Ambrosia, #4 immagine

« Older   Newer »
  Share  
_ayachan_
view post Posted on 18/2/2010, 11:53




- Titolo: Ambrosia
- Autore: _Ayachan_
- Fandom: Originale
- Genere: Malinconico, Introspettivo
- Tipologia: One Shot
- Lunghezza: 1735 Parole
- Avvertimenti: /
- Trama: Esiste un uomo che fallisce? Che, spegnendosi, non lascia nulla a nessuno, destinato all’oblio e all’inesistenza perpetua?
Questa è la storia di un uomo che sta morendo, un uomo a cui, un tempo, una vecchia indovina aveva fatto una predizione; è la storia di un anziano che ha fallito, che è convinto di non poter dare nulla al mondo che non vedrà mai.
E poi, è la storia dell’Uomo.
- Note dell’autore: Guardando l’immagine del prompt (https://i232.photobucket.com/albums/ee260/l...IMG_1297Duo.jpg) a me è venuta in mente questa complicata elaborazione: il tavolino e il bicchiere in sostituzione del tunnel di luce o del prato con il fiume. Le associazioni mentali sono proprio una cosa incredibile!
- Disclaimers e crediti: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me. I fatti storici, invece, appartengono a me e a tutto il mondo. Copyright condiviso.








Quando avevo dodici anni un’indovina mi lesse la mano.
Mia madre era ostetrica, l’avevano chiamata d’urgenza per far nascere una coppia di gemelli che in seguito sarebbe comunque morta di tifo, e dal momento che mia sorella era uscita per spigolare* nei campi vicino a casa, mamma mi aveva portato con sé.
Dell’indovina ricordo l’odore: un misto di cavoli e sudore, con un sottofondo vaghissimo di disinfettante. La sua casa era buia, piccola - come tutte, a quei tempi - e le sue dita incredibilmente rugose. Stavo seduto su una cassapanca nel corridoio scuro, aspettando che mia madre finisse di fare qualunque cosa dovesse e che le urla che mi trapassavano le orecchie cessassero, quando lei si avvicinò.
«Che bambino interessante...» mi disse. La sua voce era un sibilo roco, quasi un sussurro maligno, il fiato le usciva dalla gola in un soffio rumoroso. «Sei il figlio di Nella?»
Non riuscii a rispondere: la vecchia era curva ma robusta, mi squadrava dall’alto con occhi a dir poco spaventosi... E io avevo solo dodici anni, che a quel tempo voleva dire temere parecchie cose, così la mia gola si seccò.
«Una strana storia: tua madre aiuta tante nuove vite, ma tu...»
Mi ritrassi sulla cassapanca. Le dita tozze della donna si erano protese verso di me, insieme a tutti i ricordi di mostri della mia infanzia. Mi pare di vedere anche adesso il suo sorriso: è la smorfia più terribile che io ricordi.
«Non mangio i bambini» assicurò, afferrando ruvidamente la mia mano rigida. «Sono un’indovina, non una strega. Fammi un po’ vedere questo palmo nero di terra...»
Ero paralizzato dall’orrore. Nonostante le sue parole, la convinzione che la vecchia mi avrebbe come minimo strappato due dita non mi abbandonava, e pregai che la mamma uscisse presto a salvarmi.
Naturalmente non successe nulla di tutto ciò.
La donna studiò le linee sulla mia pelle, raschiando la polvere che, mi accorsi vergognoso, era cementata tra le pieghe; borbottò qualcosa, troppo piano perché potessi distinguerlo, e infine mi rivolse quel suo sorriso sdentato così minaccioso.
«Il tuo destino non conoscerà fine» annunciò. «Ma bada: questa è soltanto la peggiore delle maledizioni.»
Non appena la vecchia tacque, il mio udito, che fino a quel momento aveva perso ogni utilità, si risvegliò. Dalla stanza in cui era nascosta mia madre sentii il pianto vigoroso di un bambino.
Allora l’indovina mi lasciò la mano e se ne andò.

Non rimisi più piede in quella casa. Anzi, me ne tenni ben lontano, determinato a non avere nulla a che fare con gli orrori che la abitavano.
Dimenticai le parole della vecchia, dimenticai i suoi denti gialli, dimenticai il pianto degli sfortunati gemelli; con il tempo persi la testa per le sciocchezze fasciste che ci propinavano prima e per le altrettanto sciocchezze americane che ci rifilarono poi. Insomma, diventai grande in un mondo confuso e caotico che non aveva spazio per l’antico buonsenso. Finii col pensare che l’indovina fosse solo una vecchia pazza, ingigantita dai miei occhi ingenui di ragazzino.
Comunque, la sua casa cadde sotto i bombardamenti inglesi uccidendo metà famiglia, lei inclusa.
Dopo un certo numero di anni mi sposai. Ebbi due bambini, che allevai nello splendore del boom economico; probabilmente sbagliai qualcosa, e uno morì giovane, vittima delle droghe che a quel tempo circolavano tanto liberamente. L’altra diventò avvocato. Le pagai l’università fino all’ultima lira, ma la prima cosa che fece una volta laureata fu andarsene di casa e smettere di parlarmi.
Mia madre morì qualche anno dopo la nascita di Giulio, per quello che all’epoca si iniziava a chiamare il male oscuro. Mio padre la seguì di lì a breve, sfibrato dal lutto. Mia sorella se ne è andata qualche mese fa, alla rispettabile età di ottantasei anni.
L’unico ricordo completamente dolce è legato a mia moglie; litighiamo spesso, ma non per molto... E’ una donna ragionevole, spesso cede per amor di pace. Con Lia, mia figlia, continua a mantenere i contatti; mi riferisce i progressi della sua vita, mediatrice indispensabile e affettuosa, è l’anello di congiunzione tra me e il mondo su cui pensavo, ingenuamente, che avrei lasciato una traccia. Senza mia moglie sarei incompleto.
Pensando a Lia, ora che gli anni si sono accumulati sulle mie spalle curve, mi rendo conto che non ho lasciato nulla. E penso che, forse, quell’indovina lontana aveva sbagliato tutto quanto, la sua previsione e il suo giudizio: se il mio destino si fosse rivelato infinito, sarebbe stato tutto fuorché una maledizione. Questa è la vera maledizione: l’oblio in cui cade un uomo che non ha saputo consegnare sé stesso a chi viene dopo. Quando il mondo in cui vivevi scompare per sempre la vista cala, l’udito si affievolisce, la memoria perde colpi; ciò che rimane sono i segni cementati nel tuo corpo, quei gesti e quei pensieri che hanno radici più profonde dei ricordi. Tutto quello che puoi fare è parlare, parlare, parlare, cercare inutilmente di riportare alla luce le sensazioni di un tempo, provare come un disperato a comunicare qualcosa a qualcuno, anche se nessuno ti ascolta, anche se biascichi, anche se perdi il filo del tuo stesso discorso; parlare e pensare, lentamente, anticamente, fino a cadere addormentato e continuare il pensiero nel sogno.
E’ la mia vita di oggi, la triste storia di tutte le vecchiaie malinconiche: un borbottio ininterrotto e inascoltato, un monologo recitato per i piccioni mentre vado a trovare mia moglie in ospedale. Questa mattina potrei andare per niente. Potrebbe essere morta nella notte. Chissà se incontrerò Lia? Vorrà parlarmi?
Mi fermo lungo uno dei vialetti del parco, cercando nelle tasche qualche briciola per i merli. Un ragazzo giovane mi passa accanto correndo, nelle orecchie uno di quei minuscoli marchingegni diabolici che trasmettono musica. Respira pesantemente, e forse è questo sbuffo un po’ roco a ricordarmi la vecchia, a farmi ripercorrere la storia del nostro incontro. Non ci pensavo da secoli.
Se almeno il mio destino si fosse concluso con un gran fuoco d’artificio... Invece più che altro sfuma, si spegne lentamente, inosservato... Come una rosa che appassisce in un roseto rigoglioso. Diventa nutrimento per le sue sorelle, ma nessuno la ringrazierà mai. Così si sta spegnendo Agnese; così si è spenta mia madre. Così, forse, Giulio. Un addio silenzioso e inutile.
Eppure, nonostante il mio fallimento personale, mi chiedo se qualcosa, in fondo, non resti.
Invecchiando sono tornato superstizioso: immerso di nuovo nel mondo della mia infanzia ho riscoperto storie meravigliose e terribili, memorie di un tempo che credevo perduto. Ho rivisto la vecchia, ho sentito di nuovo il suo odore... E poi, qualcos’altro: immagini; fotografie; films, come dicono oggi. Ricordi in uno specchio che non mi riflette; passati che non mi appartengono. E’ come se fosse una memoria collettiva, diluita nel tempo, la memoria di un mondo intero che rallenta e guarda indietro: sorrisi sconosciuti; oggetti; luoghi; una bambina vestita di una tunica grigia; l’esercito di Napoleone che sta per attaccare; la prima granata dietro la trincea. Grandi gioie, grandi dolori. Probabilmente solo televisione.
E’ tutto molto strano, molto faticoso... Sono certo che dovrebbe esserci almeno una panchina in questo parco, ma ciò che vedo è un tavolino davanti a me, e una balconata di mattoni parzialmente coperta da cespugli curati. C’è un cartello che sporge oltre il muretto, ma è girato, ne scorgo solo l’ossatura posteriore. Sul tavolino, un bicchiere color oro e un singolo posacenere. Mi vien da pensare che vorrei essere fumatore.
Sono stanco, è meglio che mi sieda. Lascio a terra la borsa di vimini in cui conservo la giacca, e prendo posto sull’unica seggiola di plastica, che davanti al tavolino in ferro battuto sembra un giovanotto che si opponga a un vecchio pezzo da museo. Appoggio il bastone da passeggio accanto alle gambe, accavallo le ginocchia, inclino la testa. Quello nel bicchiere sembra un buon vino bianco.
Oltre il bordo del muretto mi sembra di intravedere le cime di alcuni alberi, e per un momento penso di essere in Toscana, in quel meraviglioso giardino maremmano dove io e Agnese abbiamo fatto la nostra luna di miele. Mi rilasso. Dopotutto, ormai è evidente che non posso più raggiungere l’ospedale in cui muore mia moglie.
Afferro il bicchiere, ne centellino il contenuto con delicatezza. Ha un buon profumo, fruttato. Ho sete, ma non lo berrò. Non ancora. Chissà se Agnese arriverà anche qui, e chissà quando accadrà?
Sopra a tutti i ricordi, quello della vecchia è il più prepotente ed intenso. Forse ha a che vedere con il vino, forse era una viticoltrice e non me ne ricordo? Sembra un pensiero cretino.
Un’immagine velocissima: un uomo anziano, seduto a un tavolino, con un bicchiere color ambra nella mano.
Ma certo. Questo è un frammento del mio passato. Avevo sei o sette anni, ero andato in paese da solo per la prima volta, mi ero perso. Quel cortile, quel tavolino, quel bicchiere, quel vecchio, completamente calvo... Mi aveva sorriso. Mi aveva sorriso, sì, e aveva bevuto dal suo calice. Con lui, un altro bambino, molto prima. La stanza di una casa signorile, un tappeto dai motivi orientali. E ancora, ancora... pizzi, abiti voluminosi, tavolini e bicchieri, e vino, vino, vino o ambrosia dorata, che corre giù nelle loro gole, giù, fresca o tiepida, fragrante o asprigna, sempre deliziosa, sempre così perfetta... Nessuno lo ricorda mai, nessuno, fino al momento in cui afferra quel calice.
Adesso non capisco perché la vecchia lo considerasse un male; forse, al tempo della guerra, l’idea che l’uomo continuasse ad esistere doveva apparire una bestemmia destinata a precipitare il mondo nell’inferno.
Non è così per me. Per me l’umanità ha ancora una speranza.
E io non voglio scomparire...
Porto il bicchiere appena sotto il naso. Sa del mosto che pigiavano quando ero bambino.
Sorrido, spostando lo sguardo sul piccolo intruso che è penetrato nel giardino. Eccolo lì, un ragazzino biondo con gli occhi scuri. Mi guarda con l’aria di chi si è perso e non sa se chiedere indicazioni. Vedo che ha uno zainetto sulle spalle; forse stava andando a scuola.
Sollevo il calice in suo onore.
In silenzio, davanti alle sue ginocchia un po’ storte, faccio scorrere il vino tra le mie labbra dischiuse.
Ed è come riempire d’ambrosia un vaso fino ad allora deserto.


Io sono l’Uomo, il cui destino non conosce fine.









* Spigolare: pratica non molto antica seguita nelle campagne; consiste nel cercare e appropriarsi di ciò che viene abbandonato nei campi dopo il raccolto dei proprietari.
 
Top
0 replies since 18/2/2010, 11:53   29 views
  Share