Cuccioli d'orso, [03/10/09] Streghe e stregoni

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Rowizyx
view post Posted on 30/11/2009, 23:33




Titolo: Cuccioli d'orso
Autrice: Rowena (Rowizyx)
Rating: Per tutti
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 6459 parole (dieci pagine di word e qualche riga)
Avvertimenti: nessuno
Genere: Fantasy, Introspettivo
Disclaimer: I personaggi e le situazioni sono miei, appartengono a me. Da bravi, non fatemi diventare un troll. Non credete che possa farlo? Non sfidatemi.
Note dell'autrice: Questa storia è legata a un'altra che avevo scritto, sempre per un contest qui su Writers Arena, Danze al suono di un violino, ma si può leggere a parte. Ho voluto approfittare dell'occasione per approfondire il legame del protagonista, sempre Arghir, con la sua famiglia, che nell'altro racconto viene solo accennato per esigenze di trama.
Ho inserito più citazioni: 1, 2, 4, 10, 11, 12. Avrei voluto inserirle tutte, ma non ho avuto il tempo. XD
Introduzione alla Storia: Arghir ha tutte le carte in regola per diventare un grande stregone, forse fin troppe visti i doni ricevuti in eredità, la magia degli elementi e la capacità di mutarsi in orso, il potere proibito. Suo padre Brego lo addestra, ma quando una lezione va storta si trova a riflettere su se stesso... E sul suo passato.




«Ora, concentrati».
Bella roba, pensò Arghir: non era suo padre a essere bendato e indifeso, non era lui a dover sostenere una simile prova. Si trovavano in una radura nella foresta, poco distante dalla casetta in cui vivevano; là li aspettavano sua madre Mirna, dotata del dono della Preveggenza, e la sua sorellina, la dolce Moana, ma prima di potersi sedere a tavola e gustarsi un gustoso arrosto d’agnello, il cui profumo era percepibile anche a quella distanza, Arghir doveva almeno provare a vincere la prova.
Un piccolo esame, che suo padre aveva definito indispensabile per saggiare i suoi poteri: erano ormai diciotto mesi che il figlio studiava con lui la magia, almeno quelle pratiche secondo le quali era possibile controllare le forze elementari e usarle a proprio vantaggio.
Questa era la conoscenza di Brego, che Arghir aveva ereditato e che ancora non dominava. No, era fin troppo buono con se stesso: diciotto mesi di studio, eppure ancora non riusciva a combinare niente. Non era colpa sua; ogni giorno si era messo in ascolto, per sentire se stesso e il mondo che lo circondava in maniera diversa, ma nulla, non aveva ricevuto risposta. Se l’elemento che intendeva usare era presente intorno a sé, a volte riusciva a plasmarlo a proprio piacimento, ma quando si trattava di creare qualcosa dal nulla, concentrandosi solo sull’energia del mondo, Arghir falliva. Solo in alcune occasioni aveva prodotto nel palmo della propria mano alcune scintille, ma mai per più di qualche minuto.
Per quanto il ragazzo potesse essere frustrato, però, suo padre era molto più insoddisfatto e scontento di lui: Arghir non riusciva a comprendere per quale motivo fosse così seccato, sebbene sentisse di averlo deluso e se ne vergognasse profondamente, eppure non aveva nulla da rimproverarsi! Aveva solo bisogno di più tempo ed esercizio, ma quella prova lo stava innervosendo come non mai. Non aveva nemmeno bisogno di provarci, sapeva che sarebbe stato battuto senza pietà: e come poteva pensare di deviare o parare gli attacchi di suo padre, bendato per di più?
«Non pensare a me, Arghir: ascolta quello che ti circonda, usalo a tuo vantaggio!»
Più facile a dirsi che a farsi, almeno secondo il ragazzo, ma provò lo stesso: sentiva la terra sotto i piedi, molle per l’ultimo temporale estivo, poteva percepire il profumo dell’ottimo pranzo che sapeva sarebbe stato costretto a saltare, e poi, nell’aria…
Si chinò all’ultimo momento, evitando così quello che gli era sembrato un fulmine. Aveva i capelli dritti per l’energia che si era sprigionata nell’aria, anche la pelliccia che portava drappeggiata sulla sua schiena sembrava animata.
A quel contatto, il pelo d’orso contro le braccia nude, gli venne in mente un modo per rendere meno difficile la prova cui era sottoposto. Non fece neanche in tempo a provarci, che un’altra scarica gli passò appena sopra la testa, mentre suo padre rideva. «Niente trucchi, Arghir, te l’ho detto», commentò l’uomo con voce dura, e il ragazzo si diede dello stupido: nel suo cervellino che girava a vuoto, l’idea era sembrata ottima, cambiare le orecchie e il naso e sperare di farla franca, e invece era stato subito beccato!
Nel ridicolizzare quella stupidaggine, però, suo padre aveva commesso un errore sciocco: aveva parlato, fornendogli così l’indicazione necessaria per provare a contrattaccare. Era l’acqua, l’umidità della foresta a chiamarlo adesso, e poteva sfruttarlo a proprio vantaggio per rispondere a quel fendente. Non aveva mai osato tanto, le scintille erano già una sfida per lui, eppure l’idea dell’agnello che avrebbe potuto gustare di lì a poco lo convinse a fare almeno un tentativo.
Allargò le mani di fronte a sé, senza recitare formule poiché non ve n’era bisogno, concentrandosi sulla nebbiolina della foresta: bastava immaginare nella propria mente l’acqua accumularsi nelle sue dita e lasciarsi scagliare contro suo padre, così gli era stato insegnato. Uno, due, tre!
Vi riuscì, proprio come l’aveva pensato, eppure prima di gioire tese le orecchie per sentire il colpo; aveva lanciato il getto verso il punto da cui gli era arrivata la voce del padre, però non poteva essere sicuro di averlo preso. Come a togliergli il dubbio, udì Brego ridere ancora, alle sue spalle.
«Colpo eccellente, anche se con il tempo che hai impiegato per lanciarlo avrei potuto ucciderti almeno due volte».
Ecco, proprio quello che un figlio voleva sentirsi dire ogni giorno. Arghir non ebbe tempo per lamentarsi, però, perché un altro attacco gli sibilò a pochi passi. Al tentativo successivo, il ragazzo provò a usare un altro incantesimo per proteggersi e immaginò di rendere l’aria solida come la pietra: sentì lo schianto del raggio d’energia che suo padre gli aveva scagliato contro quello scudo improvvisato, ma un attimo dopo fu travolto da una montagna di pelo e carne.
Steso a terra sotto l’immensa massa dell’orso, Arghir non perse il controllo e scoppiò a ridere. «Hai un alito spaventoso, papà», commentò a un centimetro dal naso della bestia, «e comunque mi sembrava che avessi detto niente trucchi».
Brego tornò rapidamente umano e si unì alla risata del figlio: «Ti ho fatto male?»
«No, e suppongo che il cuscino d’aria che ha attutito la caduta non sia stato messo lì per caso».
Tipico di suo padre, tramutarsi in orso per coglierlo di sorpresa ma assicurarsi che non si facesse male seriamente.
«Supponi bene, ma ora togliti quella benda, su: è ora di pranzo».
Il ragazzo fu contento di essere liberato dal peso dell’uomo; levò dal viso la fascia di stoffa che si era sistemato sugli occhi e accettò la mano che il padre gli tendeva per aiutarlo a rialzarsi.
I due si misero a camminare verso la casetta, lentamente, senza pronunciare una sola parola. In questo, Arghir era un ottimo allievo: quando facevano lezione, lasciava sempre che fosse suo padre a parlare per primo, in rispetto del maestro come aveva letto su i vecchi testi di magia nascosti in soffitta, e in quel momento in particolare attendeva di sapere se avrebbe potuto sedersi a tavola quel giorno.
Non sapeva come giudicare la sua prova, in fondo non poteva certo sostenere di aver vinto: non aveva neanche considerato la possibilità che suo padre si trasformasse, troppo impegnato a concentrarsi e a usare gli elementi a proprio vantaggio per pensare con lucidità.
E, ora che ci faceva caso, non si sentiva per niente bene…
«Ti sei guadagnato una bella fetta d’arrosto, figlio mio», commentò soddisfatto Brego. La tenacia dimostrata da Arghir e gli incantesimi che il giovane aveva compiuto lo avevano davvero sorpreso, confermando il dono della magia che aveva intravisto il suo primogenito.
Il ragazzo, alle sue spalle, non rispose.
«Arghir?» lo chiamò il padre, voltandosi. Suo figlio era steso a terra, svenuto.


Aveva esagerato, comprese Brego, e in quello stesso momento seppe che Mirna gli avrebbe dato il tormento per questo non appena lo avrebbe visto tornare a casa con il ragazzo svenuto.
Già sua moglie si era detta da subito contraria a quella sfida, e ora aveva una valida ragione per diventare insopportabile… Meglio non pensarci prima di arrivare da lei, si disse: passò un braccio intorno al corpo del figlio e, maledicendo i forti dolori che non gli davano tregua, cercò di rimetterlo in piedi. Ci riuscì solo al terzo tentativo, tra un commento su quanto Arghir fosse diventato pesante e l’altro; mancamenti da troppa fatica magica, come li conosceva bene!
Da ragazzo gli era capitato spesso, dopo una sfida con i suoi maestri della Torre, nella capitale del regno di centro. A quei tempi, era un giovane molto più chiuso e incapace di usare i propri poteri di quanto fosse Arghir, ma questo al ragazzo non l’avrebbe mai rivelato.
Lui era arrivato alla Torre come un estraneo, era entrato solo perché suo padre, grande amico del sommo maestro, aveva pregato perché gli fosse data una possibilità.
Ricordava benissimo il volto di Barnabas che lo scrutava mentre Argante assicurava allo stregone che il suo ragazzo era dotato, ma che aveva bisogno degli insegnamenti della Torre per imparare a controllare i propri poteri e diventare il grande incantatore che poteva essere. Suo padre aveva detto che l’educazione del suo unico erede gli era dovuta: non era potuto diventare ciò che aveva desiderato per tutta la vita, né conquistare fama e gloria come avrebbe meritato, quindi almeno questo privilegio doveva essere di suo figlio.
Brego ricordava anche il commento che il maestro cieco fece a quella richiesta: «La gloria è simile a un cerchio d'acqua che non smette mai di allargarsi, fino a che si disperde in un nulla», aveva detto il vecchio appoggiandosi sul suo bastone ricurvo, «io posso insegnargli a controllare gli elementi, a usarli a proprio vantaggio e a servirsene come arma, posso tentare di inculcargli la disciplina, ma non prometto fama né gloria. E se studierà qui con questo scopo, così come hai fatto tu, Argante, si troverà molto deluso».
Barnabas aveva anche aggiunto che ad ogni modo all’amico non poteva rifiutare un simile favore, e che quindi avrebbe provato ad addestrare il giovane orso per diventare uno stregone come voleva suo padre.
Addestrare, come un animale. In quel momento, Brego l’aveva odiato, sentendo il disprezzo che quel vecchio provava per loro; in quello stesso momento, decidendo che avrebbe fatto di tutto per superare il maestro della Torre, aveva gettato al vento ogni possibilità di riuscire.
Ormai la casetta era in vista, era meglio concentrarsi sul figlio e sul rimbrotto che non avrebbe tardato ad arrivare. I giorni dell’accademia erano passati, ormai, ed era meglio non pensarci più.


«Hai esagerato, come al solito».
«Cosa ne puoi sapere, donna, non eri nemmeno presente».
«Per tua informazione, l’energia del fulmine che hai liberato era così forte da drizzare i capelli a me e a nostra figlia, eppure eravamo entrambe in casa!»
Voci. Un litigio. La sensazione di aver preso una botta in testa ben peggiore di una zampata di suo padre trasformato in orso.
Arghir non ricordava nulla di quanto era accaduto, stava camminando con suo padre nel bosco per tornare a casa… L’arrosto, poteva avere l’agnello, o almeno avrebbe potuto se il suo stomaco avesse voluto mangiare. Per come si sentiva in quel momento, la fame era l’ultimo dei suoi pensieri.
«L’avrai attaccato con troppa forza, me lo immagino, e solo per dimostrare di essere migliore del Maestro».
«Non dire sciocchezze: non ti ricordi come mi conciò Barnabas, quella volta? Rimasi due settimane a letto, per riprendermi».
«Quella fu una punizione per il tuo comportamento sconsiderato».
«E per Arghir è stata una prova per testare quanto potere ha davvero: anche alla Torre facevano così, quando qualche allievo era in ritardo rispetto agli altri, lo istigavano a usare la magia combattendo».
«Nessuno dei maestri della Torre poteva trasformarsi in orso!»
E da capo, pensò Arghir, stufo: odiava quelle scenate, specie quando l’argomento era la magia; con la natura di metamorfi di Brego e dei suoi figli, Mirna spesso si preoccupava che il suo sposo non calcasse troppo la mano negli insegnamenti sul potere dell’orso. Da quando poi l’uomo si era intestardito di fare del loro primogenito un maestro degli elementi, i loro bisticci si erano intensificati come mai prima di allora era accaduto.
Lei era una Veggente, com’erano state sua madre e sua nonna, e purtroppo aveva trasmesso il dono della Vista anche alla propria figlia, che non riusciva a controllare quel potere e ne era succube; per questo non vedeva come necessario che Arghir imparasse un’altra arte magica, la loro famiglia aveva già abbastanza guai con quelle che i due ragazzi possedevano. Un dono latente non poteva fare danni, se non si conosceva la via per scatenarla, così la pensava lei.
I suoi genitori stavano discutendo per quanto accaduto: sua madre non era per nulla contenta della prova che il giovane aveva dovuto sostenere, questo lo sapeva già. Aprì gli occhi e fece un commento sulla facilità con cui i due adulti litigavano, così da richiamare la loro attenzione. «Sono ancora qui, eh», mugolò il giovane, «però se smetteste di discutere potrebbe passarmi questa tremenda emicrania».
«Arghir!», gridò la madre correndo al suo fianco. «Come ti senti? Stai bene?»
Brego comparve alle sue spalle, facendo finta di non essere preoccupato. «Se non lo strizzi in quel modo, donna… Avere poteri magici non lo dispensa dal respirare».
In effetti, Mirna aveva stretto il figlio in un abbraccio così serrato da rischiare di soffocarlo, ma non per questo lo lasciò andare. «Tu lo hai già strapazzato abbastanza per oggi, perciò tocca a me adesso!»
Arghir sorrise, imbarazzato per quelle coccole non previste. Avrebbe dovuto essere considerato un uomo, aveva quasi diciotto anni, e invece la madre non riusciva a dimenticare il bambino che era stato.
«Hai esagerato, Arghir», commentò l’uomo senza curarsi della moglie, «qual è la prima regola che ti ho insegnato?»
«Per i nemici non riscaldate tanto la fornace da bruciarvi voi stessi», recitò l’interpellato con voce abbastanza irritata. «Ma non mi hai lasciato molte altre scelte, papà».
«Potevi limitarti a schivare i colpi, o a creare uno scudo d’aria fin da subito. Non ti ho detto di provare a colpirmi».
«Mi hai detto che se volevo mangiare dovevo vincere la sfida».
A sentire ciò, la madre esplose un’altra volta: «Come osi minacciare nostro figlio di togliergli il cibo di bocca, bestia che non sei altro?»
«Non lo avrei fatto, Mirna, ti vuoi calmare?», sbottò l’uomo allargando le braccia. «L’ho detto solo per incentivarlo a mettercela tutta, sapendo quando gli piace l’arrosto».
«Potevi promettere di eliminare le tue lezioni per un paio di settimane, sarebbe stata la miglior spinta possibile da dargli».
Brego sembrò sul punto di rispondere qualcos’altro, ma si trattenne in qualche modo; l’aria intorno a lui era satura d’elettricità, sempre cattivo segno, e prima che la moglie potesse aggiungere qualcosa uscì dalla casetta e prese a camminare in direzione della foresta, per sfogare la rabbia in modi che non implicassero i suoi familiari.


Sorpreso dalla piega che la discussione tra i genitori aveva preso sotto i suoi occhi, Arghir fece per seguirlo, ma una manata della madre lo fermò: «Tu non vai da nessuna parte, intesi? Devi riposare; ti ho messo su un po’ di brodo, ti farà bene».
Quando Mirna aveva quel tono, era meglio non rispondere, tanto più che neanche con tutta la sua forza di volontà il ragazzo avrebbe potuto alzarsi e raggiungere il padre. Meglio rimanersene a letto, gustarsi un po’ di attenzioni e, soprattutto, lasciar sbollire Brego per conto suo, così ragionò Arghir sistemandosi le coperte; il suo unico pensiero era non poter ascoltare le storie sulla gioventù dei genitori, di quando si erano incontrati all’accademia di magia, di come poi suo padre avesse lasciato gli studi per tornare a occuparsi di nonno Argante… Tutte cose che aveva sempre solo sentito senza mai entrare nei dettagli.
Quella gli era sembrata l’occasione per farsi raccontare tutto, così magari da avere un vero motivo in più per continuare a impegnarsi con la magia senza altre perplessità, ma in effetti si sentiva le gambe molli solo al pensiero di alzarsi.
«Mamma, perché sei così contraria al fatto che io studi come vuole papà?» chiese all’improvviso, mentre la donna continuava a rassettare nella sua stanza. Se suo padre ormai era troppo lontano per fargli alcun genere di domanda, c’era un’altra possibile fonte con cui provare.
«Perché voi della famiglia di Argante non avete la giusta disciplina per una simile arte», fu la risposta spiccia di lei. «Tuo padre ne ha prese tante dai maestri della Torre, perché non voleva seguire i loro ordini, e ancora gli brucia di non aver finito gli studi e poter essere considerato uno stregone a tutti gli effetti. Non so perché, visto che dopo la fine di tuo nonno è meglio evitare qualunque mossa che potrebbe mettere troppo in mostra la nostra famiglia».
Arghir strinse i pugni sotto il lenzuolo, sentendo citare quell’episodio: suo nonno era stato uno degli stregoni più potenti e abili di tutto il loro mondo, ma oltre alla capacità di usare gli elementi a proprio vantaggio portava con sé un altro dono che lo rendeva odiato e temuto in tutti i tre grandi regni.
La loro famiglia, infatti, era segnata dal potere dell’orso: alla nascita dei figli, il membro più anziano tagliava per loro uno scampolo della sua pelliccia da mettere nella culla. Quella striscia di peluria bruna sarebbe cresciuta con loro, e quando fosse diventata abbastanza grande avrebbe permesso ai giovani di mutare forma, diventare veri orsi.
Erano rimasti in pochi ad avere un simile potere, almeno così gli aveva detto suo nonno quando Arghir era molto piccolo, e la loro condizione doveva rimanere segreta, per la loro sicurezza; la gente infatti aveva paura di loro, che erano considerati dei mostri. Uscire allo scoperto poteva portare alla morte, e il ragazzo aveva imparato la lezione: aveva circa cinque anni, quando suo nonno si era ubriacato in una taverna poco distante dal luogo in cui viveva con la famiglia del figlio e si era trasformato in orso per far tacere un paio di avventori che gli stavano dando fastidio. La gente del posto lo aveva incarcerato e il Podestà stesso del loro regno, si diceva, era arrivato di corsa per giudicare il primo mutaforma identificato negli ultimi due secoli. Argante era stato condannato a morte per la via più atroce, la fame, ma tutto questo Arghir l’aveva saputo anni dopo.
Di quella notte, ricordava solo sua madre che si era svegliata urlando per una visione su quello che stava accadendo al suocero, suo padre che svegliava lui, prendeva il fagottino che era Moana ai tempi e poche altre cose per fuggire attraverso la foresta. Avevano camminato per ore, poi Brego si era trasformato in orso e aveva preso moglie e figli sulla schiena per muoversi più velocemente.
Avevano scoperto la misera fine di Argante tramite pettegolezzi e voci, in villaggi molto lontani dalla loro vecchia casa, dove le loro facce non potevano essere collegate al vecchio mostro abbattuto. Si raccontava che il giovane signore del reame, nel vedere il vecchio uomo in catene e vestito solo della sua pelle d’orso che veniva condotto al suo cospetto, avesse pronunciato una frase ormai entrata nella storia: «Per il formicolio dei miei pollici, qualcosa di perverso viene verso di noi
Quella frase era ormai diventata un modo di dire comune, anche tra i bambini, eppure… Eppure se si fossero presi la briga di ascoltare Argante per un minuto, avrebbero capito che il vecchio non era pericoloso, e che se aveva vissuto quasi ottant’anni senza fare del male poteva godersi anche la vecchiaia senza simili trattamenti. Invano, sedicenti testimoni l’avevano accusato di qualunque infamia, dall’aver rubato polli e pecore ad aver aggredito viandanti nella foresta per impossessarsi dei loro beni.
Arghir avrebbe voluto poter godere più a lungo della saggezza e della presenza del nonno, a cui da piccolo era molto affezionato; per mesi aveva domandato di lui, con la tenacia e la caparbietà che erano proprie dei bambini, ed era stato costretto a ricevere in risposta solo gli sguardi disperati dei genitori.
Da tempo si crucciava il meno possibile per questa storia, per quanto ancora sentisse la nostalgia di quel vecchio folle. Non bisognerebbe affliggersi per ciò che è stato ed è senza rimedio, così avrebbe sentenziato suo padre citando un’altra regola degli stregoni della Torre. E se valeva per gli incantesimi irreversibili, lo stesso era per l’assenza del nonno, prendendola come un monito per non abbassare mai l’attenzione quando usava i suoi poteri.
«Allora, mamma?» ripeté il ragazzo, visto che la donna sembrava non aver sentito.
«Tuo nonno si è dato al bere perché non riusciva a essere uno stregone e un figlio dell’orso allo stesso tempo, e questo vizio è stato la sua fine, tuo padre non ha mai terminato l’apprendistato della Torre», continuò Mirna senza incertezze, «probabilmente tu rappresenti per lui il riscatto della famiglia».
«Perché dovremmo riscattarci?» domandò ancora Arghir, impaziente. «Noi facciamo una vita normale, orso o non orso, lavoriamo sodo per mangiare e non diamo fastidio a nessuno: perché avremmo bisogno di salvarci in qualche modo?»
Mirna non sapeva come rispondere: non avevano mai raccontato ai figli le storie della Torre, perché Brego si vergognava di se stesso e di come si era comportato in quel periodo… Era stato più facile inventare che Argante stesse male e che il figlio fosse dovuto correre a casa per assisterlo, piuttosto che confessare la verità. E ora che Arghir stava ponendo le domande giuste, doveva controllarsi, impedire a se stessa di vuotare il sacco solo perché era arrabbiata con Brego. Questa non gliel’avrebbe mai perdonata, mai.
L'inferno non è mai tanto scatenato quanto una donna offesa, diceva spesso Argante ridendo nell’assistere ai continui litigi dei due sposini, quando la coppia si era trasferita nel suo villaggio. E lei odiava dare ragione a suo suocero, anche se era morto da più di dieci anni.


Non dovrebbe farlo, pensò Brego furibondo. Amava Mirna, questo era innegabile, la donna era seconda solo ai loro due figli nel suo cuore, eppure quando si comportava in quel modo…
Era vero il vecchio detto che sua madre gli ripeteva spesso, da bambino. Chi non ha mai avuto una ferita ride di chi ne porta i segni.
E anche se Mirna non ne rideva apertamente, rifiutarsi di comprendere il motivo per cui vessava Arghir in quel modo era un’uguale beffa nei suoi confronti.
Lei aveva rinunciato al proprio dono, le visioni, perché non aveva la minima intenzione di votarsi a una vita da errante Veggente che faceva il giro dei villaggi e delle città offrendo i propri servigi; era troppo lenta a correre, diceva, e la gente sapeva essere crudele quando le predizioni non erano come ci si aspettava.
L’unica occasione in cui il suo potere era servito era stata la notte della cattura di suo padre, e per questo Brego non l’avrebbe mai ringraziata abbastanza; senza quel monito, tutta la sua famiglia avrebbe vissuto le pene dell’inferno, torture, una morte straziante, anche Arghir e la piccola Moana, che a quel tempo aveva solo pochi mesi…
Brego sospettava da sempre che fosse stato Barnabas a inviare quel messaggio: da giovane aveva visto il suo maestro creare visioni da far apparire nelle menti altrui, era un talento raro e che richiedeva molto potere, perciò quel pensiero non era del tutto infondato. Che il vecchio cieco avesse intravisto nel futuro la tragica fine del suo vecchio amico e, non potendo salvarlo, avesse almeno cercato di aiutare la sua famiglia? Che avesse voluto aiutare lui, Brego, perché non gli fosse portato via quello che aveva fatto di buono nella sua vita?
Inverosimile, visto il loro passato, eppure…
Brego superò un fosso e svoltò a un grosso cespuglio dalle foglie violacee, in direzione del fiume; nonostante l’arrabbiatura aveva fame, e pur di non tornare a casa così presto era pronto a qualunque cosa. Si tirò la pelle d’orso sul capo e una volta trasformato si mise in attesa su una grossa roccia: quelle acque erano popolate da grassi salmoni ignari della sua presenza, bastava avere la pazienza necessaria perché uno di loro fosse a portata di zampa e prenderlo.
Non gli riuscì al primo tentativo, i pesci erano molto più rapidi di quello che gli era sembrato, e lui troppo goffo per un simile lavoro. Arghir era più bravo, doveva ammetterlo: era stato suo figlio a pensare di pescare come un orso, perché non aveva abbastanza pazienza a stare con la canna di frassino sperando che le prede abboccassero all’amo, e in poco tempo aveva sviluppato una tecnica eccezionale.
Certo, il pesce non era vendibile al mercato del villaggio, gli artigli dell’orso lo rovinavano, l’aspetto non era per niente invitante… Non così com’era stato pescato, almeno, ma negli ultimi due anni Brego e suo figlio avevano imparato ad affumicarlo, a tagliarlo nella maniera corretta e venderlo già pulito e trattato, avevano perfino un accordo con le taverne della zona per rifornirli di pesce, il che portava un bell’introito in casa.
Arghir era molto fiero di sé per aver trovato un simile metodo per aiutare economicamente la famiglia; i soldi non erano mai abbastanza, e bisognava avere da parte il necessario per partire un’altra volta, nel caso fosse stato necessario. Un incidente poteva sempre capitare, per questo Brego aveva vietato a suo figlio di andare da solo nelle taverne.
La vita del ragazzo era diversa da quella dei suoi coetanei, non poteva che essere così. Nessuno dei giovani del villaggio sapeva mutarsi in orso, o in qualche altro animale… Non avrebbero potuto capire.
Come non avrebbero capito i suoi compagni alla Torre, del resto, così pensò Brego addentando finalmente un boccone di pesce; anche da crudo, per la sua bocca di orso sembrò delizioso.
No, non avrebbero capito nemmeno loro. A parte Mirna, ovviamente.


«Diciamo che tuo padre… Non è stato poi molto infastidito di lasciare l’accademia della Torre», cominciò a dire la donna mentre aiutava il figlio a sedersi. Sul comodino di legno intagliato una scodella di brodo fumava spargendo un odore delizioso. Non era arrosto, si disse Arghir, ma era comunque buono. Sua madre era bravissima a cucinare!
«Perché no? Pensavo che fosse il suo sogno, oltre che quello del nonno: pensavo che volesse diventare uno stregone stimato da tutti anche per lui», obiettò il ragazzo.
Sì, così era stato per molto tempo, sospirò Mirna. Brego era arrivato alla Torre fiero di sé, di quello che sapeva fare e che suo padre gli aveva insegnato, ma molto rapidamente era tornato indietro: l’incontro iniziale con Barnabas non gli aveva dato una buona sensazione, e quel gelo era stato confermato la mattina dopo, con il sacro giuramento dei nuovi discepoli. Per meglio dire, con la parte che riguardava i mutaforma, e il dovere degli stregoni di mascherarli e ucciderli, o consegnarli alla giustizia perché fossero condannati com’era giusto.
Questo disse la donna al figlio, che per la sorpresa lasciò cadere il cucchiaio nella ciotola.
«Tu giureresti una simile cosa, sapendo che tu stesso, che tuo padre dovrebbe subire un simile destino?», domandò tetra Mirna. Il ragazzo non rispose.
«A Brego fu assegnata una stanzetta nella parte più alta della Torre, lontano dagli altri; era per la sua sicurezza, il maestro fece in modo che fosse separato da tutti per potersi trasformare durante la notte, e riprendere le forze da orso. Sai anche tu che cosa succede se per troppo tempo un mutaforma non prende le sembianze del suo animale, tuo padre ti ha raccontato la storia dei tre fratelli».
Sì, Arghir lo sapeva: la leggenda narrava di tre suoi antenati, tutti con il dono dell’orso: uno non era tornato umano per troppo tempo, e dimenticò di essere stato umano, si ritirò con altre bestie nella foresta; il secondo rifiutò il dono e seppellì la sua pelliccia dietro la propria casa, ma anche lui non ebbe una fine molto decorosa. Diventò un essere meschino e senza cuore, al punto che gli altri uomini furono costretti a giustiziarlo per porre fine alle sue nefandezze.
Solo il terzo sopravvisse, ebbe una lunga vita piena di gioia: quello che dei fratelli seppe trovare un equilibrio tra le due sue nature.
Arghir rifletté sulle parole della madre. «Allora il maestro sapeva del dono dell’orso».
«Era amico di tuo nonno, per forza lo sapeva; per la stanza, incolpò il carattere difficile di tuo padre, dicendo agli altri maestri che avrebbe potuto creare problemi, che il ragazzo delle montagne era abituato a stare da solo e che sarebbe stato meglio così, ma gli altri ragazzi non la presero bene. La Torre si basa sull’uguaglianza tra gli adepti dello stesso livello, è sempre stato così, sai, perciò un nuovo arrivato che senza meritarsi nulla veniva trattato in maniera diversa creò un po’ di scompiglio».


C’erano state storie su di lui, dal primo giorno. Aveva portato la pelliccia nascosta in un baule, per non farsi scoprire subito, eppure i suoi compagni non gli diedero neanche un attimo per farsi conoscere. Era strano, era diverso, e loro non lo volevano.
Non fu piacevole, Brego aveva sperato di poter cambiare vita alla Torre, finalmente lontano da quell’isolamento che la natura di orso imponeva a quelli della sua famiglia, ma si era sbagliato. Era passato da una solitudine all’altra, e sentendo il rifiuto dei compagni e dei maestri, anche loro poco felici di avere un nuovo discepolo sbucato così, dal nulla, si chiuse in se stesso.
La magia improvvisamente gli risultava difficile, gli elementi che aveva da sempre dominato ora non gli parlavano più, e incapace di progredire fu messo a giudizio in prove sempre più difficili; a confronto, quello che lui aveva fatto ad Arghir quel giorno era roba da niente.
Ogni suo insuccesso era enfatizzato da tutti, ogni piccolo passo avanti minimizzato come se non contasse niente. E Brego, con il suo orgoglio forte, non aveva saputo sopportare in silenzio.
Si era incattivito, in quel posto.
Non era certo stato un santo, questo lo riconosceva: aveva preso a rispondere, a comportarsi male, a mentire. Nella sua stanza in cima alla Torre, aveva imparato come trasformarsi solo parzialmente, e spaventava i suoi compagni negli angoli bui dei corridoi, facendo apparire zampe d’orso davanti al naso di quelli che gli davano fastidio e poi dileguandosi per i passaggi segreti del palazzo. Si era sparsa la voce che fossero apparsi degli spettri di mutaforma uccisi nel passato, e Barnabas aveva sopportato poco: alla fine un ragazzo per fuggire dai fantasmi era caduto dalle scale e si era salvato solo per miracolo.
Allora il saggio maestro non aveva avuto altra scelta: l’aveva preso da parte e cacciato, ricordando al ragazzo ribelle che poteva considerarsi fortunato se non gli aveva inibito i poteri, o peggio.
Nel ricordare quel giorno, e la tristezza e la vergogna che l’avevano accompagnato lungo la strada per tornare a casa, Brego si sentì pieno d’amarezza. A così tanti anni di distanza, ancora gli bruciava essersi lasciato prendere dalla stupidità ed aver buttato via l’occasione della sua vita, eppure…
Non riusciva a essere totalmente infelice: gli stregoni che aveva incontrato alla Torre non erano per niente come se li era immaginati, nella sua stupidità pensava che chi fosse investito di un simile potere si comportasse in tutt’altra maniera, fosse generoso e disponibile, non che usasse la propria superiorità per far sentire gli altri delle zecche indegne.
Questo era quello che aveva trovato alla Torre e non era ciò che voleva essere, che voleva fare della propria vita, perciò se il suo allontanamento aveva comportato diventare una persona migliore di quei maestri, dei saggi che aveva conosciuto… meglio così, non riusciva a vedere le cose in altra maniera.
Brego superò un grosso masso con un balzo e si accoccolò sotto un abete, uno dei posti che più amava in quella foresta. Se non altro, alla Torre aveva trovato un tesoro. Mirna.


«E quindi, tu e papà come avete fatto a rimanere uniti, anche dopo che lui se ne andò dalla Torre?»
La scodella del brodo ormai era vuota da un pezzo, ed entrambi avrebbero avuto altre cose da fare, eppure la storia ormai aveva vinto entrambi.
Mirna cercò di spiegare al figlio il legame che l’aveva legata al marito. Brego era affascinante, un sacco di ragazze dell’accademia si erano invaghite di lui… Ma solo lei gli aveva parlato con schiettezza, dicendogli senza tanti giri di parole quanto trovasse idiota il suo comportamento, che aveva un grande dono e che era da stupidi buttarlo via in quella maniera. Lo aveva aiutato a fare sedute di meditazione, simili a quelle che lei faceva per calmarsi dopo una visione, così da concentrarsi meglio sugli elementi e sui compiti che doveva svolgere. Piano piano, Brego si era sciolto, ritrovando la forza di usare i propri poteri, anche se non era riuscita a moderare il suo caratteraccio.
«Io gli avevo promesso che una volta finito il mio periodo alla Torre sarei andata al suo villaggio», confessò la donna arrossendo, «anche se il sommo maestro gli aveva vietato di tornare, una volta lasciata l’accademia. Non m’importava che diventasse o meno uno stregone, m’importava che volesse stare con me; quando l’ho raggiunto, mi ha chiesto di sposarlo, temendo però che non avrei voluto stare con lui dal momento che non poteva più assicurarmi una vita senza difficoltà. In questo, siete tutti degli idioti voi maschi della vostra famiglia, permettimelo».
Arghir sbuffò a quel rimbrotto, ma lasciò correre. Sua madre era spiccia per natura, e non sarebbe stato di certo lui a cambiarla.
«Mamma… Come hai scoperto la natura di papà, della nostra famiglia? E come hai fatto ad accettarla, anche tu avevi stretto quel giuramento?»
«Ma avevo anche giurato a tuo padre che l’amavo, e che sarei stata con lui per sempre. E questo era più importante di quella stupida promessa assassina della Torre».
Non rispose all’altra domanda, non erano argomenti da condividere con suo figlio. Non poteva dire che una notte era sgattaiolata fuori dal suo dormitorio e aveva raggiunto la stanzetta che era stata destinata a Brego per fargli una sorpresa, ma la sorpresa l’aveva avuta lei trovando un orso che russava ai piedi del letto.
Come fosse riuscita a non svenire o a non chiamare l’allarme, ancora non lo sapeva. Le era sembrato… Quasi ovvio, forse, perché quella bestia nella camera di Brego spiegava il comportamento strano che teneva al momento di pronunciare quel dannato giuramento, ogni mattina, o perché mentre studiavano la storia degli stregoni e degli altri esseri magici, quando avevano affrontato il capitolo sui mutaforma nello specifico, si era alzato e aveva abbandonato l’aula. Era stato battuto per quello, con un bastone di salice che aveva fischiato ogni volta che il maestro incaricato della punizione l’aveva calato sulla schiena del ragazzo, ma lui non aveva chiesto perdono.
E lei, che da ragazza era stata molto più folle di quanto poteva ammettere, si era accoccolata tra le zampe dell’orso senza fare rumore, e si era addormentata. Brego se n’era accorto solo il mattino dopo, al momento di ritrasformarsi: l’aveva svegliata con uno scossone, le aveva fatto una vera e propria scenata, poiché in fondo quello che aveva fatto era stato molto pericoloso. Avrebbe potuto darle una zampata durante la notte, e sfigurarla, o ferirla mortalmente!
Lei gli aveva risposto male, accusandolo che avrebbe anche potuto fidarsi e rivelarle un segreto simile, e tra una cosa e l’altra erano finiti a letto, e quella mattina tutti e due erano arrivati tardi a lezione; per punizione, Mirna era stata obbligata a saltare la colazione, mentre Brego era stato battuto un’altra volta, ma nessuno dei due si era pentito di quello che avevano fatto.
Dopo quello che era successo, un semplice ti amo sarebbe stato superfluo. Mirna si era resa complice del segreto di Brego… Niente sarebbe stato più significativo.
«Mamma?»
Mirna si riscosse. «Cosa, tesoro?»
Arghir ridacchiò, sorpreso di vedere sua madre così trasognata. «Nulla, sembravi su un altro pianeta».
«Ricordi di gioventù, che ci vuoi fare», rispose lei alzandosi dal pavimento.
No, meglio non raccontare quella storia.
Il ragazzo non fece domande, aveva intuito l’argomento su cui la madre si era distratta e preferì non fare domande. «Posso andare a cercare papà? Mi sento meglio, ora».
«Ne sei sicuro? Non vorrei che svenissi di nuovo», disse Mirna preoccupata della sua salute. «Magari rimani vicino a casa, così se hai bisogno di aiuto posso venire da te».
«Stai tranquilla, mi serviva solo stendermi un po’ e mangiare qualcosa. Se riesco a trovarlo poi possiamo passare al tuo arrosto? A dire la verità ho ancora fame».
La donna scoppiò a ridere, riavviò i capelli biondi del figlio e annuì. «Vai, e riporta qua quel testone. A lasciarlo camminare per sbollire la rabbia potrebbe finire dall’altro capo della foresta, sai com’è fatto».
«Farò presto, promesso».
Mirna lo guardò uscire, più serena. Arghir era diverso da suo padre, e anche da Argante. Forse lui all’accademia della Torre avrebbe potuto fare faville, di certo sarebbe piaciuto a Barnabas e avrebbe potuto imparare i segreti della magia in serenità, senza lasciarsi vincere dall’odio.
Brego non lo avrebbe mai mandato in quel posto, però. Non avrebbe rischiato di segnare anche suo figlio, lo avrebbe istruito lui personalmente.
Per lei, non aveva importanza. L’importante era che la sua famiglia potesse vivere felice e serena, con o senza magia. E così era.


Aveva freddo. Brego si guardò le zampe, per scoprire che mente rifletteva era tornato umano.
Si strinse nella pelliccia: aveva dimenticato i vestiti vicino al fiume, dove si era trasformato, li aveva tolti per non distruggerli prendendo le sembianze dell’orso, e ora doveva tornare a prenderli… Accidenti a lui!
Beh, forse era stato via a sufficienza. Poteva rientrare, Mirna lo avrebbe accolto in casa con una battuta sarcastica, lui avrebbe risposto alla stessa maniera, si sarebbero fatti una risata, e poi a tavola.
E ad Arghir avrebbe detto che era stato bravo, anche se aveva esagerato, e che doveva credere di più in se stesso: ora che aveva provato a se stesso di poter usare la magia, non poteva più lasciarsi frenare dai suoi dubbi.
Ne avrebbe fatto uno stregone migliore di quanto avrebbe potuto fare Barnabas, ne era convinto.
Stava camminando verso casa, attendo a dove metteva i piedi nudi, quando un rumore lo fermò. «Arghir?»
Niente.
Fece qualche altro passo, ma prima che potesse difendersi una montagna pelosa gli franò addosso con furia.
«Scommetto che questa è la punizione per la carica di prima», commentò ridendo Brego.
Notò che sotto la sua testa si trovava un cuscino d’aria, identico a quello che aveva creato lui per impedire che il figlio battesse la testa.
Arghir si trasformò e scoppiò a ridere: «Indovinato! Allora, come ci si sente?»
«Pessima sensazione, devo ammetterlo», riconobbe Brego. Il ragazzo si lasciò rotolare sul lato, e si stese a terra accanto al padre.
«Non farlo più, non a tradimento almeno», gli disse senza particolari emozioni nella voce.
In effetti, non era l’esperienza più bella della vita essere assaliti da un orso in quel modo, anche se si trattava di un mutaforma e di un proprio parente. «Stai bene, Arghir? Non ti ho fatto male?»
«No, figurati», gli rispose il ragazzo. «Avevi ragione, mi è servito. Ora mi sento in grado di fare cose diverse, di usare la magia come mi hai detto tu».
«Io non voglio forzarti, se non vuoi imparare…»
«No, io voglio saper usare la magia, è parte di me, come di te e di nonno Argante, come l’orso», spiegò Arghir con semplicità, «solo, voglio imparare con i miei ritmi, senza pressioni».
«Va bene, cercherò di essere più paziente».
«E voglio che tu e mamma smettiate di fare queste scene ridicole: non ha veramente senso!»
Brego roteò gli occhi: sarebbe servito ben altro perché lui e Mirna finissero di discutere come due sciocchi, era una forma del loro amore… Ma potevano almeno cercare di contenersi davanti ai ragazzi.
«D’accordo. Torniamo a casa, adesso».
 
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