Troppo da dimenticare, [1/1/10] Contest di inizio anno

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Gwen chan
view post Posted on 6/3/2010, 13:57




Rating: 16 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza:1711 parole (contatore di word)
Avvertimenti://
Genere:, Drammatico, Introspettivo,
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits : Citazione della canzone “Whisky Lullaby” di Brad Praisley
Note dell'Autore:posso solo dire che ho scritto la storia quasi di getto, cercando di mantenermi su un livello abbastanza “adulto”. Ho usato la citazione “La nostalgia è rendersi conto che le cose non erano così terribili come sembravano allora” perché è quella con cui mi sento più affine.
Introduzione alla Storia: Lui voleva una figlio, lei è morta per accontentarlo. Ora lui non ha più nulla e vuole solo dimenticare.

Troppo da dimenticare

Vuole abbandonarsi al rimpianto, vuole impazzire, vuole soffrire. Desidera affogare nel suo dolore, star male fino a goderne, lì, su quel letto bianco, vuoto e grande, troppo grande per una persona sola, perché lei non c’è più.

Voleva un figlio, un bambino piccolo e roseo, da crescere, da coccolare e nel quale vedersi riflesso. La vita con la sua ragazza ormai non era più sufficiente. Passati i primi mesi di fuoco e di passione, mai ricambiati da lei, quando gli era bastata la sua presenza a renderlo felice, ora che il suo amore cominciava ad affievolirsi, voleva un figlio.
A volte, la mattina, quando la vedeva appena sveglia, seduta al tavolo della cucina, intenta a bere la sua tazza di caffè, con una mano tra i capelli ribelli e gli occhi assonnati, si accorgeva di non provare più tenerezza, solo rabbia o piuttosto rassegnazione.
Possibile che fosse così sciatta?
Eppure era sempre stata bella, mora, alta e sottile, talmente magra che temeva di romperla se solo l’avesse stretta troppo forte; sempre elegante e sofisticata.
Dopo le nozze, però, era cambiata. Aveva smesso di truccarsi e di uscire con le amiche, nonostante lui la spingesse fuori dalla porta, chiedendole di non preoccuparsi per il denaro, perché non erano talmente poveri da non permetterle di divertirsi. Ma lei scuoteva la testa e lo fissava con occhi spaventati, poi correva sul divanetto liso e rimaneva lì per ore, con la testa appoggiata alle ginocchia e lo sguardo vacuo.
Orribile e schifosa, tale era diventata la sua vita da quando l’aveva sposata.
Ecco la verità.
Lo aveva ingannato, lo aveva ammaliato con la sua bellezza e il suo canto di sirena per ghermirlo e trascinarlo sul fondo del mare; infine, quando ci era riuscita, lo aveva legato con catene indissolubili perché non fuggisse. Non poteva di certo abbandonare sua moglie dopo aver giurato amore eterno davanti a lei, alla comunità, al parroco e a Dio.
Se solo gli avesse dato un figlio, il desiderio e l’amore sarebbero rinati, ne era certo.
“Se non avrò un figlio da lei non riuscirò più ad amarla”continuava a ripetersi, mentre la ragazza dormiva al suo fianco, nell’ennesima notte in cui aveva chiuso tutta se stessa davanti a lui. Le faceva orrore averlo sul suo corpo e dentro il suo corpo. La faceva stare male. Quanta paura, quanto disgusto quando si era slacciata la gonna e la camicetta con una lentezza assoluta, nel tentativo di rimandare il momento in cui avrebbe dovuto giacere con l’uomo che aveva appena sposato. Giacere con un estraneo.
Perché non era scappata? Perché non era corsa via quando ne aveva avuto l’occasione? Invece aveva compiuto quei pochi terribili passi verso l’altare, timida, emozionata ed accecata dall’amore. Aveva pronunciato il fatidico “sì”.
Una mattina, era ormai marzo, lui glielo chiese.
“Voglio un figlio” sbottò all’improvviso, alzando gli occhi dal quotidiano che stava leggendo e guardandola con i suoi occhi azzurro ghiaccio, talmente affilati da farla sentire nuda. La donna boccheggiò, aprì convulsamente le mani e lasciò cadere il piatto dove aveva appena poggiato le uova e il bacon; si chinò velocemente a raccoglierlo.
“È uno scherzo?” chiese flebilmente, accovacciata e tremante sul pavimento coperto di cocci, mentre cercava di indietreggiare per mettere quanta più distanza possibile dal marito. Egli la fissò sprezzante, le afferrò rudemente il polso e la costrinse ad alzarsi.
“Voglio un figlio e tu me lo darai”.
Scoppiò a piangere, quindi si afflosciò sulla sedia, tenendo il volto nascosto tra le mani. Ogni tanto sbirciava attraverso le dita e la vista del marito, così falsamente calmo-sapeva che stava fingendo- al tavolo della cucina, la faceva stare ancora più male.
L’uomo, colmo di rabbia e di frustrazione represse, si sedette bruscamente, si passò una mano tra i capelli già striati di grigio, nonostante non avesse ancora quarant’anni, e bevve un sorso di caffè così bollente da riempirgli la bocca di vescichette. Quella sensazione gli piacque. Voleva punirsi per come l’aveva trattata, ma, allo stesso tempo, desiderava ostentare una completa indifferenza.
Restarono immobili per un po’ finché egli non alzò lo sguardo dalla tazza e la vide: triste, debole, prostata. Che cosa le aveva fatto?
“Perdonami, ti prego perdonami”
Si inginocchiò davanti alla donna e le prese le mani. Erano umide, fredde e molli. E, mentre gliele teneva, mentre stava accovacciato di fronte alla moglie, distante e immobile come una statua, capì di averla persa. Ma se avesse avuto un figlio, di sicuro sarebbe riuscito a farla tornare sua. Rincuorato da questa convinzione, si incamminò verso il centro città.
Quel giorno ostentò una falsa allegria nel tentativo di non avvertire i sensi di colpa.
Durante tutta la giornata, lei restò accovacciata su quella sedia a piangere, con le braccia incrociate sul ventre. Non voleva un figlio. Non voleva giacere ancora una volta col marito. Non voleva neppure dormire con lui. Voleva andarsene. Pensò di scrivere alla sorella, a quella che era diventata sua sorella dopo che il padre si era risposato, supplicandola di portarla via; subito dopo si ricredette: qualsiasi membro della famiglia l’avrebbe rimproverata, intimandole di tornare subito dal marito perché una buona moglie deve essere docile e obbediente. A questo pensiero, singhiozzò ancora più forte.
Sua madre era morta di parto come sua nonna, la bisnonna, la trisnonna e così via fino a dove la memoria poteva arrivare. Di madre in figlia, di nonna in nipote, la maledizione era continuata, toccando i loro ventri e i loro bambini. Nessuno sapeva com’era iniziata. Forse era stata l’opera di una strega o forse la volontà di una divinità offesa. Forse le donne della sua famiglia erano soltanto la progenie diretta e dannata di Eva. Qualunque fosse stata la causa iniziale, non cambiava il suo destino: lei sarebbe morta di parto.
Pianse la notte, mentre si sdraiava sul letto con la stessa faccia che avrebbe avuto un condannato al patibolo. Pianse la notte dopo e quella dopo ancora. Pianse, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare, ogni volta che suo marito, violento e impaziente, si sdraiava sopra di lei. Ogni giorno pregava Dio di ascoltarla e di rendere sterile il suo ventre.
Tutte le sue preghiere furono vane.
Così, il giorno in cui avrebbe dovuto avere il ciclo come ogni mese e ciò non successe, poté soltanto fingere un sorriso e annunciare a suo uomo che tra nove mesi sarebbe diventato padre. Si comportò esattamente come tutti si sarebbero aspettati. Si mostrò felice, timida e rispettosa. Egli scoppiò a piangere di gioia e, se la vide piangere, pensò fosse un pianto di felicità.

Ora, mentre cerca di affogare nella disperazione, capisce che avrebbe dovuto accontentarsi perché La nostalgia è rendersi conto che le cose non erano insopportabili come sembravano allora. In tutto il suo egoismo aveva rincorso il sogno di una vita perfetta e di una moglie amorevole, senza accorgersi di quello che aveva e senza fare nulla per conservarlo.
La sua mente vola a quel giorno.

Lei giaceva sul letto, con i capelli sudati sparsi per tutto il cuscino. Aveva gli occhi vacui e la bocca spalancata in un ultimo urlo di dolore, il cui eco si perdeva ancora tra i muri della cameretta. L’uomo stava al capezzale, disperato, tenendo il volto affondato nel suo seno.
La sua ragazza, il suo angelo, se ne era andata per sempre. Dopo un travaglio lunghissimo, durante il quale lui stesso aveva pensato di impazzire, aveva usato le ultime forze per tenere in braccio almeno una volta la figlia neonata. Aveva sussurrato qualcosa come “Toccherà anche a lei” ed era morta.
Sentì una mano sulla spalla, una stretta dolce e decisa al tempo stesso, che lo costrinse prima ad alzare il volto, poi a lasciarsi guidare nel salottino, per permettere alla domestica di sistemare la defunta. Presto sarebbero venuti degli uomini… degli sconosciuti e l’avrebbero portata via! Al solo pensiero, scoppiò in lacrime. Sua moglie, la sua adorata moglie….non avrebbe potuto vederla mai più, né sentirla, né parlarle. L’avrebbero messa sottoterra!
Tutto per uno sciocco capriccio, per quella “cosa” che urlava tra le braccia della nutrice, che, a ogni dire, avrebbe dovuto essere sua figlia. Ma non riusciva proprio a considerare quell’esserino piccolo e ancora sporco di sangue come a una figlia. Non riusciva a credere che tutte le sue aspettative, tutte le sue speranze fossero state concentrate in quella “cosa”. Non sapeva in che altro modo definirla. Non voleva nemmeno vederla, che la portassero via, lontano dalla sua vista. Lui voleva solo sua moglie.
La bambina piangeva disperata. Chissà se intuiva ciò che era appena successo? Chissà se aveva capito che la mamma era morta e che il papà la odiava? Piangeva così forte da trapanargli il cervello. Pregò che smettesse.
“Portatela via, portatela via” urlò.
La neonata, spaventata, raddoppiò i singhiozzi.
“Ditemi almeno il nome che volete darle” chiese la nutrice.
Il nome, già…doveva darle un nome. Aveva pensato a tantissimi nomi, aveva passato le giornate a sfogliare il calendario, a cercare il nome perfetto, ma ora nessuno sembrava più adatto. Erano banali ed insulsi.
“Destino- singhiozzò una volta- Questo sarà il nome, perché, quando avrà l’età della comprensione, si ricordi ogni giorno di quale sarà la sua sorte se si lascerà anche solo sfiorare da un uomo. Appena potrà capirvi, raccontatele di sua madre, ve ne prego. Prendetevene cura voi. Io non ne sarei capace. Appena sarà cresciuta e la sua persona desidererà la compagna di un altro, come un bocciolo desidera il sole, spiegatele che assecondare i desideri di adolescente, le costerà la vita. Soprattutto ditele- si fermo un attimo. Quanto gli costava pronunciare quelle parole!- ditele che suo padre non può tenerla con sé perché è un uomo orribile che prima ha sacrificato la madre perché lei nascesse e poi l’ha abbandonata”.

Non ricorda altro di quella notte eccetto l’immagine sfocata di Destino che spalanca gli occhi, due enormi occhi blu, per il suo primo sguardo sul mondo e allunga le braccine verso di lui, come se supplicasse: “Non abbandonarmi”
Butta giù un altro bicchiere di liquore. Ormai ha perso il conto, ma berrà finché ogni singolo secondo della memoria non se ne sarà andato.

We watched him drink his pain away a little at a time
But he never could get drunk enough to get her off his mind

Perché vuole solo dimenticare.
 
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