Lettera da un'assassina, [16/06/09] Omaggio a Mrs Fletcher

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Alaide
view post Posted on 20/8/2009, 14:37




Fandom: La signora in giallo
Rating: 14 anni
Personaggi/Pairing: Jessica Fletcher, Nuovo Personaggio
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 5694 parole, 9 pagine (times new roman 12), capitolo unico
Avvertimenti: /
Spoiler! /
Genere: Generale, Introspettivo, Giallo
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono ma sono di coloro che ne detengono tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro e, viceversa, gli elementi di mia invenzione, non esistenti nella serie La signora in giallo, appartengono solo a me.
Credits: /
Note dell'Autore: L'opera Zelmira esiste effettivamente e fu eseguita a Parigi nel 1826 con delle varianti composte appositamente per Giuditta Pasta. Si tratt però di una preghiera aggiunta a fine opera e della successiva cabaletta. Non esiste invece alcuna aria composta per la Pasta nel momento dell'ingresso della protagonista in scena.
L'ossessione della protagonista per la figura di Giuditta Pasta non va confusa con il fenomeno, sempre esistito nel mondo della lirica, di associare il nome di un cantante presente a quello di un cantante passato, sia per motivi di repertorio coincidente, sia per ragioni di marketing.
La storia è scritta in prima persona e segue i pensieri del colpevole smascherato dalla signora Fletcher, che ha, ovviamente, della protagonista della serie di telefilm un'opiniione non propriamente lusinghiera. Si tratta di una sorta di lettera aperta, fatta scrivere a Rachel Whitechurch dal dottore che l'ha in cura presso l'ospedale psichiatrico in cui è stata ricoverata dopo l'arresto.
Introduzione alla Fan's Fiction: Sono un’assassina e non lo nego, ma di certo non pensavo che anche gli altri abitanti del globo venissero a conoscenza di quest’indubbia verità.
Era qualcosa a cui non avevo per nulla pensato.
Avevo calcolato ogni minimo particolare, mi ero anche costruita un alibi inattaccabile. Ero certa di aver compiuto un delitto perfetto. Invece avrei dovuto riguardami mille volte il film di Hitchcock per comprendere che i delitti perfetti non esistono.





Lettera da un’assassina



Sono un’assassina e non lo nego, ma di certo non pensavo che anche gli altri abitanti del globo venissero a conoscenza di quest’indubbia verità.
Era qualcosa a cui non avevo per nulla pensato.
Avevo calcolato ogni minimo particolare, mi ero anche costruita un alibi inattaccabile. Ero certa di aver compiuto un delitto perfetto. Invece avrei dovuto riguardami mille volte il film di Hitchcock per comprendere che i delitti perfetti non esistono.
Non solo pensavo di aver commesso un omicidio insospettabile, ma anche di riuscire a prendere due piccioni con una fava.
Come ho detto, avevo calcolato tutto nei minimi dettagli. Avevo anche trovato il capro espiatorio perfetto, che, come avevo pensato fin dall’inizio, lo sceriffo, un certo Amos Tupper, non esitò un istante ad accusare del delitto. In un sol colpo mi sarei liberata di un uomo che ero giunta ad odiare e di un altro che voleva entrare in possesso, prima di me, di qualcosa di prezioso ed inestimabile.
Ed ora sono dietro le sbarre. La mia carriera di soprano è finita miseramente ed l’autografo di cui volevo entrare in possesso è finito tra le mani di persone non degne di possederlo.
Ma forse, caro lettore, - sempre ammesso che qualcuno perda tempo a leggere queste mie poche parole - vorrai che io proceda con ordine.
È presto fatto.
Nel dicembre dell’anno scorso avevo scoperto che un autografo rossiniano era finito, per via ereditaria, nelle mani di un abitante di una cittadina del Maine: Cabote Cove. Non era soltanto un semplice autografo di Rossini, ma qualcosa che avevo sempre desiderato avere tra le mani ed averlo per prima, tra tutte le mie colleghe. Si trattava di un’aria scritta appositamente per Giuditta Pasta in occasione delle recite parigine di Zelmira. Non era la preghiera finale che tutti conoscono, ma un’altra aria, composta per la sortita della protagonista.
Era da quando ne avevo sentito parlare in una tavola rotonda sulle arie alternative in Rossini, tenutosi a Pesaro qualche anno fa, che ne ero ossessionata.
Forse tu, caro lettore, penserai che sia stupido essere ossessionati da un pezzo di carta con sopra delle note scritte dal compositore. Aggiungerai, anche, che avrei avuto occasione di cantarla se a mettervi le mani sopra fosse stato un musicologo od un amatore.
Ebbene, qui ti sbagli.
Credo che la mia mania per Giuditta Pasta sia nata quando un mio ammiratore mi ha paragonata a lei, definendomi la Pasta del ventesimo secolo. O forse il mio ego è sempre stato a tal punto smisurato da farmi pensare di essere veramente l’erede naturale di quella grande cantante del passato.
Ebbene, finalmente avevo la possibilità di arrivare a quel manoscritto, che doveva essere mio e mio soltanto. Quelle note, ancora sconosciute, erano mio solo appannaggio e soltanto la mia voce avrebbe potuto modularle. Per questo dovevo entrarne in possesso. Se l’autografo di Rossini fosse finito tra le mani di un musicologo e poi di un teatro anche un altro soprano avrebbe potuto benissimo trovarsi a cantare quell’aria e questa era una cosa che non potevo permettere.
Come primo passo, mi misi in contatto con l’abitante di Cabote Cove, un certo Jeremy Hibbard, uno scapolo di mezz’età che aveva ricevuto, appresi in seguito, l’autografo rossiniano in eredità da una cugina di primo grado che era morta a Boston in dicembre.
Riuscire a convincerlo a vendermelo fu un gioco da ragazzi. Il primo punto del mio progetto che andava in porto. In fondo credo che chiunque avrebbe ceduto di fronte alla cifra che gli avevo offerto.
Proprio in quei giorni iniziai ad avere dei sospetti su Roger, sospetti terribili e tormentosi. A gennaio appresi che un collezionista, nonché critico musicale di grande notorietà, sarebbe andato in febbraio a Cabote Cove per trattare proprio l’acquisto dell’autografo e temevo fortemente che Hibbard si lasciasse convincere a venderlo a qualcuno che, armato di una buona cifra, gli avesse prospettato che cedendogli l’autografo avrebbe fatto del bene all’umanità, dal momento che era sicuramente scopo finale di quell’uomo far sì che la musica di Rossini non rimanesse inascoltata.
Era quello un problema che non avevo pensato potesse sorgere, ma la colpa fu di Hibbard.
Avevo quindi tre elementi in mano. Sapevo che avevo un accordo con Hibbard, sapevo che Roger stava divenendo un ostacolo da eliminare e sapevo che un collezionista era interessato proprio a quell’autografo.
Fu su questi tre elementi che costruii tutto il mio piano.
Da fonte certa seppi che Robert Chaline, il maledetto collezionista, un uomo che conoscevo bene, tra l’altro, sarebbe andato a Cabote Cove la seconda settimana di febbraio. Feci in modo, stupendo grandemente il mio agente, di trovarmi sul posto proprio in quel periodo, usando come copertura di un concerto di canto.
Il sindaco del paese, un uomo logorroico e francamente stupido, si lasciò convincere alla svelta.


Giunsi a Cabote Cove in un lunedì freddo e ventoso, con il mare che spumeggiava inquieto vicino alla scogliera. Sono certa che una mente romantica avrebbe trovato quel paesaggio quanto mai spettacolare. Forse anche io l’avrei potuto trovare affascinante, ma non ero di certo dell’umore adatto. I miei scopi mi portavano in tutt’altra direzione e tutto quello che provai durante quel primo giorno nella cittadina del Maine fu una profonda impazienza.
Dovevo attendere la sera successiva per agire.
Ed avevo programmato tutto nei minimi particolari, ma come ho già detto qualcosa andò storto. Anzi, per dirla meglio, qualcuno la fece andare storta.
È stata tutta colpa di quella donna.
Se quella seccatrice di Jessica Fletcher non avesse compreso che ero io l’assassina di Roger, in questo momento sarei in giro per il mondo, soprano acclamato e famosissimo. E non solo. Sarei anche l’unica ad eseguire quella splendida aria di Rossini. Invece tutto è andato storto.
E dire che quando l’ho incontrata per la prima volta, l’ho trovata simpatica e cortese, forse perché amo i suoi romanzi, anzi amavo, sarebbe meglio dire. Adesso li odio ed odio profondamente la mia accusatrice.
È una cosa curiosa amare i romanzi gialli, quando si decide di commettere un omicidio. La cosa veramente buffa è che dai quei racconti si impara che l’assassino alla fine viene sempre scovato. Come ho potuto io pensare di poterla farla franca?
A dire il vero ci sarei riuscita e non fosse stato per quella maledetta donna.
O forse presto o tardi qualcuno avrebbe scoperto che ero io ad essermi macchiata del sangue di Roger?
È qualcosa che non saprò mai.
Ma sto perdendo il filo del discorso.
Incontrai per la prima volta Jessica Fletcher proprio quel lunedì in cui arrivai a Cabote Cove. La riconobbi immediatamente, tante erano le volte che ne avevo visto il volto sulla sovraccoperta dei suoi romanzi, ma non la salutai. Non avevo tempo per farlo e di certo la mia mente era intenta a pensare a ben altre faccende che non a come omaggiare la gloria locale della cittadina.
Il sindaco però mi impedì di andare avanti. Ho già detto quanto Samuel Booth sia un uomo decisamente sciocco, ma era qualcosa che potevo sopportare in vista dei miei progetti.
La cosa strana di tutto questo è che ricordo ancora quello che la mia accusatrice ed io ci dicemmo quel giorno.
Alle volte la memoria gioca strani scherzi, ma non è realmente questo il caso. In fondo deve essere stato proprio in quel momento che ho commesso il primo fondamentale errore nel mio progetto criminale.
Non ricordo le parole del signor Booth, né di preciso cosa risposi io, ma rammento con precisione quello che disse la Fletcher.
«Ammetto, signorina Whitechurch, che vi sono volte in cui anch’io vorrei poter determinare l’assassino in base alla mia personale antipatia, ma il più delle volte è il personaggio che più mi piace e mi soddisfa, quello che meglio conosco, perché spesso è dal suo punto di vista che strutturo le storie.»
Si trattava semplicemente della risposta ad una mia considerazione sui suoi gialli, ma già allora avrei dovuto comprendere che quella donna aveva la mente quanto mai sveglia e pronta. Non solo, aveva anche una particolare predisposizione per comprendere la mente criminale, dal momento che era su questa che progettava i suoi romanzi. Invece ho valutato con attenzione le sue parole e questo è stato sicuramente un grave errore, ma mai quanto quello che ho commesso proprio qualche minuto dopo.
Ricordo che il sindaco disse qualcosa d’altro, poi, grazie al cielo, se ne andò lasciandomi sola con la signora Fletcher. Se devo però essere sincera, alla luce dei fatti seguenti, avrei dovuto di gran lunga preferire che fosse il sindaco a rimanere e quella donna ad andarsene. La scrittrice affermò che il sindaco era una brava persona, al che io attaccai uno degli argomenti che più preferivo ed in cui più credevo. Per quanto abbia sempre amato essere una delle cantanti più affermate sulla scena internazionale, non mi sono mai sentita a mio agio con il pubblico. Ed è di questo che ho parlato essenzialmente con la Fletcher.
«Non lo metto in dubbio, signora Fletcher. L’unica cosa che vorrei è non dover recitare sempre il ruolo della persona cortese e gentile. Ci sono momenti in cui provo soltanto una grande stanchezza nei confronti della notorietà e benedico sempre il cielo di non essere troppo famosa. Immagino capisca cosa intendo.» dissi, mentre mi guardavo intorno e questa è una cosa che non avrei dovuto fare.
«Nella maniera più assoluta, signorina Whitechurch. Ci sono momenti che si vorrebbero unicamente per sé e che ci vengono rubati ed io sono, in fondo, solo una scrittrice e non devo avere a che fare direttamente con i miei lettori, come invece fa lei con il suo pubblico.» rispose la Fletcher, sorridendomi comprensiva. Deve essere stato per questo che l’ho trovata simpatica.
«Ammetto che potrei invidiarla per questo. Non posso dire di odiare il pubblico. Anzi, esibirsi davanti ad una platea che ti ascolta in silenzio e che ha il potere di giudicarti positivamente o negativamente è qualcosa che mi permette di mettermi sempre alla prova, di migliorarmi ogni volta, o per lo meno di tentare di farlo. Sono certi riti che mi tolgono respiro.
«Ci sono momenti in cui l’ultima cosa che vorrei è uscire dal camerino ed aver a che fare con le persone che sono venute a chiedere un autografo. Non è cattiveria o antipatia. Semplicemente ci sono ruoli che richiedono uno sforzo fisico e psicologico maggiore di altri, che lasciano stanchi, a volte distrutti. Ma se ci si sottrae dal rito degli autografi, si delude proprio quel pubblico che permette al cantante di entrare in gioco con se stesso, quel pubblico che l’ha appena applaudito e non sarebbe corretto da parte mia.»
«Non la invidio, mi creda, signorina Whitechurch. Ho sempre trovato stancante dover fare la mia firma nella copertina di un libro, una volta ogni tanto. Non riuscirei mai a farlo in più giorni ravvicinati ed in più fasi dell’anno, anche se lei incontrerà sicuramente una quantità di persone che potrebbero ispirare una buona trama gialla.»
«Assolutamente, signora Fletcher. Ci sono persone quasi maniacali. Ricordo ancora di aver incontrato una volta una donna che voleva il mio autografo in un libro rilegato con accanto la data, il luogo ed il personaggio che avevo interpretato ed ha fatto così con tutti gli altri artisti. Una precisione quasi encomiabile. C’è uno spettatore del Teatro alla Scala di Milano che mi porta tutte le volte che mi esibisco in quel teatro una rosa rigorosamente bianca.»
«Dei begli esempi della varietà umana, Miss Whitechurch.» commentò la Fletcher.
«Proprio così, Mrs Fletcher. Mi scuserà se torno in albergo? Si sta levando troppo vento e le mie corte vocali potrebbero risentirne.»
Fu dopo aver detto queste parole che commisi il primo grande errore. Come ho detto, mi stavo guardando intorno e, all’improvviso, notai la presenza di un uomo sulla cinquantina in abiti stazzonati e dallo sguardo leggermente allucinato. Ebbene si trattava proprio di Robert Chaline. Ho la certezza, adesso, che la signora Fletcher seguì il mio sguardo e mi notò mentre lo fissavo compiaciuta per una frazione di secondi.
E di certo non è stato molto intelligente congedarmi subito dopo averlo visto.
Ecco quello fu veramente uno sbaglio da sciocca.
Avevo progettato tutto in maniera così perfetta, ma non mi ero concentrata più di tanto su certi particolari infinitesimali.
La verità è che ho sbagliato nel giudicare la signora Fletcher.
Credi a me, caro lettore, quella donna è tutto tranne che una innocua donna della provincia americana.


Per tutto quel che rimaneva del lunedì e per buona parte del martedì successivo ho vissuto in un continuo stato di febbrile attesa. Da un lato avevo fatto sì che fosse Roger a mettersi in contatto con Hibbard, dall’altro stavo mettendo a punto ogni minimo particolare per poterlo uccidere ed incastrare Chaline.
La prima parte del piano fu piuttosto semplice.
Durante la notte tra il lunedì ed il martedì Roger si incontrò con Hibbard per accertarsi che quell’uomo non avesse cambiato improvvisamente idea. Quando il mio pianista tornò in albergo, dove io lo attendevo agitata e nervosa, forse troppo agitata e nervosa, mi disse che non v’erano problemi e che il giorno successivo, tre ore dopo la conclusione del concerto, Hibbard gli avrebbe consegnato il manoscritto autografo, dopo aver ricevuto la somma pattuita.
Fidarsi di Hibbard, come ti accorgerai in seguito, caro lettore, è stato un altro mio errore, sebbene questo sbaglio sia ben più legato al mio desiderio di possedere l’autografo che non all’omicidio in sé.
Trovare il modo per incastrare Chaline fu decisamente più difficile.
Non potevo di certo farmi vedere in sua compagnia, anche se aveva preso una camera nel mio stesso albergo, anche se era un mio fervente ammiratore. Se qualcuno se ne fosse accorto, si sarebbe potuto insospettire. Invece doveva essere tutto perfetto.
In un primo momento avevo pensato che bastasse fargli trovare addosso la boccetta con il veleno che avrebbe ucciso Roger, poco dopo il mio concerto, veleno che gli avrei somministrato durante l’intervallo. E quello non era di certo un problema.
Sapevo che Chaline, il quale era - e di certo non lo è ora - un mio fervente ammiratore, sarebbe venuto ad ascoltarmi. Sarebbe bastato passargli accanto durante l’intervallo per fargli scivolare la boccetta in tasca.
Ma non era di certo un buon piano.
Quale assassino sarebbe stato tanto idiota da andare in giro con l’arma del delitto facilmente trovabile?
Alla fine, mi venne un’idea migliore.
Chaline aveva l’abitudine di chiedere di vedermi poco prima di ogni mio spettacolo, privilegio che non gli negavo mai. In fondo prima che si mettesse in testa di impadronirsi di quel manoscritto, era uno dei pochi ammiratori che sopportavo veramente, forse perché conosceva benissimo il mio repertorio di elezione, forse perché aveva la fama di essere, oltre che un grande collezionista di manoscritti rari, un mecenate per giovani artisti, una causa che mi è sempre stata a cuore.
Infatti Chaline chiese di vedermi poco prima dell’inizio del concerto. Era già tutto pronto. Avevo davanti a me una serie di boccette di profumo - sono sempre stata fissata al riguardo - e tra queste era presente anche quella con il veleno, in tutto e per tutto uguale ad una di profumo che tenevo in grembo, nascosta tra le pieghe dell’abito da sera che avevo indossato per quel concerto.
Chaline entrò nel camerino ed io trattenni a stento uno sguardo colmo d’odio. Quel collezionista era forse uno dei responsabili della mia mania per Giuditta Pasta. Era stato proprio lui a definirmi la sua erede, dopo una mia esibizione ed era sempre stato lui, appassionato culture della vita e delle peculiarità musicali degli artisti del passato, a spiegarmi come credeva variasse e forse cantasse quella donna divina.
Quello che non riuscivo a perdonargli era che volesse rubarmi qualcosa che doveva essere mio, che proprio lui, che mi aveva spinto in quella direzione, finisse con il volermi sottrarre un’aria che potevo cantare e possedere io sola.
«Ho appena letto il programma del recital di stasera, signorina Whitechurch, ed è incredibilmente interessante. Ho notato che affronterete per la prima volta alcune arie di metà settecento, una scelta davvero interessante.» disse dopo i soliti convenevoli.
«Ho pensato di fare un omaggio all’eroe locale di Cabote Cove, per quanto quel repertorio non sia quello che prediligo. Immagino sappia, signor Chaline, quanto io ami il repertorio italiano dei primi decenni del diciannovesimo secolo.»
«Assolutamente, signorina Whitechurch, anche se sono certo che non sfigurerà nemmeno in quelle arie. Di certo la vostra voce è molto più adatta a ben altre parti. Come ho già avuto modo di dirle, lei è l’unica cantante della nostra epoca che possa evocare la grande Pasta.»
Non puoi nemmeno immaginare, caro lettore, quanto quelle parole mi infastidirono in quel momento. Come osava quell’uomo nominare la divina Giuditta quando era sua intenzione acquistare proprio l’autografo di un’aria scritta appositamente per lei? Sono certa che allora lo odiai con tutte le mie forze.
«Peccato che nessuno l’abbia potuta sentire. Lei sicuramente esagera, signor Chaline.» mi schernii, mentre lanciavo un’occhiata alle varie boccette disposte sul tavolino.
«Affatto, signorina Whitechurch. Proprio l’altro ieri ho osservato attentamente alcuni ritratti della Pasta e lei le assomiglia decisamente.»
«Allora avrò bisogno del suo aiuto, signor Chaline. Vede ho appena acquistato un profumo, commissionato appositamente per l’occasione, che mi è stato assicurato sia la perfetta copia di una fragranza che andava per la maggiore ai primi dell’ottocento.»
«Si tratta di quella boccetta, signorina?» domandò l’uomo, indicando proprio quella che conteneva il veleno e che io avevo occhieggiato mentre parlavo.
«Esattamente.»
In quel momento fremetti. Chaline afferrò saldamente la boccetta, cospargendola di impronte, la stappò e la portò alle narici. L’odore di quel veleno non era nulla di speciale ed infatti lo stolto mi disse che doveva esserci stato un errore, che avrebbe pensato personalmente a procurarmi un profumo migliore e altre amenità del genere.
Io gli sorrisi per tutto il tempo, poi, poco prima che se ne andasse, mi alzai in piedi e, con la scusa di raggiungere Robert che stava in una stanzetta accanto, gli passai accanto, facendogli cadere in tasca la boccetta contenente il vero profumo, in modo tale da far credere a tutti che fosse stato lui a tentare di incastrarmi e non già il contrario.
Una prima fase del mio piano criminale era andata in porto.
Non ti starò ad annoiare con il resoconto del mio concerto, caro lettore. Ti dirò soltanto che durante l’intervallo Roger bevve il suo usuale bicchiere d’acqua, dentro al quale avevo, ben prima dell’arrivo di Chaline, versato alcune gocce di veleno. In fondo sapevo bene che quel bicchiere veniva preparato con largo anticipo, perché Roger voleva essere certo che l’acqua fosse a temperatura ambiente, e che nessuno, a parte lui, poteva toccarlo.
Tutto stava andando come desideravo. Mi ero anche creata l’alibi perfetto di cui ti ho accennato all’inizio, caro lettore.
Pensando che gli inquirenti avrebbero ipotizzato che il veleno fosse stato propinato durante l’intervallo, nessuno avrebbe potuto sospettare di me che, durante tutto quel lasso di tempo, parlai con il sindaco, il dottore della cittadina, l’immancabile signora Fletcher e lo sceriffo. Quattro tra i più eminenti rappresentanti della cittadinanza potevano testimoniare che io ero con loro mentre Roger veniva avvelenato.
Ebbene, tutto stava andando come desideravo, quando commisi il secondo errore.
Roger, giusto un’ora prima di morire, mi parlò dell’autografo che presto sarebbe stato tra le mie mani. Ne parlò in maniera fin troppo esplicita, sebbene non l’avesse mai nominato apertamente, e, cosa che io non potevo di certo sapere, la signora Fletcher sentì quasi tutta la conversazione, anche se allora, così ha detto lei, non vi prestò molta attenzione.
Se fossi stata saggia avrei zittito immediatamente Roger, invece ero a tal punto sicura di me e gongolante per la sua prossima morte che non lo feci.
Un altro errore imperdonabile, anche se non potevo di certo immaginare che quella Fletcher si trovasse ovunque.


Come ho già avuto modo di dirti, riuscii ad incastrare Chaline. Quando la mattina seguente ritrovai il cadavere di Roger, le indagini iniziarono rapidamente. Lo sceriffo sembrava che desiderasse di essere in qualsiasi posto tranne che davanti al corpo senza vita del mio pianista. In fondo credo che sia qualcosa di naturale soprattutto se si vive in un posto tranquillo come Cabote Cove. Non si pensa mai di poter giungere ad avere a che fare con il delitto.
Fui la prima ad essere interrogata. E se fossi stata attenta, invece che così piena di gioia, mi sarei accorta che la presenza della signora Fletcher, accanto al dottore, che giunse rapidamente a determinare la causa della morte di Roger, sul luogo era quanto mai sospetta.
Raccontai quello che mi ero preparata di dire, ovvero che avevo salutato Roger davanti alla sua stanza e che poi ero andata a letto. Ovviamente non avevo notato nulla di strano.
Partirono subito le ricerche.
Trovarono la boccetta con il veleno, fecero le solite analisi e trovarono, oltre alle mie impronte, quelle di Chaline. Non solo, trovarono anche la boccetta del vero profumo che quello stolto di Chaline aveva toccato cercando il fazzoletto durante il concerto, lasciandovi sopra le sue impronte.
In aggiunta a tutto questo, gli trovarono anche un movente. Cedettero che il mio fervente ammiratore avesse assassinato Roger per due motivi. Da un lato a causa mia, pensando che la sua ammirazione nei miei confronti fosse giunta al punto da portarlo ad odiare Roger che, come mio accompagnatore abituale, era sempre in mia compagnia, dall’altra per il manoscritto autografo di cui voleva impossessarsi e che Roger si era aggiudicato prima di lui.
In questo secondo caso la fortuna mi assistette.
Non potevo immaginarlo, ma nel pomeriggio Roger e Chaline avevano litigato furiosamente in mezzo ad una delle strade del paese, proprio sull’autografo che non era ancora tra le mie mani, per colpa di quell’idiota di Hibbard.
Ti starai chiedendo cosa sia accaduto.
È semplice.
Tre ore dopo il concerto Roger ed Hibbard avrebbero dovuto incontrarsi. Ovviamente era qualcosa di impossibile, considerando che Roger per quell’ora poteva essere già morto. Ammetto che non avevo calcolato la durata dell’effetto del veleno. Sapevo soltanto che non era fulmineo e che impiegava diverso tempo prima di essere assorbito dall’organismo, ma per quel che sapevo Roger poteva morire anche durante il concerto, invece vi impiegò molto più tempo, ma pur sempre meno di quattro ore, considerando anche la durata della seconda parte del recital.
Nel pomeriggio avevo contraffatto la grafia di Roger ed avevo lasciato, insieme alla busta con l’assegno per Hibbard, un biglietto in cui chiedevo alla cameriera dell’albergo di consegnarlo all’ora convenuta in cambio di un altro plico, che avrebbe poi dovuto consegnare la mattina successiva a me o a Roger, come se fosse una semplice lettera. Ovviamente allegai anche una cospicua mancia.
E qui accadde il primo incidente.
Hibbard si rifiutò di consegnare il manoscritto autografo e quella stupida della cameriera, quando vide Roger morto, diede tutto alla polizia.
All’epoca non potevo sapere che vi fosse di mezzo la Fletcher. Anzi, alla fine, fui contenta della cosa, dal momento che quella sembrava essere un’altra prova a carico di Chaline.
Interrogarono infatti Hibbard il quale spiegò ogni particolare, dicendo che sia Roger che Chaline avevano fatto due offerte per averlo. Quello fu tutto quello che riuscii ad appurare dalle malelingue del paese.
Per farla breve, tutto stava andando per il verso giusto.
Avevo un alibi.
Chaline era stato arrestato dallo sceriffo Tupper.
Ed io ero in procinto di partire per New York.
Invece tutto precipitò in pochissimo tempo.


Ero nella mia camera d’albergo intenta a pensare ad un metodo per impossessarmi dell’autografo di Rossini, senza sapere come fare. L’unica era lasciar passare un po’ di tempo e rimettermi poi nuovamente in contatto con Hibbard, quando mi raggiunse la signora Fletcher.
Non potendo immaginare quali fossero le sue intenzioni la lasciai salire in camera. In fondo, quando l’avevo incontrata la prima volta mi era stata simpatica, e così quando mi ero costruita l’alibi. Inoltre ero certa di averla convinta quando ero scoppiata in lacrime per la morte di Roger, dal momento che aveva fatto di tutto per consolarmi.
Invece non avrei dovuto fidarmi.
Ricordo ogni singolo particolare di quella conversazione. Come potrei dimenticarlo quando è a causa di quello che avvenne quel venerdì pomeriggio che ora mi ritrovo in un ospedale psichiatrico che accoglie anche criminali con problemi mentali?
«Immagino sia ancora molto scossa per quello che è accaduto alcuni giorni fa, signorina Whitechurch.» esordì la signora Fletcher.
«Assolutamente. Sono anni che collaboro con Roger. Ogni volta che mi esibivo in un concerto, lui era il mio pianista. Decidevamo i programmi insieme, provavamo a volte anche per un mese una nuova aria.»
«Invece io, signorina Whitechurch, credo che lei non sia affatto dispiaciuta per quello che è accaduto.»
«Come può insinuare qualcosa del genere?» domandai, mostrandomi - e non stavo nemmeno fingendo del tutto - profondamente scossa dalle sue parole.
«Semplicemente, signorina Whitechurch, perché ho compreso come lei sia stata abile ad ingannarmi.»
Ammetto che non riuscii a dire una sola parola. La mia mente era troppo intenta a tentare di comprendere come potevo negare le sue accuse e in che modo riuscire a liberarmi di lei.
«All’inizio mi sono lasciata ingannare. Aveva organizzato tutto in maniera perfetta e minuziosa. Le prove contro il signor Chaline sono state costruire bene, eppure c’era qualcosa che non mi convinceva.
«Ed è stato soltanto questa mattina che ho compreso cosa potesse essere, osservando alcune boccette di profumo al negozio di Amelia. Non riuscivo a comprendere per quale motivo il signor Chaline, se voleva che la colpa ricadesse su di lei, signorina Whitechurch, non avesse cancellato le sue impronte dalle boccette di profumo. Era qualcosa di quanto mai strano. Mi è sorto quindi, il sospetto che non fosse stato il signor Chaline a voler incastrare lei, ma esattamente il contrario, anche se non riuscivo a comprenderne il motivo.»
«Si tratta di una tesi semplicemente assurda, signora Fletcher. Quale motivo avrei mai avuto per assassinare Roger? Come le ho detto era il mio più stretto collaboratore. Con ogni probabilità il signor Chaline ha agito in maniera avventata.»
«Se ha posto l’ampolla col veleno tra i suoi profumi, avendo anche l’accortezza di sostituirla ad una perfettamente uguale, non direi proprio, signorina Whitechurch. Le impronte del signor Chaline erano su quelle boccette perché lei voleva che vi fossero. Quanto ad un movente per assassinare Roger, l’aveva, signorina Whitechurch.»
«E quale mai poteva essere, signora Fletcher? Forse l’ho ucciso perché abbiamo discusso su una cadenza?»
«Quando ho iniziato a sospettare di quello che era accaduto, signorina Whitechurch, ho fatto alcune telefonate a New York. Ho scoperto che Roger voleva sottoporla ad una perizia psichica. Me l’ha detto sua moglie. Riteneva che lei avesse sviluppato una mania assoluta nei confronti di Giuditta Pasta e che questa mania stesse danneggiando la sua percezione della realtà. Temeva che presto o tardi la sua ossessione sarebbe divenuta qualcosa di evidente e che la sua carriera potesse giungere per questo improvvisamente alla fine. Gli sembrava che lei vivesse soltanto per emulare una cantante che nessuno ha mai avuto la possibilità di sentire. Ma lei questo non lo poteva permettere. Sarebbe equivalso ad un periodo di pausa piuttosto lungo nella sua carriera e l’avrebbe in un qualche modo danneggiata. Inoltre, signorina Whitechurch, temeva che la voce di una visita psichiatrica potesse diffondersi nell’ambiente operistico ed allora ci sarebbero state chiacchiere ed illazioni, che avrebbero potuto inficiare un suo ritorno sulle scene.»
Dunque sapeva tutto. Era l’unico pensiero che riuscivo ad avere. Quella donna sapeva tutto.
«V’era un altro particolare oscuro. Riguardava il manoscritto che Roger voleva acquistare da Hibbard. Non riuscivo a comprendere per quale motivo un pianista tenesse tanto ad un brano vocale, ad un brano per soprano per di più. Quando sua moglie mi ha detto ogni cosa circa la sua mania per Giuditta Pasta ho parlato con Jeremy. Sapevo che era in trattativa per vendere un autografo rossiniano e gli avevo suggerito di rivolgersi, prima di fare qualsiasi mossa, ad un esperto. In un primo momento la somma che gli veniva offerta l’aveva accecato, poi, riflettendovi e ricevendo anche l’offerta da parte del signor Chaline, proprio poche ore prima del suo concerto, ha pensato che la cosa migliore era tenere l’autografo fino a che non fosse arrivato un esperto a valutarlo, per poi metterlo all’asta, facendo il tutto in maniera legale e non con una vendita clandestina.
«Per questo motivo l’autografo non è tra le sue mani, signorina Whitechurch.»
«Tra le mie mani? Eppure signora Fletcher lei stessa ha detto che l’autografo dalla Zelmira lo voleva Roger. Ed inoltre io non avrei mai potuto avvelenarlo. Durante l’intervallo del concerto ero con lei ed altri abitanti di Cabote Cove.»
Un nuovo errore.
Ormai ero andata totalmente nel panico.
La signora Fletcher sapeva troppe cose ed aveva compreso tutto. Io non sapevo cosa fare. Forse non avevo nemmeno la forza per negare o per toglierla di mezzo. Ero abbacinata dalle sue parole e da come tutto le fosse risultato chiaro.
«Un’altra mossa che mi ha spiazzata in principio. Sembrava che lei non potesse aver avuto la possibilità di assassinare Roger, ma poi un particolare mi ha fatto capire che il pianista non era stato avvelenato quando tutti pensavamo. Vede, signorina Whitechurch, l’addetta ai camerini ha detto allo sceriffo che Roger le aveva raccomandato di versargli un bicchiere d’acqua mezz’ora prima dell’inizio dello spettacolo e di tenerlo al sicuro fino alla fine della prima parte. E questo era un particolare che poteva conoscere soltanto lei.»
«Il signor Chaline può essere benissimo andato, durante l’intervallo, dietro le quinte ed aver messo il veleno nel bicchiere, poi aver scambiato le boccette.»
«In un solo quarto d’ora, signorina Whitechurch? Aveva troppo poco tempo. Gli sarebbero occorsi almeno cinque minuti in più per alzarsi dal suo posto, incastrato nel bel mezzo della quinta fila, farsi strada tra la folla che si stava avviando verso l’uscita, i servizi ed il bar, raggiungere le scale, salirle ed andar nel camerino di Roger. A questo punto avrebbe anche dovuto versare il veleno nel bicchiere, andare nel suo camerino, dove avrebbe dovuto scambiare le boccette, e poi tornare in sala e sedersi.
«Ed era già seduto quando il suo vicino di posto, è tornato in sala dal bar. Di conseguenza al quarto d’ora d’intervallo occorre sottrarre circa cinque minuti, il che rende ancora più impossibile l’impresa.
«Non lo neghi oltre, signorina Whitechurch. Lei ha ucciso Roger perché era venuta a sapere della sua intenzione di sottoporla ad una visita psichiatrica ed ha voluto incastrare il signor Chaline per impedirgli di avere il manoscritto che tanto le interessava ed è stato proprio quel prezioso documento a tradirla. La volontà di impossessarsi a tutti i costi dell’autografo rossiniano, l’ha resa improvvisamente imprudente. Ha ucciso Roger troppo presto, quindi doveva per forza di cose trovare un modo per fare avere ugualmente la somma pattuita a Jeremy che si sarebbe incontrato comunque con il compratore, per dirgli che l’affare era andato a monte. È stato in questo momento che ha commesso l’errore più grave. La grafia del biglietto che ci ha mostrato Rose non presentava delle piccole differenze con la grafia di Roger presente sull’assegno. In un primo momento si pensò che la grafia fosse quella di Hibbard, poi mi tornò in mente una conversazione che avevo colto poco dopo la fine del concerto. Lei e Roger stavate parlando di quello per cui eravate venuti realmente a Cabote Cove e lui era preoccupato che qualcuno sospettasse che lei fosse coinvolta. Quando emerse tutta la faccenda del manoscritto non mi ricordai di quello che Roger le aveva detto, fino a quando non ho riflettuto meglio. Roger era preoccupato che si scoprisse che lei stava per spendere una cifra astronomica per quell’autografo, fatto che avrebbe potuto aggravare la sua posizione alla perizia psichica alla quale voleva lei si sottoponesse.
« Inoltre, signorina Whitechurch, io non ho mai detto che quell’aria apparteneva a Zelmira.»
«L’avrò letto su un qualche giornale specializzato, allora.» buttai lì, senza troppa convinzione. Ormai era chiaro che quella donna sapeva.
«Nessuno era a conoscenza del fatto che Hibbard possedesse un tale tesoro ereditato da una sua cugina, se non qualche addetto ai lavori bene informato, come il suo agente, signorina Whitechurch. È da lui che deve aver saputo del manoscritto e a quel punto, considerando che avrebbe appagato la sua ossessione per la Pasta, ha deciso che doveva averlo a tutti i costi.»
«Ma io non ho mai preso contatti con questo signor Hibbard.»
«Non di persona. Ha convinto Roger a farlo, ben prima che scoprisse che lui voleva farla sottoporre ad una visita psichiatrica. Forse è stata proprio questa sua decisione a convincerlo, sebbene, da quel che ho compreso, voleva proteggerla, in parte. Altrimenti non si sarebbe preoccupato così tanto a che nessuno venisse a sapere che era lei che voleva spendere una tale somma per l’autografo rossiniano.»
«Non ha uno straccio di prova, signora Fletcher.» ribattei con foga, come se questo potesse far crollare la perfezione con cui aveva ricostruito ogni cosa, quasi che fosse stata nella mia mente.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta e, su invito di quella maledetta donna, l’aprì. Entrò lo sceriffo con un suo sottoposto.
«Proprio come diceva lei, signora Fletcher. Abbiamo appena appurato che i soldi che sarebbero serviti per pagare Jeremy sono stati versati in quattro rate dal conto corrente di Rachel Whitechurch su quello di Roger Byrd.»
Che altro potevo fare, caro lettore, se non confessare?
Quale altra alternativa mi rimaneva?


Come ho detto, sono un’assassina e non lo nego, ma di certo non pensavo che anche gli altri abitanti del globo venissero a conoscenza di quest’indubbia verità.
Era qualcosa a cui non avevo per nulla pensato.
Avevo calcolato ogni minimo particolare, mi ero anche costruita un alibi inattaccabile. Ero certa di aver compiuto un delitto perfetto. Invece avrei dovuto riguardami mille volte il film di Hitchcock per comprendere che i delitti perfetti non esistono.
Non solo pensavo di aver commesso un omicidio insospettabile, ma anche di riuscire a prendere due piccioni con una fava.
Avevo calcolato ogni minimo particolare, maledizione!
E non è servito a nulla.


Depositato nel fascicolo di Rachel Whitechurch.
Timothy O’Neil, direttore dell’ospedale psichiatrico St. Patrick.
New York, 20 maggio 1984


 
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