Wasserflut (Flutti d'acqua), [09/05/09] Memories

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Alaide
view post Posted on 29/6/2009, 10:51




Rating: 14 anni
Tipologia: Long Fiction
Lunghezza: 12.749 parole, 21 pagine (times new roman 12), 5 capitoli e un epilogo
Avvertimenti: nessuno
Genere: Generale, Introspettivo
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits:La datazione dell'anno 1906 è dedotta dal calendario perpetuo.
L'idea di inserire un quadro di Van Dyck (ovviamente inesistente), come uno degli snodi focali della narrazione, all'interno di Coverdale Mansion è dovuto alla visione della mostra Van Dyck & Britain allestita alla Tate Britain di Londra e alla lettura del catalogo della mostra stessa, da cui sono state dedotte le date citate (AA VV, Van Dyck & Britain, Tate Publishing, London, 2009)
Il titolo della fiction corrispone al titolo della sesata poesia del ciclo Winterreise di Wilhelm Müller.
Nella narrazione sono citati personaggi e titoli di due opere: Norma di Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani e Der Freischütz di Carl Maria von Weber su libretto di Johann Friederich Kind
Note dell'Autore: Ogni capitolo è aperto da un breve estratto del diario della protagonista, Emma Burnside in Coverdale. La narrazione, poi, procede in terza persona, eccettuato l'epilogo, interamente affidato al diario di Emma.
Introduzione alla Storia:Quando ho visto Coverdale Mansion per la prima volta ho avuto un turbamento improvviso ed inspiegabile.
E durante la notte gli incubi sono stati peggiori di quanto non siano solitamente.



Capitolo I


12 maggio 1906

Quando ho visto Coverdale Mansion per la prima volta ho avuto un turbamento improvviso ed inspiegabile.
E durante la notte gli incubi sono stati peggiori di quanto non siano solitamente.


L’edificio di epoca Tudor sembrava fissarla cupo. Emma Burnside, da poche ore Coverdale, tremò. Era come se la vecchia costruzione dove l’aveva condotta Leith volesse in qualche modo giudicarla. Forse non la reputava degna della sua antichità ed importanza. Suo padre l’avrebbe sicuramente rimproverata dicendole che i Burnside non avevano nulla da invidiare ai Coverdale, anzi erano di nobiltà ben più antica. Avrebbe continuato dicendo che un loro avo aveva combattuto accanto a Richmond contro Riccardo III e via di seguito.
Ma suo padre non era lì e la giovane donna non riusciva a comprendere se quello fosse un bene o un male. Forse la presenza del genitore le avrebbe dato forza, si disse Emma. D’altro canto, però, non sarebbe riuscita a sopportare le occhiate di biasimo del padre, quelle occhiate che già aveva dovuto subire in chiesa durante la cerimonia che l’aveva unita a Leith.
«Qualcosa vi turba, Emma?» domandò l’uomo al suo fianco, notando il lieve tremore della giovane sposa.
«Soltanto la stanchezza, null’altro, Leith.» mormorò rapidamente la donna, fissando, comunque, con intensità l’edificio.
Non riusciva a comprendere che cosa la inquietasse tanto. Non era mai stata prima di allora a Coverdale Mansion. Ne aveva unicamente sentito parlare da Leith durante il loro fidanzamento. Di conseguenza, si disse, mentre ne varcava l’ampia soglia, non poteva esservi nulla che le potesse realmente provocare timore ed inquietudine. Forse era soltanto la mole imponente e tetra a provocarle quella sensazione.
Mentre avanzava nell’ampio atrio d’ingresso, illuminato da fumose lampade a gas, le parve per un istante di averlo già attraversato, ma era un pensiero sciocco. D’altronde, si disse per rincuorarsi, anche Burnside Manor possedeva un ingresso simile, spoglio ed austero. Forse le sue erano unicamente le paure di una giovane sposa, inutilmente intimorita dal ritrovarsi in una casa sconosciuta o, piuttosto, le mancava il luogo in cui era nata e cresciuta.
Leith Coverdale osservò attentamente la giovane sposa, mentre attraversavano l’andito d’ingresso per raggiungere le scale che li avrebbero portati ai piani superiori e alla camera nuziale. Gli sembrò che Emma fosse impensierita da qualcosa, qualcosa che non credeva potesse essere spiegato solo con la stanchezza che la donna aveva addotto come spiegazione.
Certo, quella era stata una giornata lunga e stancante, culminata nelle loro nozze. Sapeva altresì che per Emma quello doveva essere un giorno difficile, considerando che Anselm Burnside non aveva visto di buon occhio l’unione della sua unica figlia con lui, adducendo però motivazioni a tal punto esili e fragili da risultare insostenibili. Alla fine avevano vinto le ragioni economiche. I Burnside versavano in condizioni spaventose, carichi com’erano di debiti contratti per mantenere il loro tenore di vita, ed un’unione con l’unico erede dei Coverdale dava sollievo alle loro finanze dissestate e garantiva un futuro roseo ad Emma. Ciononostante il padre della giovane aveva tenuto un atteggiamento altero, colmo di disapprovazione, per tutta la durata della funzione.
Eppure Leith non credeva che il pallore che si era diffuso sul volto della sposa, da che erano arrivati al Mansion, potesse essere determinato da quello, tanto più che, durante il tragitto in carrozza, Emma era parsa colma della sua usuale tranquillità.
Forse, però, si disse l’uomo, mentre apriva l’uscio della camera da letto, quella era solo una sua impressione ed Emma era effettivamente stanca ed oppressa dal comportamento del padre.



Una bambina attraversava l’atrio d’ingresso immerso nell’oscurità. Soltanto la luna, poco più di una falce nel cielo illuminava il vasto locale. I piccoli passettini dei piedi nudi della piccola parvero rimbombare tra le mura di pietra e più su, nella tromba delle scale.
Ad un certo punto la bimba si fermò e si voltò, facendo ondeggiare le trecce bionde. Fece un cenno con una mano...
Emma si levò a sedere di scatto. Era notte fonda. Dai tendoni tirati non penetrava che un sottile raggio di luna. Per un istante la parve che fosse quello che illuminava l’atrio nel sogno, ma , ovviamente, si disse, era impossibile. Trasse alcuni rapidi respiri, cercando di calmare l’affanno che l’aveva colta. Eppure quel sogno non aveva nulla di spaventoso. Era un’immagine innocente, tranquilla.
Ma la turbava.
Aveva ancora ben fissa nella mente l’immagine dell’atrio, quello stesso atrio che aveva attraversato quel pomeriggio per la prima volta. Allora perché nel sogno lei lo attraversava con l’aspetto che aveva a cinque anni?
Forse, si disse, non era nulla di cui dovesse preoccuparsi, ma il ricordo dell’inquietudine che l’aveva presa non appena aveva visto Coverdale Mansion, l’aveva assalita all’improvviso ed era qualcosa che non aveva senso. La magione di Leith non aveva nulla di diverso da molte altre case della nobiltà terriera e la loro camera nuziale era calda e accogliente e, da quello che aveva visto nelle poche ore che erano trascorse dal suo arrivo, le sembrava che così fosse tutta la casa.
Ma se così era, cosa la inquietava?
Non aveva mai nutrito timori circa la sua unione con Leith. Ammirava e stimava quell’uomo gentile, comprensivo e colto. Certo, v’era l’opposizione del padre, ma non poteva aver nulla a che fare con l’inquietudine legata al Mansion.
Si mosse appena nel letto, con cautela per non destare il marito, tornando a coricarsi, accucciandosi su se stessa. Le domande non le lasciavano requie, rincorrendosi nella sua mente.
Forse fu solo la stanchezza accumulata in quel giorno a farla cadere in un sonno agitato, in cui si vedeva spesso in procinto di morire annegata. L’acqua la circondava e la stringeva, ed una mano le impediva di poter tornare a galla e respirare. Ogni volta si destava sentendosi mancare il fiato ed ogni volta, poco dopo, riprendeva sonno. E le immagini si ripresentavano terribili e spaventose.
Fu una pioggia battente ad accoglierla al suo ultimo risveglio. La grigia luce del mattino filtrava dai tendaggi ed Emma provò un improvviso senso di sollievo.
La notte era conclusa.
I suoi incubi avrebbero avuto ancora una volta fine.
Trasse un lieve sospiro, mentre scostava le coperte e metteva i piedi fuori dal letto, alzandosi ed avvicinandosi alla finestra. Ne scostò appena la tenda, osservando il parco bagnato dalla pioggia e le nubi nere che si rincorrevano in cielo. Quella visione la tranquillizzò e le immagini che l’avevano tormentata per tutta la notte divennero lentamente un ricordo lontano.
Fu accanto alla finestra che la trovò Leith, quando entrò nella camera dallo spogliatoio comunicante. V’era qualcosa in Emma, in quel momento, che gli comunicò un improvviso senso di pace. Gli pareva che la giovane sposa, nella sua veste da notte candida, fosse ben lontana dal turbamento che aveva mostrato la sera prima e che tanti pensieri aveva fatto sorgere nella sua mente. Forse, si disse, Emma aveva detto unicamente la verità e tutto era dovuto alla stanchezza.
Rimase di quell’avviso, mentre attendeva che la moglie si vestisse e si pettinasse in uno dei piccoli locali comunicanti con la stanza, e, subito dopo, mentre avanzavano lungo il corridoio, ma, quando raggiunsero per la colazione la sala da pranzo, situata al primo piano, ben più piccola e familiare di quella del pianterreno, quei pensieri svanirono. Emma si era fatta improvvisamente pallida e tremante, tanto che lui aveva dovuto sostenerla sulla soglia, sotto lo sguardo curioso della servitù.
«Preferite forse prendere la vostra colazione in camera, Emma?»
«No, Leith. È stato soltanto un piccolo giramento di capo.» rispose la giovane, abbozzando un sorriso tirato.
L’uomo non distolse gli occhi dalla moglie per tutto il tempo. C’era qualcosa che lo preoccupava. Non riusciva a credere che la sposa avesse avuto solo un lieve malessere. Era diventata pallida ed il suo volto mostrava tormento e paura. Ma cosa poteva averla spaventata?
La giovane, dal canto suo, tentò con tutte le sue forze di ritrovare la calma, ma diversi pensieri si accavallavano nella sua mente. Si era sposata soltanto il giorno precedente e l’unica cosa che sapeva fare era mentire al suo sposo. D’altro canto, cosa poteva dirgli? Come spiegargli che le era sembrato di aver già visto la scena allegorica che stava appesa tra le due finestre? L’avrebbe presa per una pazza.
E lei stessa dubitava della sua sanità mentale.
Non aveva mai visto prima quel quadro. Non era mai stata prima in quella casa. Allora per quale motivo v’erano dei momenti in cui tutto le sembrava tremendamente familiare? Non aveva senso, si disse. Forse tutto era dovuto alla sua immaginazione. In fondo era da quando aveva memoria che ricordava che qualcuno le ripeteva che la sua mente induceva troppo in fantasticherie prive di senso. Era stato così ogni volta avesse tentato di parlare dei suoi incubi con i genitori o con Jane.
Temeva, quindi, che, parlando con Leith di quello che l’aveva turbata, anch’egli le ripetesse le stesse parole.
«È un peccato che oggi piova, Emma - disse l’uomo, quando la moglie ebbe finito di sorseggiare il tè - Avrei desiderato mostrarvi i giardini.»
«Sono certa che, quando li vedrò, saranno ancora più belli di come me li abbiate descritti.» disse la giovane, lieta di poter distogliere la mente dai pensieri che l’assillavano.
«Lo spero con tutto il cuore, Emma. - Leith sorrise alla moglie che pareva essersi ripresa da quell’improvviso tremore - Sono certo che alcuni scorci saranno perfetti per i vostri splendidi disegni e acquerelli.»
«Siete l’unico che li apprezza - mormorò Emma, arrossendo leggermente - Non riesco a comprendere per quale motivo non li giudichiate frivoli o inutilmente complessi.»
«In tutta sincerità, Emma, non ho mai compreso tali giudizi. Al contrario di molte giovani donne voi non disegnate e dipingete acquerelli perché è un’attività femminile, ma perché v’è qualcosa che il vostro animo sensibile vuole esprimere. Quelle creature fantastiche, quelle scene che inserite nei paesaggi che dipingete e che affollano il vostro album non sono un orpello insensato.»
Emma sorrise leggermente. Forse era per quello che si era innamorata di Leith. Forse, si disse, avrebbe compreso quello che la turbava, che i suoi incubi non erano semplici svolazzi della fantasia, così come non lo erano i suoi acquerelli o i suoi disegni. Eppure non riuscì a dire nulla.
Continuava a temere che il marito non capisse.




La pioggia continuò a cadere senza posa su Coverdale Mansion e sull’intero Suffolk per altri tre giorni, costringendo i due sposi a rimanere confinati all’interno dell’antica magione.
Per quelle tre giornate Leith non perse di vista Emma per un solo istante. V’erano momenti in cui pareva essere se stessa, essere la giovane sensibile, dotata di gusto artistico che aveva conosciuto l’anno precedente a Londra e che aveva corteggiato con costanza, riuscendo a convincere Anselm Burnside a concedergli la sua mano. Ma v’erano lunghi minuti in cui impallidiva e pareva inquieta. Aveva tentato di farle alcune domande, ma lei aveva dato risposte evasive e per nulla convincenti. Forse avrebbe dovuto essere più insistente, ma non voleva turbarla ulteriormente. D’altronde tutto poteva essere determinato dalla nuova vita in cui si era trovata catapultata dopo ventun’anni vissuti sotto il tetto paterno o, piuttosto, l’immobilità di quei giorni la faceva sentire oppressa.
Eppure lui stesso non credeva a quelle ipotesi.
Si voltò verso Emma che procedeva al suo fianco lungo il vialetto che, dalle grandi porte settecentesche sul retro della magione, portava al giardino. Gli occhi della moglie parevano sereni, mentre osservava ogni fiore, ogni cespuglio con curiosità.
«Un tempo dovevano esservi dei giardino alla francese o all’italiana, ordinati, geometrici e maestosi.» commentò la giovane osservando il prato costellato di alberi e cespugli di rose, per lo più bianche, disposti in modo tale che la loro posizione apparisse il più naturale possibile.
«Ho ritrovato i vecchi progetti del giardino tra i libri della biblioteca. - disse Leith, facendo spaziare lo sguardo - Proprio dove ci troviamo ora doveva esservi una fontana ed aiuole ordinate tutte intorno, con statue di ispirazione classica al loro centro.»
«Mi farebbe piacere vederli, Leith, per quanto trovi, pur nella loro bellezza, ben più sconsolati e freddi quei giardini così geometrici. - disse la giovane, lasciando andare il braccio del marito e facendo qualche passo nel prato ancora umido di pioggia, incurante di inzaccherarsi le scarpe e l’orlo della gonna - Non crediate che sia talmente ingenua da pensare che non vi sia stato un attento studio nella disposizione degli alberi e dei fiori, nel modo in cui li vediamo ora, ma mi sembra che siano più liberi. E più belli da dipingere.»
L’uomo sorrise alla moglie, avvicinandolese e tornando a prenderla a braccetto. In quel momento, vedendola fissare ogni albero, sentendola fare commenti, osservandone le gote leggermene arrossate, le preoccupazioni dei tre giorni precedenti gli parvero un ricordo lontano.
«Un tempo v’era una serra in questa parte del giardino, colma di piante esotiche, ma non ve n’è traccia ora - disse Leith, mentre avanzavano verso una macchia d’alberi che sembrava nascondere qualcosa alla vista - Vi fu un periodo in cui il Mansion cadde in malora e la serra venne distrutta.»
A Leith sembrò, per qualche istante, che una voce si sovrapponesse alla sua.
La voce di suo padre.

«Un tempo, Coverdale Mansion era la più bella magione di tutto il Suffolk, figlio mio. La circondavano terre immense e v’era una serra di tale magnificenza che Carlo I stesso lodò.»
«A che scopo, padre, rimpiangere una grandezza perduta da innumerevoli anni?» disse il giovane, osservando il genitore.
«Non la rimpiangeremo a lungo, Leith. Ci fu tolto tutto dopo che Carlo fu sconfitto e decapitato da Cromwell. Tornammo a splendere sotto Carlo II, ma cademmo nuovamente quando Guglielmo giunse in Inghilterra con Maria e da allora abbiamo lottato per riacquistare anche un pallido riflesso dello splendore di un tempo. - l’uomo fece una pausa, lo sguardo fisso sul figlio tredicenne che lo ascoltava rapito. Pareva quasi che non avesse mai pronunciato quella domanda dubbiosa. - Ed ora, dopo tanto penare, la meta è vicina, sempre più vicina. E se non sarò io a raggiungerla, sarai tu a farlo, Leith.»


«Doveva essere un luogo stupendo, Leith. - disse Emma in un mormorio, sovrapponendosi alla voce del padre nella mente del marito, fino a ricacciarla nelle nebbie del passato - Mi dolgo che sia stato distrutto.»
«Non dispiacetevi troppo, Emma. In sua vece c’è qualcosa che sono certo vi possa piacere.» disse l’uomo, sorridendo alla moglie.
Camminarono per diverso tempo senza parlare, guardandosi di tanto in tanto intorno. Ad Emma parve che ogni cosa divenisse più semplice all’aria aperta, calpestando il prato umido, inondato dal sole.
Era come se la grande magione non avesse influenza in quel luogo. Le sembrarono ridicole tutte le volte che aveva trasalito nei tre giorni precedenti, quando le pareva di vedere qualcosa di noto e familiare in un luogo dove non aveva mai messo piede.
In quel momento, passeggiando accanto al marito, sentiva soltanto un enorme senso di pace.
Ma quella sensazione durò poco.
Fu quando intravide le acque placide di un piccolo lago artificiale, circondato da canne e giunchi, che si irrigidì, mentre nella sua mente si formava un’immagine di cui mai prima s’era sovvenuta.

La bambina correva poco avanti alla madre. Di fronte a lei era ben visibile un lago circondato da canne e giunchi. Alla piccola sembrò che ogni cosa avesse un’aurea fatata, forse per la leggera nebbia che si levava dalle acque.
Voleva raggiungere il lago, osservarlo da vicino, ma la voce della donna la bloccò.
«Sai che non ti devi avvicinare troppo, Emma, quel luogo è pericoloso e la riva scivolosa. Torna indietro.»
«Ma è così bello, madre.» protestò la bimba, fermandosi e voltandosi verso la donna.
«Lo so, Emma, ed un giorno, tra non molti anni, potrai avvicinarti ed andarvi sopra con una barca insieme alla tua istitutrice e a...»


«Emma, cosa vi succede... Emma.»
Le parole allarmate del marito le giunsero ovattate, come da un mondo lontano e perduto.
Si sentiva unicamente smarrita ed impaurita.
Quel ricordo era insensato.
Impossibile.
«Emma.»
«Leith, io... io...»
Non riusciva a parlare.
Cos’avrebbe potuto dirgli? Come spiegargli che le si era parato dinnanzi alla mente un ricordo che non poteva esistere? Lei non era mai stata a Coverdale Mansion prima del giorno delle sue nozze. Eppure il luogo, in quel ricordo, era quello in cui si trovava, con il lago poco distante.
«Emma, forse se ci avvicinassimo al lago, potreste rinfrescarvi.»
«No! - esclamò di colpo la giovane, gli occhi improvvisamente dilatati da una paura sorda - Vi prego, Leith, torniamo in casa. Ho paura.»
«Di cosa, Emma?» domandò l’uomo, mentre cingeva delicatamente la vita della moglie per sorreggerla meglio.
«Dell’acqua... di annegare.» mormorò con voce strozzata la giovane.
Tutto prese improvvisamente a ronzarle intorno, mentre nella sua mente riappariva per brevi istanti l’immagine di se stessa bambina che correva verso il lago. Si aggrappò alle falde della giacca del marito. Si sentiva debole e stanca.
Le parve che l’acqua uscisse improvvisamente dal lago e tentasse di sommergerla.
Da qualche parte una voce la chiamava preoccupata.
Poi tutto divenne buio.




Capitolo II



18 maggio 1906

Quando sono rinvenuta ero coricata nel letto che dividevo con Leith. Fuori imperversava il vento e le nuvole avevano coperto il sole. Ma quello non era il giorno che credevo ed accanto al letto c’era Jane.



Jane Rowntree sedeva accanto al capezzale di Emma. Era stata stupita quando, il giorno precedente, aveva ricevuto un telegramma da Leith Coverdale. Non si era aspettata di essere raggiunta da notizie dei due novelli sposi per diverso tempo. In fondo erano una coppia innamorata e l’ultima cosa che avrebbero voluto, sarebbe stata avere l’amica d’infanzia di Emma tra i piedi.
Forse, si disse la giovane, la verità era che sperava di non venire mai mandata a chiamare con quell’urgenza.
Quella mattina stessa era salita su un treno diretto nel Suffolk e, una volta arrivata, aveva raggiunto Coverdale Mansione con una carrozza di posta.
Leith l’aveva accolta con il volto preoccupato e le aveva detto che Emma giaceva nella loro camera nuziale, priva di sensi, da quando era svenuta nei pressi del lago nel giardino.
In fondo, si disse Jane, il problema stava tutto lì.
Emma non avrebbe mai dovuto sposare Leith Coverdale perché questo avrebbe significato portarla in quella magione, vicina al lago.
Aveva tentato, durante l’anno precedente, con tutte le sue forze di dissuadere l’amica dal prendere anche solo in considerazione la corte di Leith Coverdale, ma Emma non l’era stata a sentire. Non era stata a sentire nessuno, nemmeno i suoi genitori. Erano giunte a litigare su quel punto. L’aveva anche supplicata, ma non era servito a nulla.
Emma doveva aver pensato spesso che lei fosse una persona orribile che non voleva vederla felice. La verità era che non voleva che soffrisse.
«Signorina Rowntree, - la chiamò il padrone di casa, facendo il suo ingresso nella stanza - conoscete Emma da molti anni. Cosa pensate che possa averla fatta cadere in questo stato? Il buon dottor Plummer non riesce a spiegarselo.»
Jane rimase a lungo in silenzio. In realtà Jeremy Plummer avrebbe saputo spiegare ogni cosa alla perfezione. Lui sapeva tutto, come lei d’altronde, come i signori Burnside. In fin dei conti, gli unici a non sapere nulla erano Emma e suo marito.
«Avete detto che vi eravate avvicinati ad un lago situato nel vostro giardino, signor Coverdale. Credo che tutto sia dovuto alla paura di Emma per l’acqua.»
«Ha detto qualcosa in proposito. - disse Leith, voltandosi verso la moglie che giaceva pallida e immobile - È dunque un terrore così terribile?»
«Sì. Da piccola è rimasta sconvolta dal racconto di un annegamento avvenuto a poche miglia da Burnside Manor.» si affrettò a rispondere Jane.
Leith annuì, anche se qualcosa, una sensazione forse, gli faceva credere che le parole dell’amica più cara della moglie non fossero realmente sincere. Non poteva credere che la paura dell’acqua fosse l’unica causa dello stato di incoscienza in cui versava Emma.
Doveva esservi dell’altro.



L’acqua sommergeva ogni cosa e su di essa galleggiavano piccoli cadavere di bambini. La giovane si trovava su uno scoglio che presto sarebbe stato sommerso ed osservava con orrore i corpicini ed i loro volti di annegati, tutti stranamente uguali.
Delle voci risuonavano intorno a lei. Voci che ripetevano sempre le stesse parole.
«Ci hai lasciati annegare.»
La bambina correva intorno al lago, inconscia del divieto della madre.
«Ci hai lasciati annegare.»
Correva... correva.
L’acqua stava per sfiorare i piedi della giovane.
«Emma.»
Una voce la chiamava da qualche parte, ma lei non voleva essere trovata. Non voleva che la mamma lo sapesse.
«Emma.»
Sentì qualcuno chiamarla nuovamente e quella volta le parve che la voce fosse più vicina, accanto a lei. Una voce nota.
Le sembrò di iniziare improvvisamente ad uscire da una nebbia fitta e minacciosa. Si sentiva come un viandante che, dopo aver tanto vagato alla ricerca della sua meta, abbia improvvisamente ritrovato la strada.
Pochi istanti dopo Emma aprì gli occhi.
Sentì chiaramente il vento ululare impetuoso fuori dalla finestra e notò che nessun raggio di sole penetrava attraverso le tende. Le ci volle qualche istante per accorgersi della presenza di Jane.
«Cosa...» articolò lentamente, mentre si guardava intorno stordita.
«Mi ha mandata a chiamare tuo marito. Era preoccupato. È da due giorni che non recuperi i sensi.» la informò rapidamente l’amica, osservandola con attenzione.
«Dov’è adesso Leith?» domandò Emma, guardandosi intorno.
«Sta parlando con il medico che ti ha visitata. - Jane fece una pausa. Non sapeva quanto tempo avesse prima dell’arrivo di Coverdale e doveva capire cosa fosse realmente successo. - Mi ha detto che sei svenuta poco distante da un lago. Immagino per la tua paura dell’acqua.»
«Non è stato solo quello, Jane. C’è qualcosa che mi sta accadendo. Da quando sono arrivata al Mansion mi sembra di... - Emma si interruppe scuotendo nervosamente il capo - Ci sono dei momenti in cui ho la sensazione di aver già visto questi luoghi. Vicino al lago... è successo qualcosa di ancora più strano ed inspiegabile. È stato come se ricordassi... ero una bambina e mia madre mi diceva di non avvicinarmi troppo alle acque del lago perché era pericoloso. Ma è qualcosa che non ha senso di esistere. Io non posso ricordare qualcosa che è avvenuto in un luogo che non ho mai visto, né, men che meno, immaginare che da piccola potessi voler avvicinarmi all’acqua. Ne sono sempre stata terrorizzata.»
Emma era così sollevata da aver detto ogni cosa a qualcuno da non accorgersi dell’ombra che attraversò il volto di Jane. Quest’ultima non riusciva a pensare ad altro che non fosse il danno che il matrimonio stava portando all’amica. Eppure, alla fine, nemmeno Anselm Burnside era riuscito ad opporsi. Ed effettivamente, agli occhi di chi non sapeva, non aveva alcuna ragione per rifiutare la proposta di Coverdale, considerando soprattutto che non esisteva nessun altro spasimante pronto a chiedere la mano di Emma.
«Ho appena... - la voce di Leith distolse la giovane donna dal suo rimuginare. Mentre si avvicinava al letto l’uomo sorrise gentilmente alla moglie, sollevato dal vederla finalmente fuori da quello stato di incoscienza in cui era precipitata - Ho, come stavo dicendo, appena parlato con il dottor Plummer e mi ha suggerito di allontanarci da Coverdale Mansion per un mese o poco più. Ha suggerito un luogo dove possiate riposare e rimettervi. Ha parlato di Baden Baden, ma non credo che vorrete andare sul continente, Emma.»
«Preferirei di no, Leith. - mormorò la giovane, osservando il marito - Credo che Bath possa andare più che bene.»
Jane non disse una parola. Sapeva perché Jeremy Plummer aveva dato un tale suggerimento.
Ma sarebbe veramente bastato un mese per risolvere la questione?


Capitolo III



1 luglio 1906

Il mese trascorso a Bath sembra appartenere ad un passato lontano. Appena sono tornata a Coverdale Mansion ho ricominciato ad essere inquieta. E quei ricordi, assurdamente legati a luoghi a me prima sconosciuti, sono tornati a presentarsi alla mia mente.



Una leggera pioggerellina sbatteva contro i vetri di Coverdale Mansion. Emma sedeva su una poltrona accanto alla finestra del salottino del primo piano. In mano teneva l’album da disegno, sul quale stava riproducendo il paesaggio al di fuori dei vetri, aggiungendovi, senza quasi rendersene conto, l’immagine di una giovane donna che teneva per mano un bimbo sui quattro anni.
Smise per un attimo di disegnare e lanciò un’occhiata alla stanza. Da quando era tornata da Bath, quattro giorni prima, quello era diventato il suo rifugio, l’unica parte della casa in cui non provasse un forte senso di inquietudine ed ansia. Le sembrava che quel mese di calma, trascorso lontano dal Mansion, fosse distante, perso nella memoria, sommerso da quello che stava avvenendo a Coverdale Mansion. Al contrario di quanto aveva detto il dottor Plummer e di quanto speravano lei e Leith, nulla era cambiato. L’atrio di ingresso le sembrava ancora familiare e così altri luoghi della casa, altre stanze che parevano richiamare in lei memorie inquietanti e assurde. Più di una volta aveva avuto la sensazione di rammentare sua madre, com’era nei suoi anni giovanili, passeggiare per un corridoio o sedere, intenta a sorseggiare il tè, in una delle stanze, oppure le pareva di vedere se stessa, sui quattro anni, mentre girovagava, in compagnia della governante, per la magione.
Solo quella stanza e la camera da letto erano immuni da quegli improvvisi ricordi, da quel senso continuo di familiarità.
E lei non sapeva più cosa pensare.
Non riusciva nemmeno ad uscire dalla camera da letto senza avere al suo fianco Leith. Il marito non le faceva domande, ma sul suo volto passavano ombre di preoccupazione ed Emma si sentiva colpevole per questo. Avrebbe voluto poter dargli una spiegazione, motivare il suo comportamento, ma non sapeva cosa dirgli.
In fin dei conti, nemmeno lei riusciva a spiegarsi quello che le stava accadendo.
Riportò l’attenzione sul disegno, chiedendosi per quale motivo avesse scelto di raffigurare quelle due figure. Forse voleva rappresentare uno dei figli di Norma, insieme a Clotilde. Eppure c’era qualcosa che le fece escludere quella possibilità. Osservò meglio il disegno e tremò appena. Nella giovane donna riconobbe se stessa e nel bambino il volto dei piccoli annegati che avevano tormentato la sua mente, poco più di un mese prima, e tante altre volte nei suoi incubi. Perché mai aveva disegnato quelle figure? Possibile che stesse impazzendo?
Erano domande che si era posta altre volte, quando quel volto infantile era apparso nei suoi disegni.
Con un gesto rabbioso staccò il foglio dall’album e lo strappò in mille pezzi. Era già abbastanza preoccupata quel giorno, senza dover aggiungere altri problemi.
Era la prima volta, da che l’aveva sposato, che Leith la lasciava sola. Era partito, quella mattina, dopo averla accompagnata nel salottino, alla volta di Bury St. Edomnds per sbrigare alcuni affari. La giovane sospirò appena, mentre si alzava in piedi. I pezzi di carta erano tutti sparsi intorno a lei e l’album, caduto dalle sue ginocchia, era riverso in terra, ma non vi badò, dimentica di quello che l’aveva sconvolta pochi istanti prima.
Un unico pensiero era ormai fisso nella sua mente: doveva raggiungere la sala da pranzo. Si sforzò di pensare che non vi fosse nulla di strano, quando abbassò la maniglia e si ritrovò nel corridoio, con le pareti ricoperte da un tessuto particolarmente scuro, su cui campeggiavano una serie di ritratti, tra i quali i più antichi risalivano al XVI secolo.
Come sempre la sensazione di disagio si fece forte. Le pareva di essere già stata in quel corridoio, di aver già visto il ritratto di un gentiluono in vesti di cacciatore che Leith le aveva detto essere stato dipinto da Anton Van Dyck nel 1632, durante uno dei suoi viaggi in Inghilterra. Eppure, quando due giorni prima, Leith le aveva riferito quella notizia, non ne era rimasta sorpresa. Era come se sapesse che quel ritratto era un Van Dyck.
Anche in quel momento, mentre vi passava accanto, ebbe la medesima sensazione. Aveva già visto quel ritratto prima del suo arrivo al Mansion, l’aveva già visto...

«Madre, chi è quell’uomo?» domandò la bambina, indicando alla donna, vestita di bianco, il ritratto di un gentiluomo in abiti da caccia.
«Un Coverdale, Emma. - rispose la donna - E pare l’abbia dipinto Van Dyck.»
«Chi erano i Coverdale, madre?» chiese curiosa la bimba, osservando con attenzione il ritratto.
«I Coverdale erano gli antichi proprietari della casa.» spiegò la donna.


Furono le voci dei servi a far svanire bruscamente quel ricordo che si era imposto al punto da far perdere ad Emma il contatto con la realtà.
Le tempie le pulsavano ed i suoni le giungevano ovattati, mentre immagini di quella memoria turbinavano ancora nella sua mente.
«Signora, volete che vada a chiamare il dottor Plummer?» domandò ansiosa la governante
Assentì, senza dire nulla che facesse intendere alla donna l’angoscia che la stava sovrastando, a che si chiamasse il dottore. Forse, si disse, mentre si lasciava guidare fino alla camera che divideva con Leith, avrebbe suggerito nuovamente che si recasse a Bath, dove era stata così serena ed in pace.



Leith rincasò quando la pendola nell’andito d’ingresso batté le cinque. Aveva tentato di sbrigare gli affari nella maniera più rapida possibile per poter tornare da Emma. Tutte le speranze che aveva nutrito, tornando da Bath, si erano scontrate con i continui pallori e tremori della moglie. Doveva esservi qualcosa nella casa che la spaventava, ma quel pensiero non lo rendeva tranquillo, acuendo, piuttosto, la sua preoccupazione. Forse avrebbe dovuto insistere con Emma affinché gli dicesse quello che le stava accadendo, ciò che la inquietava, ma non ne aveva il cuore.
Gli sembrava già fin troppo sofferente.
Non si accorse subito che qualcosa non andava. Fu quando incontrò la signora Jones con il volto adombrato che capì. Non appena seppe che era stato chiamato il dottor Plummer, si affrettò verso la camera che divideva con Emma.
Il pallore della moglie, che era seduta con i cuscini candidi dietro la schiena, lo inquietò e gli ricordò lo stato in cui era caduta alcuni giorni prima della loro partenza per Bath. Il medico stava parlando con lei, consigliandole un medicinale, ma sul suo volto era impressa un’espressione cupa e preoccupata.
«Siete tornato, Leith.» mormorò Emma, senza celare un certo sollievo.
«La signora Jones mi ha detto che avete avuto un mancamento nel corridoio. Mi duole non essere stato al vostro fianco.»
«Non è colpa vostra, Leith.» affermò la giovane cercando di abbozzare un sorriso quieto.
Il dottor Plummer chinò appena il capo. Gli parve di star vivendo una situazione già vissuta. La sua mente sostituì al volto dell’Emma adulta, quello dell’Emma bambina e a quella stanza, un’altra stanza.

Margaret Burnside l’aveva mandato a chiamare, colma di preoccupazione. Emma era malata, pallida e aveva perso la vivacità tipica di un bambino della sua età.
Ad essere sincero, Jeremy non era stupito. Non dopo quello che era accaduto il pomeriggio precedente, ma, forse, i Burnside speravano che per Emma le cose fossero meno dolorose.
«La medicina non può nulla, signora Burnside. - disse, dopo aver visitato la bambina - Emma è malata nello spirito.»
«Ma non v’è proprio nulla che possa essere fatto per lei?» domandò la donna, alla ricerca di conforto, di una speranza a cui attaccarsi.
«Forse Emma dimenticherà. È ancora piccola e la sua mente potrebbe cancellare la traccia di questi tristi avvenimenti, ma non accadrà mai se rimarrete in questa casa.»


«Dottor Plummer, potreste seguirmi nello studio.» disse Leith, lasciando per qualche istante confuso il medico.
Era accaduta una cosa strana ed insolita. Non gli era mai capitato di estraniarsi in maniera così totale, di perdersi a tal punto nei ricordi. Scosse leggermente il capo, mentre seguiva, barcollando malamente per un istante, il padrone di casa verso lo studio.
«Dottor Plummer, mia moglie non è realmente malata, vero?» domandò Leith, osservando il medico, quasi attendesse che gli dicesse qualcosa che cancellasse le sue paure.
«È come dice lei, signor Coverdale. Vostra moglie soffre nell’anima. Le ho prescritto uno sciroppo che può calmarla appena, ma non esistono medicine.» disse Jeremy, notando quanto quella conversazione fosse simile a quella che era appena emersa in maniera così vivida nella sua mente.
«Non c’è nulla che possa fare per lei?» chiese Leith nella speranza che il dottor Plummer potesse fornirgli una qualsiasi soluzione affinché Emma recuperasse la sua salute.
«A quanto mi ha detto vostra moglie, signor Coverdale, il suo malessere si manifesta solamente in questa casa. Forse l’unica vera soluzione è venderla e stabilirsi altrove.» affermò pacatamente Jeremy, domandandosi se quella fosse veramente la soluzione migliore.
Per sedici anni si era tormentato con quella domanda, per sedici anni si era chiesto se avesse sbagliato a dare quel consiglio a Margaret Burnside. Forse allontanare Emma da Coverdale Mansion, dopo che i ricordi erano iniziati a riemergere, non sarebbe servito a nulla. Diverse volte aveva pensato, quando i ricordi di quello che era avvenuto lo tormentavano nel sonno, di aver fornito il consiglio sbagliato ai genitori della bambina. Eppure non sapeva fornirne uno diverso. Ragionare in proposito con Leith avrebbe voluto dire riportare alla luce qualcosa che lui stesso voleva dimenticare.
Ma, in fondo, si disse, dimenticare era impossibile.
Era stato uno stolto a credere, sedici anni prima, che quello che era accaduto potesse essere obliato per sempre da Emma ed era altrettanto stolto a credere che tutto fosse riemerso perché Emma aveva sposato Leith Coverdale.
Sapeva che Margaret ed Anselm avevano tentato di ostacolare l’unione, cedendo, alla fine, di fronte al buon senso, perché, in fondo, non v’era altra soluzione possibile che permettere a Coverdale di sposare Emma.
Forse, si disse, era addirittura meglio se Emma avesse rammentato tutto, in modo tale che capisse gli incubi di cui gli aveva parlato Jane in una delle sue poche lettere. La giovane aveva comunque avuto la vita segnata da quegli eventi e la loro decisione di farle dimenticare era stata dettata solamente dall’egoismo.
Ed era stato l’egoismo a fargli dare quel consiglio a Leith Coverdale.
«Vi ringrazio per il vostro suggerimento, dottor Plummer. Vi prometto che lo terrò presente.»
Il padrone di casa rimase calmo, quasi inespressivo, fino a quando il dottor Plummer non fu uscito. Soltanto allora si prese il capo tra le mani.
Non sapeva come agire.
Due forze contrastanti lo spingevano in due direzioni opposte. Da un lato desiderava il benessere della moglie, vederla nuovamente sorridere felice, discutere con lei di arte e letteratura, vederla, semplicemente, serena, com’era avvenuto nel mese che avevano trascorso a Bath. Ascoltando quella voce avrebbe seguito più che volentieri il consiglio del medico, ma v’era altro che doveva considerare.
Il volere del padre, le ultime sue volontà espresse poche settimane prima di morire.
Ed il giuramento che lui aveva pronunciato allora.
Coverdale Mansion doveva essere loro, doveva tornare in loro mano...

«... deve tornare alla nostra famiglia, Leith. - disse con voce affaticata l’uomo, fissando il figlio poco meno che ventunenne - È stato Enrico VIII, all’inizio del suo regno, a donarci quelle terre.»
«È trascorso molto tempo, padre, e sapete perfettamente anche voi che sono secoli che i Coverdale non vi abitano.» rispose il giovane scuotendo appena il capo.
«Solo a causa dell’Orange, Leith, che ha scacciato il vero re d’Inghilterra.»
«Non travisate la storia, padre. Giacomo II abdicò e Maria, con il marito Guglielmo, salì al trono legittimamente. - il giovane fece una pausa, cercando di rammentare quante volte suo padre gli avesse parlato di quegli argomenti - Le lotte dei giacobiti non sono servite a nulla. Perché rivangare fatti accaduti secoli or sono? I nostri avi persero Coverdale Mansion definitivamente quando Giacomo II abdicò o, meglio, qualche tempo dopo, quando fu chiaro che davano ricetto ed ausilio ai giacobiti. Se non avessero fatto quella scelta, Coverdale Mansion sarebbe la casa dove sono cresciuto.»
«Forse hai ragione, Leith, ma è nostro dovere riprendere possesso di Coverdale Mansion. Io ho tentato con tutte le mie forze, ma i proprietari non l’hanno mai voluta vendere. Poi i casi della vita, il mio indebolimento, la morte di tua madre e la tua giovinezza mi hanno impedito di lottare come avrei voluto. Ho saputo, però, che la nostra magione avita è passata, sei anni fa, a dei nuovi usurpatori della gloria dei Coverdale. Forse loro saranno più ragionevoli.»
«Perché volere una gloria che non ci apparterrà più, padre?» domandò Leith, ponendo una domanda più volte espressa.
«So che non ritorneremo mai quello che siamo stati sotto i Tudor e sotto gli Stuart, ma per lo meno possiamo tornare in possesso di ciò che era nostro. E voglio, figlio mio, che tu prometta di fare il possibile perché ciò avvenga.»


Ed aveva giurato, si disse Leith, scacciando il ricordo dalla sua mente, mentre si alzava e si recava verso la camera dove giaceva Emma, ma le parole del padre gli rimbombavano comunque nella mente. Le idee sulla grandezza perduta dei Coverdale erano state una presenza fissa in tutta la sua vita e, per quanto avesse tentato di mostrarsi logico e razionale, non poteva negare a se stesso che avevano sempre prodotto un grande fascino su di lui. In caso contrario non avrebbe mai giurato di fare quanto il padre voleva, non si sarebbe mai adoperato per acquistare Coverdale Mansione. Forse l’unica verità era che le sue obiezioni e le sue domande erano soltanto un modo per sentire il padre parlare della loro fortuna perduta, per immaginare cosa volesse dire essere un Coverdale un tempo. Tutta la sua vita, forse più di quella del padre, era stata improntata nella direzione di riconquistare almeno una parvenza del prestigio perduto. Solo in quel momento, trovandosi a scegliere tra il benessere di Emma e la gloria dei Coverdale, se ne rendeva realmente conto.
Quando entrò nella camera nuziale trovò la moglie seduta, con la schiena poggiata ai cuscini, pallida, intenta a scrivere qualcosa su un quadernetto rilegato in pelle.
«Finalmente siete tornato, Leith.» disse Emma, sollevata, posando la penna a lato del calamaio e chiudendo, subito dopo, il diario.
Durante l’assenza del marito la sua mente era stata preda dei pensieri più cupi e spaventosi, ossessionata com’era dalle cause inspiegabili del suo malessere e da quel ricordo che aveva attraversato la sua mente pochi istanti prima dell’arrivo della governante.
«Cosa vi inquieta, Emma? Cosa turba la vostra anima?» domandò l’uomo, sedendosi sul bordo del letto, vicino alla sposa.
«Non riesco a capirlo, Leith. - Emma si interruppe, nervosa e tesa, poi, facendo forza su se stessa, si decise a continuare - Quando siamo arrivati il primo giorno, subito dopo le nozze, qualcosa mi ha inquietata e la sera... quando ci siamo addormentati, ho fatto uno strano sogno. Io ero nell’atrio d’ingresso... ma, come ero all’età di cinque anni, come nel dagherrotipo che mia madre tiene in camera.
«E quella notte i miei soliti incubi sono stati peggiori del solito.»
«Quali incubi, Emma?» domandò Leith, stringendo la mano alla moglie, il cui corpo era scosso da lievi tremiti.
«Io... - la giovane si interruppe. Temeva che Leith potesse prenderla per pazza a sentirla parlare di quei sogni terribili che la turbavano. O forse temeva che lo pensasse, quando gli avrebbe detto dei ricordi. - ... spesso, da che ho memoria, ho le notti tormentate da visioni di montagne d’acqua che si riversano su di me, o di un mondo completamente sommerso dall’acqua in cui io sto per annegare, o, e questo è quello che ho sognato soprattutto nei giorni in cui sono stata a Coverdale Mansion, che qualcuno tenga il mio capo volutamente sotto l’acqua, per impedirmi di respirare.»
«Se avessi saputo, Emma, non vi avrei mai condotta vicino al lago e forse la vostra anima non sarebbe così sconvolta.» commentò l’uomo pacatamente, memore delle parole di Jane Rowntree, che però non lasciavano intendere nulla del genere.
«Non è solo questo, Leith. - ammise la giovane, leggermente tranquillizzata dalle parole del marito - Ci sono dei momenti... ben più di un momento, a dire il vero, in cui mi sembra di aver già visto alcune parti della casa. Quasi tutta la casa, in verità, eccetto questa stanza ed il salottino del primo piano. È qualcosa che non ha senso. Voi, Leith, siete nato in questa casa e...»
«Non è così, Emma. - la interruppe Leith, tentando di mantenere un tono di voce tranquillo, per non turbare oltre la sposa - Ho acquistato Coverdale Mansion nel 1898.»
«Chi ne era il proprietario, Leith? Chi?» domandò Emma, stringendo freneticamente la mano del marito che teneva la sua.
«Si chiamavano Ledford. Adesso vivono a Bury St. Edmonds.»
«Non li ho mai sentiti nominare prima. Allora perché mi sembra di essere già stata qui? Perché la mia mente produce dei ricordi in cui io mi ritrovo in questa casa?» domandò la giovane smarrita.
«Che genere di ricordi, Emma?»
«Presso il lago... mia madre mi diceva che il lago è pericoloso. Nel ricordo avrò avuto sui quattro anni. Poi, oggi, ero nel corridoio e quando sono stata davanti al Van Dyck mi è sovvenuta l’immagine di mia madre che mi parlava del quadro. Diceva... - la voce le morì per qualche istante, mentre deglutiva a vuoto - diceva che i Coverdale erano gli antichi proprietari del Mansion. Ma come posso, Leith, avere questi ricordi?» domandò, fissando il marito, come se pensasse che lui le avrebbe dato la risposta che cercava.
«Non lo so, Emma. Non lo so e me ne dolgo. - rispose l’uomo, scuotendo appena il capo. - Forse i tuoi genitori sapranno darti le risposte che cerchi. Domani potrei inviare loro un telegramma.»
«No... io ho... ho paura che mi prenderanno per pazza. - mormorò istericamente Emma - Forse anche tu lo pensi.»
«Non sei pazza, Emma. - disse Leith, portano una mano a carezzare il volto pallido della moglie - Nessuno penserà mai che tu lo sia.»
Quelle parole parvero confortare Emma. O, forse, si disse, fu l’abbraccio in cui l’avvolse il marito a donarle calore e uno strano senso di sicurezza.





Capitolo IV





4 luglio 1906


L’arrivo dei miei genitori ha solo portato dubbi e non chiarezza. Li sento lontani e distanti. Irraggiungibili.


Margaret ed Anselm Burnside arrivarono a Coverdale Mansion in un giorno di sole. Entrambi osservarono con apprensione l’antica magione, non appena scesero dalla carrozza presa a nolo. La donna pareva essere come atterrita e lo stesso Anselm era sicuramente a disagio, ma fu, comunque lui il primo a riprendere il controllo di sé.
«Cercate di non apparire tesa.» disse alla moglie.
«Se soltanto Emma non l’avesse sposato, non saremmo a questo punto.» mormorò Margaret, lisciando la gonna per calmarsi.
Anselm annuì. Avrebbe dovuto imporsi ed impedire quell’unione, ma aveva lasciato che mere ragioni economiche avessero la meglio sull’affetto per Emma. Se soltanto si fosse fatto avanti un altro pretendente, si disse, Coverdale non l’avrebbe avuta vinta e la figlia non si sarebbe trovata in quella situazione.
Il vero problema, si disse, mentre annunciava il suo arrivo, era che i Burnside avevano gestito, per troppe generazioni, le loro ricchezze in maniera dissennata e lui si era ritrovato, trent’anni prima, ad ereditare una montagna di debiti, a cui non era riuscito a far fronte, non potendo gettare il buon nome della famiglia nel fango, diminuendo il loro stile di vita o, peggio, rinunciando all’appartamento a Londra e alla casa a Lyme. Ed i debiti erano aumentati, fino a che non si era reso conto che Emma non disponeva quasi di una dote. Era stato, in fondo, fortunato a trovare Leith Coverdale come genero, non fosse stato per la questione della casa.
«Benvenuti a Coverdale Mansion. - disse il padrone di casa, raggiungendoli nel vasto ingresso, dove erano entrati da poco - Sono felice che abbiate risposto al nostro invito.»
«Avete detto, signor Coverdale, che Emma è stata male.»
«Esattamente, signora Burnside. - confermò Leith - Vostra figlia è sofferente e, nonostante lo sciroppo che le ha dato il medico alcuni giorni fa, non si è ancora ripresa del tutto.»
«Dove si trova, ora, signor Coverdale?» domandò imperiosamente Anselm.
Dentro di lui il biasimo per aver ceduto di fronte alle esigenze economiche della famiglia stava centuplicando. Sapeva perfettamente, ed i ricordi che lo tormentavano da sedici anni a quella parte ne erano la prova, per quale motivo Emma fosse sofferente. Il dottor Plummer e Jane li avevano già informati di quello che stava accadendo, pochi giorni dopo che la figlia ed il genero erano partiti per Bath, e non servivano certo le loro parole preoccupate per dirgli che Emma non doveva stare in quella casa. Avevano fatto di tutto perché dimenticasse e, in quel momento, un suo cedimento aveva fatto sì che incominciasse a ricordare.
L’unica cosa che poteva fare, ormai, era impedire che i ricordi peggiori affiorassero.
«Seguitemi, signori.» disse Leith, guidandoli al piano superiore.
Margaret scoccò un’occhiata al marito. In quel momento avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quella casa gravida di ricordi e nemmeno Emma avrebbe dovuto trovarsi lì. Forse vi era una sola cosa da fare: convincere Leith Coverdale ad andarsene.
Quel pensiero divenne più forte e pressante quando vide la figlia adagiata su una chaise-longue nel salottino del primo piano, pallida e smunta con le mani tremanti che reggevano un libro.
«Padre, madre, sono lieta di vedervi.» disse la giovane, alzandosi lentamente, sotto lo sguardo vigile e preoccupato del marito che le si era avvicinato.
«Sedetevi, Emma, e non affaticatevi per noi. - disse Margaret con fare pratico, mentre si accomodava, insieme al marito, dietro invito di Leith, il quale rimase in piedi dietro la chaise-longue su cui era tornata ad adagiarsi Emma. - Vostro marito ci ha detto che non vi sentite bene.»
«Sono oppressa nello spirito, madre. - disse la giovane, deglutendo subito a vuoto. Lo sguardo corrucciato di suo padre le comunicava ben poca fiducia nella reazione che avrebbe potuto avere. Soltanto quando la mano di Leith si posò lieve sulla sua spalla si decise a proseguire - Sono assalita da improvvisi ricordi in cui sono una bambina e parlo con voi, madre, in questa casa. - fece una nuova pausa - Vi siamo mai stati prima?»
«No, Emma. - disse Anselm, ostentando sicurezza - Forse qualche ambiente può somigliare a Burnside Manor e la tua mente suggestionabile...»
«Non è qualche ambiente, padre. - lo interruppe di colpo Emma, mordendosi subito dopo il labbro inferiore, a causa della propria mancanza di rispetto. - Tutta la casa mi fa questo effetto. E ci sono quei ricordi. In uno, madre, dicevate che i Coverdale erano gli antichi proprietari della casa e Leith mi ha detto che questa era l’antica magione dei Coverdale.»
«Non so cosa dirvi, figlia, ma non siamo mai stati prima in questa casa.» disse Anselm con il tono di chi voleva chiudere una conversazione priva di senso.
Emma chinò leggermente il capo. Era accaduto quello che temeva.
Non le avevano creduto.



Leith raggiunse i suoceri al pianterreno, nel salotto dove si erano recati, dopo aver lasciato la moglie con il medico. Doveva ammettere che il signor Burnside non gli era piaciuto, che il suo modo di parlare ad Emma lo aveva irritato. Eppure gli sembrava, soprattutto osservando Margaret, che i Burnside fossero preoccupati per qualcosa che aveva detto Emma.
«Signori, - esordì appena si fu seduto - come giudicate realmente ciò che turba Emma?»
«Come ho già avuto modo di dire, mentre mi trovavo di sopra, credo che Emma sia vittima di qualche suggestione. D’altronde la sua mente è sempre distante dalla realtà.» disse Anselm calmo, quasi non stesse parlando di sua figlia.
«Eppure è troppo turbata perché si possa parlare di semplice suggestione. Io credo che vi sia realmente qualcosa di tangibile che l’angoscia, qualcosa legato a questa casa.»
«Se credete veramente una cosa simile, signor Coverdale, non sarebbe meglio vendere questa magione e trasferirsi in un luogo più salubre per Emma?» domandò Anselm, tentando di celare la speranza di veder accettata quella proposta.
«È una decisione che sto valutando, signori. Anche il dottor Plummer mi ha dato lo stesso suggerimento.»
«Perché non seguirlo, allora?» chiese improvvisamente Margaret, osservando il genero colma di aspettativa.
«Devo prendere in considerazione diversi fattori, signora Burnside.» disse solamente Leith, celando accuratamente la lotta che si stava combattendo nel suo animo.
In quei giorni aveva più volte preso in seria considerazione l’idea di mettere in vendita la magione, ma ogni volta gli sembrava di trovarsi di fronte il padre che gli chiedeva di fare quanto in suo potere per riavere Coverdale Mansion.
Come poteva, in tutta sincerità, infrangere la promessa che aveva pronunciato dieci anni prima? Eppure desiderava anche il benessere di Emma, voleva che la sua mente tornasse serena. Ma, in definitiva, era davvero serena? Poteva definirsi tale una giovane che spesso sognava di annegare?
Forse, si disse Leith, la mente di Emma era sconvolta da tempo e giungere a Coverdale Mansion, iniziare una nuova vita, aveva portato quello sconvolgimento in superficie. Allora perché a Bath non ve n’era traccia?
«Quali fattori, Coverdale? - domandò Anselm fissando con astio mal trattenuto il genero - Voi mi avete promesso che vi sareste preso cura di Emma, che, nella vostra proposta di nozze, vi erano solo i più... come avete detto?... genuini e vivi sentimenti. Se è così, perché esitate?»
Leith non rispose subito. Sapeva che, per molti versi, la sua riluttanza poteva apparire illogica, ma c’era qualcosa, al di là della promessa, sempre presente nella sua mente, fatta al padre, che gli suggeriva che per Emma un cambiamento di casa non sarebbe stato realmente salutare. Non riusciva a comprenderne la causa. Forse, semplicemente, credeva alle parole che la moglie gli aveva detto, ritenendo quindi che i suoi ricordi non fossero soltanto frutto di una suggestione, il che implicava che i suoceri stessero mentendo.
Alla domanda di Emma, al suo interrogarsi sui motivi per cui le sovvenivano memorie che non aveva senso lei avesse, esisteva una sola risposta sensata: la giovane doveva essere già stata a Coverdale Mansion quand’era bambina. In fondo, si disse Leith, Burnside Manor non era così simile alla sua magione come sostenevano i suoceri e non vi era alcun lago nel parco. Si sovvenne infine che il padre, quando gli aveva chiesto di pronunciare il suo giuramento, aveva detto che, quando lui era ancora un ragazzo, prima che la morte della madre e le prime avvisaglie della sua lunga malattia lo facessero rinunciare all’impresa, Coverdale Mansione non era ancora dei Ledford, ma di altri proprietari che non volevano venderla. Era forse possibile che questi fossero i Burnside?
«Vi ho già detto, signor Burnside, che ho dei fattori da valutare. Devo tentare di comprendere se il vostro suggerimento è realmente quanto vi sia di meglio per Emma.» decise di dire infine, celando i suoi più intimi pensieri.
«Lo è, signor Coverdale, credetemi. - intervenne Margaret, colma d’apprensione, prima che il marito potesse parlare - Per il benessere di Emma è l’unica possibilità.»
«Per quale motivo, signora Burnside?» domandò Leith, scrutando con attenzione il volto preoccupato di Margaret e quello teso di Anselm.
«Da quel che sembra nostra figlia ha creato una qualche suggestione riguardo a questa casa ed immagina cose mai accadute. Ritengo, e voi dite che questa è anche l’opinione del dottor Plummer, che per Emma la cosa migliore sia abbandonare Coverdale Mansion.»
Leith annuì gravemente. Le parole pronunciate da Anselm non facevano che incrementare i suoi sospetti. Ed aveva una sola possibilità. Doveva recarsi a Bury St. Edmonds dove sapeva abitavano i Ledford e chiedere loro da chi avessero acquistato Coverdale Mansion. Se come riteneva, questi erano i Burnside, avrebbe avuto in mano una prova per farli parlare, anche con Emma.



Emma sedeva inquieta nel salottino del primo piano. Non sapeva cosa pensare di quello che avevano detto i suoi genitori. Era la reazione che temeva, quello era innegabile, ma questo non voleva dire che si sentisse bene. Nessuno sembrava comprendere cosa le stesse accadendo. Il dottor Plummer l’aveva appena visitata, andandosene senza dire una parola che la illuminasse, e Leith aveva lasciato la magione perché doveva sbrigare alcuni affari a Bury St. Edmonds.
Si sentiva abbandonata in quella vasta casa.
Scosse leggermente il capo. Forse poteva provare a parlare ancora con i suoi genitori, che si sarebbero fermati per quella notte, per poi rientrare a Burnside Manor la mattina seguente. Non lo credeva probabile, ma, spiegando nuovamente quello che stava avvenendo, quella volta le avrebbero creduto.
Fu con quel pensiero che uscì dal salottino, cercando di evitare di pensare a tutte le immagini che le sembravano familiari, ma non poté evitare di fermarsi davanti a John Coverdale in vesti di caccia dipinto da Van Dyck. Lo osservò a lungo e le parve evidente che quel ritratto era fin troppo conosciuto, fin troppo noto alla sua memoria. Le sembrava di conoscerlo da sempre.
Colta da un’improvvisa ispirazione tornò sui suoi passi e rientrò nel salottino. Si avvicinò al mobile su cui erano posati i suoi album e prese a sfogliarli freneticamente, bloccandosi di colpo davanti ad un disegno che mostrava uno scorcio del giardino di Burnside Manor. In mezzo al verde, accanto ad una noce, aveva riprodotto, pur con alcune lievi differenze dovute alla sua mano inesperta, il ritratto di Van Dyck. Voltò il disegno e lesse con una luce di terrore e comprensione negli occhi:
Cacciatore (Max del Freischütz?), Burnside Manor, 1903.
Le mani le tremarono leggermente. Quel disegno era la prova che lei era già stata a Coverdale Mansion. Come avrebbe potuto disegnare proprio quel Van Dyck, se non l’aveva mai visto prima? Trasse un sospiro, poi, tenendo il disegno tra le mani, tornò ad uscire.
Un membro della servitù le indicò il luogo in cui si trovavano i suoi genitori. Mentre scendeva le scale si figurava in che modo avrebbe potuto iniziare la conversazione con loro, come giungere a chiedere perché le avessero mentito e detto che lei stava inventando ogni cosa, a causa della sua mente suggestionabile. In poco tempo raggiunse il salotto del pianterreno. Allungò la mano per abbassare la maniglia, ma si bloccò quando udì la voce del dottor Plummer. La sua presenza la stupì poiché era certa che fosse già sulla via di casa, ma furono le sue parole a colpirla più di ogni altra cosa.
«Vi dico, Anselm, che dovete dirle tutto. Voi stesso mi avete parlato dei suoi incubi e sapete che sono frutto di quello che è accaduto sedici anni fa. Vostra figlia sarà libera da tutta questa afflizione soltanto quando saprà ogni cosa.»
Emma rimase immobile e silenziosa. Non riusciva a credere che le avessero nascosto anche un fatto così semplice come la loro conoscenza pregressa con il dottor Plummer. Le pareva strano di non aver notato nulla di familiare nel suo volto, ma forse, sedici anni prima, il medico appariva diverso, più giovane, sicuramente, e magari con tutti i capelli in testa. In quel momento, in cui apprendeva anche quella piccola verità, le sovvenne improvvisa l’immagine del dottore chino sul suo letto, mentre lei, di circa quattro anni era in preda alla febbre, e, come aveva presupposto, Jeremy Plummer, era un uomo di una trentina d’anni dai capelli rossicci, ben diverso dal signore di mezza età con radi ciuffi grigiastri ed il volto bonario e solcato da rughe forse fin troppo precoci.
«Questo non è possibile, Jeremy. - ribatté Margaret con foga. Al di là dell’uscio, Emma strinse freneticamente il disegno a sé. - Voi stesso ci avete suggerito che per lei era meglio dimenticare tutto. Noi abbiamo agito perché così fosse. Emma non ricorda nulla e questo fatto non deve cambiare.»
«Credo di aver sbagliato quella volta ed i ricordi che stanno affiorando nella sua mente parlano chiaro. Emma non ha mai realmente dimenticato quello che è avvenuto presso il lago.»
Quella parola fu un fulmine a ciel sereno per la giovane.
Il lago.
Se qualcosa che tutti si erano affannati a farle scordare era avvenuta presso il lago, questo poteva voler dire che era, a causa di quell’evento, che aveva paura dell’acqua, che per quell’evento passato era stata male quando si era trovata nei pressi del lago. Ed il ricordo, che aveva avuto proprio in quell’occasione pareva dimostrare che lei, un tempo, non era terrorizzata dall’acqua.
«Immagino ricordiate com’era Emma dopo quel giorno. - disse Plummer - Spaventata e scossa. Abbiamo sbagliato ad aver la presunzione che potesse scordare per sempre.»
«Se non avesse sposato Leith Coverdale...»
«Forse avrebbe ricordato in altro modo - disse Jeremy, interrompendo Margaret - Magari un commento di Jane o la vista di un lago simile a questo... ma in un modo o nell’altro...»
«Io non lo credo, Jeremy. Per sedici anni ha dimenticato quella tragedia e finora non sono affiorati i ricordi peggiori, solo delle parvenze. Ritengo che l’unica soluzione sia allontanarla da questa casa che Coverdale lo voglia o meno. Se non fosse stato per le nostre condizioni economiche non avrei mai permesso a quell’uomo di sposarla. - Anselm fece una pausa. Emma percepì chiaramente i suoi passi oltre la porta - E forse avrei dovuto impedirlo comunque. Nostra figlia non deve ricordare. La sua vita sarebbe rovinata per sempre. Ormai la mia avidità mi ha fatto cedere, ma non permetterò a quell’uomo di distruggerle la vita.»
«Se v’è un uomo innocente, questi è Leith Coverdale, Anselm. - intervenne con fare ragionevole Plummer - Quello che mi interessa è sapere se volete dire tutto ad Emma come vi ho suggerito.»
«È fuori questione, Jeremy.»
«Perché vi ostinate, Anselm? Emma deve saperlo da voi. Se lo scoprirà da sola sarà peggio.»
«Ho inteso la vostra opinione, Jeremy, ma non la ritengo sensata.»
«Come volete, Anselm. Come medico ed amico posso darvi dei consigli, non obbligarvi a seguirli.»
Emma retrocedette, infilandosi nella vasta sala da pranzo del pian terreno, la cui porta era dirimpetto a quella del salotto. Il disegno cadde lentamente per terra, mentre la giovane era scossa dai fremiti di singhiozzi silenziosi.
Era delusa da suo padre, da Jane, da sua madre. Tutti le avevano nascosto qualcosa e volevano continuare a nasconderglielo.
Qualcosa di terribile doveva essere successo quando lei aveva cinque anni.
Eppure lei voleva sapere e c’era una sola cosa che potesse fare.





Capitolo V




7 luglio 1906


Ripensando a quello che ho scoperto mi sento svuotata e sconvolta. Tutti mi hanno mentito, tutti eccetto Leith. Non so nemmeno se riuscirò ancora a parlare con loro.


Un sudore gelido imperlò la fronte di Emma non appena mise piedi al di fuori del Mansion, passando per una delle porte sul retro. Sapeva che non poteva agire diversamente, ma quel pensiero non la confortava.
Per un istante fu tentata di tornare sui suoi passi e affrontare i genitori, ma era certa che loro avrebbero finito col trovare il modo di nasconderle ogni cosa.
Sospirò pesantemente, poi si incamminò lungo il sentiero che aveva percorso il diciotto maggio con Leith. I suoi occhi non si posarono quasi sugli alberi e sulle rose in fiore. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era quello che di lì a poco avrebbe dovuto affrontare.
La sua paura dell’acqua.
Tentò di scacciare quel pensiero angoscioso dalla mente, mentre continuava ad avanzare, ma, quando fu in vista del lago, non poté far altro che fermarsi. Il respiro divenne affannoso, mentre un terrore sordo si faceva strada in lei.
Tutto la spingeva a tornare indietro, a fingere di non aver mai udito le parole dei genitori e del dottor Plummer, ma sapeva che il desiderio di sapere non l’avrebbe abbandonata così facilmente. Eppure non riusciva ad avanzare, bloccata com’era da quell’intimo timore. Le sembrava che le acque del lago stessero crescendo e che, presto l’avrebbero raggiunta, annegandola.
Serrò gli occhi con foga, scacciando quell’illusione dalla mente, che fu investita da ben altre immagini.

La bambina stava correndo verso il lago. Sapeva che era sbagliato, ma la proibizioni di avvicinarsi lo rendeva mille volte più affascinante di ogni altra parte del giardino. Inoltre, si disse, la mamma ed il papà non avrebbero mai scoperto nulla. La governante era ammalata e lei e Benjamin erano soli, liberi di fare quello che volevano.
«Sei sicura che possiamo, Emma?» chiese il bambino più piccolo, che la seguiva.
«Certo. Nessuno lo saprà mai.» rispose lei con il fare sicuro della sorella maggiore.


Quando riaprì gli occhi era senza fiato. Il ricordo, giunto così all’improvviso, l’aveva scossa e sconvolta.
Forse stava veramente impazzendo, ma non lo credeva.
Non poteva essere giunta al punto da inventarsi la presenza di un fratello minore di cui non ricordava nulla. Ma era poi veramente così?
Fece un passo avanti, poi un altro.
Le acque del lago si stavano avvicinando e con esse la consapevolezza che sulle sue rive avrebbe trovato le risposte che cercava.
Mentre avanzava, si sovvenne di diverse volte in cui aveva sentito sua madre e suo padre nominare un certo Benjamin, quando pensavano che lei non sentisse. Aveva sempre creduto si trattasse di un amico di famiglia, ma solo in quel momento si rese conto che, al contrario degli altri, non l’aveva mai visto.
Cos’era accaduto perché lei potesse cancellare dalla sua mente i ricordi di Coverdale Mansion? I ricordi di suo fratello?
Si avvicinò ancora di più al lago, fino a quando non fu sulle sue rive, l’acqua calma e placida a due passi da lei.
Il panico stava travolgendola e, con esso, l’abituale paura.
Poi, improvvisamente, le memorie da tempo sepolte la investirono con forza, facendola cadere a terra, senza che se ne rendesse nemmeno conto.

I due bambini si fermarono a pochi passi dalle acque placide e tranquille del lago, luccicanti alla luce del sole, scambiandosi un’occhiata complice. Alla fine, nonostante le proteste di Benjamin, entrambi trovavano tremendamente avventuroso riuscire ad infrangere un divieto dei loro genitori senza essere scoperti.
«È come due giorni fa. - disse il bambino più piccolo - Quando siamo usciti di notte.»
«Esattamente, Benjamin. E nessuno lo saprà mai.» disse Emma con un sorriso sul piccolo volto paffuto.
Quasi all’unisono presero ad avvicinarsi all’acqua. La bambina raggiunse per prima il limitare delle sponde in un punto in cui, mancando le canne e gli arbusti, era possibile raggiungere l’acqua senza difficoltà, calpestando uno strato di fango che inzaccherò le scarpe di Emma e, poco dopo, quelle di Benjamin.
La bambina allungò una mano verso l’acqua, immergendovela. Poi, con un sorrisetto furbo sul volto si voltò e schizzò il fratellino, che rispose prontamente subito dopo.
Entrambi ridevano e si schizzavano con l’acqua del lago, spensierati, chiedendosi per quale motivo i grandi non volessero farli avvicinare a quel posto tanto bello e per niente pericoloso.
Sicuri com’erano di loro, iniziarono a correre e giocare intorno al lago, per poi salire sul piccolo pontile a cui era ancorata una barca di piccole dimensioni. Emma ricordò che la mamma aveva nominato delle gite in barca sul lago per gli anni a venire, ma lei non voleva aspettare così tanto. In fondo, si disse, il lago era bello e loro amico.
Si avvicinò alla corda che la teneva legata e la tirò per avvicinare la barca al pontile. Benjamin corse subito ad aiutarla.
«È troppo pesante, Emma.» brontolò il fratellino, ormai sudato, lasciando andare la corta.
«È un peccato. - disse la bambina, rinunciando a sua volta. - Però è comunque bellissimo, non è vero, Ben... - iniziò a dire Emma, bloccandosi subito dopo impaurita. - Benjamin! - chiamò a gran voce - Benjamin!»
Ma era inutile urlare a quel modo. Il bambino, tirandosi in piedi rapidamente, sul bordo estremo del pontile, aveva perso l’equilibrio, a causa della tavola di legno scivolosa, ed, in quel momento, sotto gli occhi dilatati dal terrore della sorella maggiore, si stava dibattendo nell’acqua del lago.
«Aiutami, Emma, ti prego.» urlava il bambino, cercando di tenersi a galla.
La sorella si portò rapidamente sul bordo del pontile, ma non sapeva cosa fare, come raggiungerlo. Era in preda al panico più totale. Non riusciva nemmeno a gridare aiuto.
E, ben presto, il capo di Benjamin fu inghiottito dall’acqua placida del lago.


Ad Emma sembrò di sentire ancora le grida d’aiuto del fratellino, mentre singhiozzava furiosamente, rannicchiata su se stessa.
L’aveva lasciato morire.
Era l’unica cosa che riusciva a pensare. Aveva lasciato che suo fratello morisse, senza fare nulla.
L’aveva ucciso.
Era stata sua l’idea di disobbedire ai genitori, lei ad iniziare a tentare di tirare la barca.
Era stata tutta colpa sua.
«Emma.»
La giovane si rattrappì ancora di più su se stessa. Le sembrava che a chiamarla fosse Benjamin e davanti a sé rivedeva il suo volto, lo stesso del bambino che aveva disegnato sul suo album, tempo prima, lo stesso dei bambini annegati di uno dei suoi incubi.
«Emma. - la chiamò ancora una voce, ma la giovane non riusciva a comprendere chi potesse essere, travolta com’era dall’enormità della rivelazione di quello che era accaduto sedici anni prima - Emma.»
Fu soltanto in quel momento che percepì che qualcuno si era inginocchiato al suo fianco e che le aveva posato delicatamente le mani sulle spalle. Alzò per un attimo il capo ed i suoi occhi, tramite il fitto velo di lacrime, riuscirono a mettere a fuoco suo marito.
«Leith...» mormorò piano, senza riuscire a dire altro.
L’uomo avvolse la moglie in un abbraccio, senza farle domande. Riusciva unicamente ad immaginare che doveva aver scoperto ciò che era avvenuto a Coverdale Mansion quando lei era bambina. I Ledford gli avevano infatti detto che i Burnside avevano venduto la magione all’improvviso, dopo che era accaduta una tragedia terribile. Non avevano detto nulla sulla tragedia in sé, ma Leith aveva pensato che fosse proprio quella la causa dell’angoscia della moglie.
«Sono un’assassina, Leith.» mormorò Emma, mentre i ricordi che erano improvvisamente riemerse nella sua mente si affastellavano con altre memorie, memorie del fratello, dei loro giochi insieme, tutti quelle memorie che i suoi genitori avevano voluto negarle.
«Tu non faresti mai del male a qualcuno, Emma.» disse l’uomo, tentando di rassicurarla, per quanto non comprendesse di cosa stesse parlando la giovane.
Vederla, però, così colma di angoscia, gli lasciava intendere che qualcosa doveva averla sconvolta. Ricordava perfettamente la paura che aveva provato quando, tornato a casa, non aveva trovato traccia della giovane. Aveva parlato con i signori Burnside, i quali erano stati di scarso aiuto, poi aveva iniziato a cercare ovunque, fino a quando non aveva trovato un disegno sul pavimento della sala da pranzo del pianterreno e la porta, che dall’adiacente sala da ballo immetteva sul parco, aperta.
«Mio fratello... Leith... è annegato ed io non l’ho aiutato.» riuscì a dire Emma, tra le lacrime ed i singhiozzi che continuavano a scuoterla.
L’uomo non disse nulla, limitandosi a stringerla maggiormente a sé, senza chiedere spiegazioni. Per quello ci sarebbe stato tempo, quando Emma si fosse rimessa. In quel momento gli importava unicamente donarle un poco di conforto.



«Abbiamo fatto tutto unicamente per difenderla, signor Coverdale.»
La voce del padre fu la prima cosa che Emma avvertì al suo risveglio. Dopo che Leith l’aveva ricondotta in casa, l’angoscia e lo sconvolgimento l’avevano lasciata priva di sensi. Non sapeva per quanto tempo fosse stata in quella condizione. L’unica cosa di cui era cosciente era che i suoi genitori, Jane e chiunque altro sapesse le avevano nascosto la verità e non sapeva per quale motivo, ma sentiva una profonda rabbia per questo.
«Ne siete certo, signor Burnside? - ribatté Leith - Per anni vostra figlia è stata tormentata da incubi a cui non sapeva dare un nome. Me ne ha parlato e devono essere stati terribili e per anni voi avete sostenuto con lei che tutto accadeva perché la sua mente era troppo suggestionabile. Pensate davvero di averla difesa?»
«Voi non eravate presente, quando abbiamo trovato Emma sul pontile del lago che piangeva dicendo che Benjamin era morto perché lei era una bambina cattiva. - disse Anselm - Nasconderle ogni traccia del fratello, vendere questa casa, aiutarla a dimenticare ogni cosa... cos’altro potevamo fare?»
«Dirmi la verità, padre.» mormorò la giovane, senza nemmeno rendersene conto, mettendosi a sedere sul letto, in modo da osservare le figure all’interno della stanza.
Oltre al padre e a Leith, erano presenti anche la madre, Jane ed il dottor Plummer.
«Vi siete dunque svegliata, Emma. - constatò Anselm, evitando di affrontare realmente la figlia - Io e vostra madre ne siamo lieti.»
«Padre, io... voi mi avete mentito per sedici anni e, soltanto ora, tutto mi risulta chiaro. La mia paura dell’acqua, gli incubi, certi disegni che ho fatto e che non mi sono mai riuscita a spiegare... ho creduto che la mia mente avesse qualcosa di sbagliato. Voi dicevate sempre che ero troppo suggestionabile, che inventavo cose inesistenti... invece avete fatto in modo che tutte le tracce di quello che era accaduto sparissero, mi avete spinta a dimenticare, a nascondere quello che ho fatto da qualche parte nella mia mente. - Emma fece una pausa. Nessuno aveva tentato di interromperla e nessuno si era mosso, se non Leith che era andato a sedersi sul bordo del letto, al suo fianco - Perché l’avete fatto, madre, padre? E tu, Jane?»
Nessuno parlò. La giovane si sentiva tradita da tutti loro, da quelle persone di cui si era sempre fidata e che, invece, le avevano sempre mentito. Sapeva che dovevano aver agito unicamente per amor suo, ma il mondo in cui era vissuta, fino a quel momento, era falso. Era cosciente che la sua vita sarebbe stata diversa se avesse dovuto portare su di sé il peso di quello che era accaduto sedici anni prima, ma sarebbe stato comunque più sopportabile che scoprire tutto all’improvviso e vivere per anni con incubi terribili ed inspiegabili.
«Temo che la colpa sia mia, Emma. - disse il dottor Plummer - Ho suggerito io ai vostri genitori di vendere Coverdale Mansion e di farvi dimenticare ogni cosa. Ero certo che la vostra mente traumatizzata avrebbe tentato da sola di nascondersi quello che era accaduto. Ciò che serviva era semplicemente darle un piccolo aiuto. - l’uomo fece una pausa - Non sono fiero di quello che ho fatto, né come medico, né come amico. Ho agito in maniera sconsiderata e arrogante. Nessuno può dimenticare qualcosa del genere. Voi eravate tormentata da quegli incubi e...»
«Non credo sia solo colpa vostra, dottore. - lo interruppe quietamente Emma, chiedendosi come riuscisse in quel momento ad essere così apparentemente calma - Vi ho sentito parlare con i miei genitori, il giorno in cui ho scoperto tutto, e so che volevate che mi dicessero la verità. Avete fatto di tutto per convincerli.»
«Dunque è per questo che siete andata al lago?» domandò il dottor Plummer.
Emma annuì solamente, facendo vagare lo sguardo su Jane, che teneva il capo chino, come se si vergognasse, e sui genitori. La madre evitò di guardarla, mentre il padre manteneva quell’atteggiamento duro e severo che lo caratterizzava in ogni istante della sua vita.
«Cosa vi aspettavate che facessimo, Emma? - sbottò infine Margaret, torcendosi nervosamente le mani - Quello che era accaduto era terribile. Benjamin era morto e voi eravate distrutta. Avete avuto la febbre per giorni e continuavate a dire che l’avevate ucciso voi, quand’era chiaro che era stato un incidente.»
«Potevate spiegarmi che Benjamin non era morto perché l’avevo lasciato annegare. È quello che ho sempre creduto ed il motivo per cui, alle volte, di notte vedevo corpi di bambini morti, con il volto di Benjamin, fluttuare nell’acqua. È quello che ho percepito anche subito dopo aver ricordato veramente tutto. - Emma si interruppe per un istante - Avrei avuto, lo so, la certezza di aver visto mio fratello morire e che avevo la mia responsabilità nella sua morte, dal momento che l’idea di disobbedire alla vostra volontà è stata solamente mia, ma, comprendendo fin da subito che la morte di Benjamin era un incidente e non qualcosa dipeso dalla mia volontà, forse sarei riuscita a vivere, non dico più serenamente, ma per lo meno comprendendo meglio perché la mia anima fosse colma di angoscia, perché la mia fantasia fosse popolata di incubi.»
«Voi non capite, Emma. - disse Anselm duramente - Invece di esserci grata per avervi risparmiato anni di sofferenza, ci accusate quasi fossimo i responsabili della vostra ben nota suggestionabilità.»
La calma che la giovane aveva mostrato fino a quel momento svanì, sostituita da un pianto isterico. Non riusciva a credere che suo padre avesse pronunciato quelle parole. Sentì Leith alzarsi dal letto ed invitare tutti ad uscire, poi tornò da lei e l’abbracciò, donandole quel calore e quel conforto di cui aveva bisogno.




Epilogo



4 luglio 1907


È passato un anno da quando ogni mi è tornato alla mente. C’è voluto tempo perché mi riprendessi del tutto.
Dopo che i miei genitori ebbero lasciato Coverdale Manor, il 7 di luglio, ho avuto una febbre violenta e spossante. Il dottor Plummer mi ha curato nel migliore dei modi e mi ha chiesto nuovamente perdono per quel suggerimento che aveva dato ai miei genitori.
Gliel’ho accordato di cuore.
Chi non riesco ancora a perdonare sono i miei genitori e Jane. Jane forse più di ogni altro. È sempre stata la mia amica più cara e, nonostante sapesse dei miei incubi e le mostrassi tutti i miei disegni - quindi anche quello dove avevo riprodotto il Van Dycke quelli in cui, senza rendermene conto, avevo ritratto mio fratello -, non mi ha mai detto una parola a proposito di quello che era accaduto nella lontana estate del 1890.
È da un anno che non riesco a parlare con loro. Ho accettato unicamente, dietro consiglio di Leith, di informarli della nascita di Cornelia, ma non ho voluto che vedessero la nipotina.
Forse, col tempo, riuscirò a perdonarli, ma per ora mi è difficile.
So che hanno agito per il mio bene, ma non posso evitarmi di pensare che sarebbe stato meglio se avessero agito in maniera contraria a come hanno fatto. Credo che ciò che mi dà veramente fastidio e provoca in me tanta rabbia verso di loro è soprattutto il comportamento che hanno avuto al mio risveglio, un anno fa. Hanno persistito a difendere la loro azione e mio padre ha attribuito i miei incubi non al trauma che ho subito, ma alla mia suggestionabilità.
Sono convinta che non servirebbe a nulla dirgli che gli incubi sono cessati da un anno esatto. Forse mio padre, negando la verità, sta solo cercando di difendere se stesso. Sono certa che deve essere rimasto sconvolto dalla morte di Benjamin, e così mia madre, e che il loro unico scopo sia stato realmente proteggermi. Ogni loro azione deve essere stata dettata, da allora, da quella tragedia. Ed anche Jane, che aveva nove anni quando è accaduto il fatto, deve esserne rimasta sconvolta.
In fondo hanno tentato di non farmi sposare Leith proprio perché temevano che potessi ricordare.
Eppure non riesco ad essere realmente grata per il loro amore, forse perché ricordo che Jeremy Plummer li accusò di egoismo quando parlò della loro scelta e lui stesso, interrogato da me, mi ha detto che, oltre all’affetto per me, nella loro decisione c’era la volontà di dimenticare a loro volta.
Alla fine, nessuno può scordare una tale immensa tragedia ed i ricordi, in un modo o nell’altro, arrivano sempre a farsi strada nella propria mente.
Adesso sono lì, ben presenti ed, a volte, mi sovvengono immagini di mio fratello e dei giochi che abbiamo fatto insieme. Mi sovviene ancora della sua morte, ma sto iniziando ad accettare quanto è avvenuto e comprendo che è stato, pur con una mia evidente responsabilità, null’altro che un malaugurato incidente.
Alle volte mi chiedo se, per caso, i miei genitori non mi abbiano ritenuta responsabile di quello che è accaduto a Benjamin, ma non potrò mai saperlo, a meno che, nel futuro, non decida di riallacciare i contatti con loro.
Leith sostiene che non devo angustiarmi con un tale pensiero. Lui sicuramente non mi ritiene responsabile di quello che è successo e di questo gli sono infinitamente grata, sentendomi infinitamente fortuna ad averlo accanto
Il lago del giardino è sempre al suo posto. Ho rifiutato la proposta di Leith di farlo prosciugare e bonificare. Riesco ad avvicinarmi tranquillamente alle sue rive e, ogni mese, vi getto una ghirlanda di fiori bianchi, in ricordo di Benjamin.
Coverdale Mansion non mi fa più paura e ho ritrovato anche dei ricordi belli e cari. Ho scoperto anche il motivo per cui ritenevo il salottino e la camera da letto due luoghi sicuri. Semplicemente, i Ledford, avevano cambiato l’arredamento, in modo tale che la mia mente non riusciva a ricordarli.
Non so cosa accadrà negli anni a venire, so solo che, al momento lo vedo più tranquillo di quanto non abbia mai pensato, e so con certezza che un giorno parlerò a Cornelia di suo zio, morto troppo presto.

 
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