amica fu costretta quasi a trascinarla per un gomito. I tedeschi le avevano apostrofate ridendo. Ovviamente le ragazze non avevano capito nulla di quella lingua che suonava alle loro orecchie aspra e gutturale. Liliana aveva continuato a camminare guardando avanti, mentre Biancamaria accennava ad un piccolo sorriso tremulo. Uno dei soldati le aveva seguite e si era parato innanzi a loro. Biancamaria quasi era svenuta quando il tedesco aveva cominciato ad indicarla
- Kleine, piccolina, wil u komt met mij? [8]
Le aveva sorriso, ma lo sguardo era cattivo. Aveva insistito per qualche tempo mentre Liliana aveva provato a farsi capire a gesti
- Nun capimo, essì bono…facce passà!
Gli altri tedeschi ridevano e le ragazze, dalle inflessioni delle voci, in qualche modo avevano capito che stavano richiamando il loro commilitone. Quando quello si era deciso ad andarsene le due ragazze avevano tirato un sospiro di sollievo e avevano proseguito per la loro strada con quella che sperarono essere la massima calma.
Biancamaria socchiuse gli occhi, solo a ripensarci le venivano i sudori freddi. Non l’aveva raccontato in casa o avrebbe fatto preoccupare troppo la mamma e il papà, ma l’aveva confessato a Giuliana. La sorella si era scurita in volto, un’espressione insolita le era passata negli occhi, un sentimento che Biancamaria non era riuscita a decifrare.
- V’è annata bbene, v’è annata: se vede che i crucchi[9] volevano solo divertisse. Cerca de stà attenta e viè subbito a casa.
l’aveva redarguita Giuliana.
Biancamaria era adesso sotto l’arco del portico, pur persa nei suoi pensieri percepì un cambiamento nell’aria. Non poteva esserne certa. Si fermò un momento e si guardò attorno. Dove c’era una pasticceria sempre piena di gente che faceva la fila per comprare piccole paste ripiene di ricotta e visciole[10], ora c’era una serranda abbassata; le sedie fuori dalla latteria della sora Ines erano vuote e qualcuna rovesciata a terra, ovunque serrande abbassate e un’aria di abbandono. Biancamaria proseguiva titubante. Non c’era il materazzaro che cantava sempre vecchi stornelli che la facevano ridere, la macelleria kasher era chiusa, non si vedeva il vecchio carretto del rigattiere che tutte le mattine la salutava, non c’erano gli uomini vestiti di scuro collo zucchetto in testa, sparite le donne e i bambini che sempre correvano tra le loro gambe. Senza quasi accorgersene Biancamaria aveva accelerato i passi, si sentiva inquieta e provava un disagio che non riusciva ad identificare. Proseguì il suo cammino per le vie della città, contenta di giungere infine al lavoro. Perché, anche se il caldo era aumentato, Biancamaria era stata ghermita da un gelo che partiva da dentro il midollo e che l’aveva fatta rabbrividire, quasi fosse stata colta da febbre. La ragazza non poté fare a meno di porsi una domanda: perché il ghetto era così desolato e che fine avevano fatto gli ebrei di Roma?[11]




Note:
[1] Note canzoni dell’epoca, cantate tra gli altri da Lina Cavaliere e Alberto Rabagliati.
[2] Famosi attori degli anni quaranta, interpreti di quello comunemente chiamato cinema dei telefoni bianchi.
[3] Un tipo di pane, simile alla ciriola.
[4] Termine dialettale per indicare uccellini.
[5] Uva locale dagli acini piccoli e appuntiti (pizzuti).
[6] Qualità di fico molto dolce, piccolo e di colore viola scuro.
[7] Termine dialettale per indicare le carote.
[8] Piccolina, vuoi venire con me?
[9] Termine dispregiativo per chiamare i tedeschi.
[10] Qualità di amarena piuttosto pregiata.
[11] Il 16 e 17 ottobre 1943 le strade che racchiudevano lo storico quartiere ebraico della capitale furono chiuse e centinaia di uomini, donne e bambini, furono catturati e mandati nei campi di concentramento. Questo nonostante la comunità ebraica romana avesse pagato un enorme riscatto alle forze occupanti. Dei 1022 ebrei, tra cui circa 200 bambini, partiti per i campi di sterminio ne tornarono solo 17.

Edited by cassiana - 25/3/2009, 22:32
 
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