Il Conte, [15/01/11] Vampires ain't gentle II

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view post Posted on 17/3/2011, 23:54
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Rating: 18 anni.
Tipologia: One-Shot.
Lunghezza: 6787 parole
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, Violenza.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: La città di Bucarest è un'ambientazione adattata alle esigenze dettate dal regolamento del concorso.
Note dell'Autore: * Vedi nota finale (le note non possono essere riportate qui perchè costituiscono uno spoiler).
Introduzione alla Storia: Nascita e predicazione dell'uomo più potente che la storia umana abbia mai conosciuto. Fino alla sua, inevitabile, caduta. Perchè tutti i potenti e tutti i regimi, per quanto longevi e vincenti, prima o poi, inesorabilmente, vanno in rovina.



Il Conte



Prologo

Si poteva congetturare qualsiasi cosa su un uomo che camminava incappottato con trentacinque gradi, per le strade di Bucarest con sciarpa e guanti e cappello e occhiali scuri. Un oscuro male o un segreto inconfessabile. Nessuno si sarebbe figurato cosa.

I - Il Baratto

Transilvania, diversi secoli or sono.
Un uomo che aveva difeso le sue terre e il suo castello da mani infedeli, che con giustizia aveva amministrato la legge presso il suo popolo, giaceva vinto su un letto, succube degli anni ed infine di quel nemico a cui nessun uomo può sfuggire. La vecchiaia. E sebbene essa fosse così vile da prendersi sovente anche la mente delle sue vittime, a costui aveva concesso di restare vigile a guardare il proprio corpo indebolirsi sempre di più, sempre di più, fino al momento in cui la vita non gli fosse scivolata via. Tutt’altro che una pia grazia, ohibò!
Ma mentre costui aspirava gli ultimi aliti di vita, il Diavolo gli si rivelò. Propose, a quello che era ormai l’ombra dell’uomo che un tempo era stato, un baratto. Intuita la sua pena, a lui offrì la vita eterna. In cambio della sua anima.
Il contratto fu redatto dal Diavolo in persona. Esso imponeva condizioni particolari affinché il corpo potesse sostenere la forza corruttrice del tempo. Giacché l’anima e il corpo erano adesso tenuti insieme da un artifizio.
Natura voleva che l’anima rimanesse legata al corpo finché questo fosse in grado di sostenerla. Quando il fisico veniva meno, ecco che l’anima prendeva la via dell’Aldilà. Il Diavolo aveva infranto questa legge eterna, avendo cura di legare l’anima al Mondo.
Ma per il corpo l’affare s’intricava. Contratto stante, esso doveva essere alimentato al modo in cui si sostentano i luridi insetti, e tutte quelle creature che infestano come parassiti l’umano spazio. Il sangue umano e nient’altro poteva evitare che un corpo, che aveva ormai chiuso il suo ciclo vitale, soccombesse al processo di decomposizione.
In caso contrario, le conseguenze sarebbero state funeste. Il fisico avrebbe cominciato a marcire e a guastarsi, fino a divenire solo ossa e poi polvere, come Natura disponeva.
Ma la sua anima era legata alla Terra. Allora egli sarebbe divenuto un essere immateriale, un fantasma. Ramingo avrebbe vagato per il Mondo, fino al Giorno del Giudizio Finale.
Quel giorno al Diavolo avrebbe dovuto liquidare ogni spettanza, e la propria anima sarebbe precipitata all’Inferno. Il Diavolo si raccomandò più volte su questo punto, giacchè il contratto escludeva qualsiasi rescissione in caso di condotta maldestra che cagionasse la fine prematura del suo eterno esistere.
L’uomo ormai non più uomo accettò.
Da quel momento in poi, egli camminava su questa Terra come un sanguisuga dell’umanità, nutrendosi di ciò che era la vita del corpo altrui. Il sangue.
Un uomo perì ed un predatore del sangue prese il suo posto. E fu, per la verità, come se il Diavolo stesso avesse assunto forma umana e si fosse insediato tra gli uomini, per ottenebrare le menti con la lusinga del male. Così s’avviò la sua empia predicazione.

II - Il Conte

Al suo rientro non aveva versato una sola goccia di sudore né aveva caldo, piuttosto era parecchio infastidito dalla quantità di abiti con cui era costretto a imbacuccarsi.
Aveva scoperto a sue spese che il contratto presentava parecchie piccole righe e che in esse erano presenti controindicazioni, come l’impossibilità di esporsi al sole per più di pochi secondi. Bruciature e bolle purulente - che andavano via solo dopo essersi nutrito – gli avevano insegnato la dura realtà.
Quel giorno il Conte aveva sentito il bisogno di uscire per ordinare di persona le pietanze a lui più gradite. Appostatosi dietro il cespuglio di un giardino dimesso, aveva indicato a suor Corrotta quali pargole portare a lui, tra quelle che dalla sezione femminile dell’orfanotrofio si incamminavano verso la parrocchia poco distante.
Ogni volta veniva dato a intendere che si trattasse sempre di una fuga volontaria. Le sventurate, nel caos all’uscita della parrocchia, erano condotte via da suor Ruffiana con una scusa. L’ultima volta aveva millantato di un premio per esser state le bimbe più buone dell’istituto, e a costoro aveva promesso l’adozione da parte di un distinto signore che si sarebbe preso cura di loro.
Lo stupore del Conte, quand’ella si presentò con un fanciullo, si tramutò subitaneamente in rabbia.
“Con quale figlio di Sodoma hai presunzione di far commercio?” Saltò al collo di suor Ruffiana, e solo il bisogno che aveva dei suoi servigi lo trattenne dall’ucciderla.
La sorella si giustificò: uscendo dalla parrocchia il sacerdote l’aveva trattenuta. E suor Corrotta era impossibilitata ad adempiere alla richiesta del suo signore e, contemporaneamente, a ricondurre da sola le orfane alla loro triste dimora. Il Conte assottigliò lo sguardo in un moto d’odio.
Uomini di chiesa.
Appena licenziata dal sacerdote, suor Ruffiana aveva percorso di gran lena la strada che porta all’orfanotrofio, ma le fanciulle erano già rientrate. Non potendo fare affidamento sulle consorelle che non avevano conosciuto l’affabilità del Conte per portar fuori le due orfane prescelte, la disperata aveva raggiunto l’orfanotrofio maschile gestito dai frati. Colà aveva convinto a seguirla un tenero fanciullo che giocava presso la cancellata in ferro del cortile, passandolo attraverso le sbarre, tanto era magrolino.
L’ira del Conte era tanta e tale che di getto avrebbe afferrato e scaraventato il piccolo contro il muro, solo per vedere la sua testa aprirsi e il suo cervello sgusciare fuori. Chiese piuttosto che gli venisse portato un gancio da mattatoio e, legate le caviglie dell’infante con una catena, in un anello di essa fece scorrere in gancio e lo appese a testa in giù.
Ora acquietatosi, valutò che prima del pasto avrebbe potuto concedersi un po’ di sollazzo.
Nel frattempo avevano fatto il loro ingresso, nell’appartamento dove il Conte aveva dimora, anche suor Corrotta, suor Intonsa, suor Mestizia e suor Farisea. Quest’ultima era la più anziana di quelle e madre superiora del convento; grazie alla sua autorità, le consorelle potevano andar fuori a prestare i loro servigi all’uomo che le aveva sedotte e precipitate nella depravazione più abietta.
Ad un cenno del suo padrone, ecco che suor Intonsa si spogliò dell’abito religioso e fece mostra della sua dote. Sorridendo in modo osceno, il Conte le si appressò, per poter ammirare cotanto virgulto castano. Un intrico cespuglioso di villi che si estendeva in tutte le dimensioni.
Meraviglioso! Una così rigogliosa prosperità andava preservata. il Conte le aveva proibito l’uso della biancheria e imposto di lavarsi in loco, per conservarne la morbidezza e la vivace foltezza.
Poi fu suor Ruffiana a deliziare la turpitudine del suo signore. Quella donna possedeva cosce bianche e flaccide, colme di adipe, che al Conte sembravano morbido caglio caprino. E con esse amava giocare. Quel candido ammasso cedevole era talmente molle, che bastava percuoterlo dolcemente con la mano per farlo oscillare durevolmente. Che visione stupenda!
Ma il momento del vizio era terminato. A suonare la sveglia fu proprio il fanciullo appeso per i piedi. Mormorava la melodia di una canzoncina che i frati avevano insegnato a lui e agli bimbi senza famiglia dell’orfanotrofio, stillando fili di saliva dalla boccuccia innocente. Bianchi i piedini e le gambette magre, rosso il viso le manine penzolanti.
Il Conte estrasse dal gancio la catena che cingeva le caviglie dell’infante e lo sollevò alto sopra la propria testa. Il tenero collo arrossato al cospetto del bianchissimo viso e dei cupi occhi neri.
Rivelò denti mostruosamente lunghi e acuminati, allorché la bocca aveva acquisito un’estensione a dir poco grottesca. Il sorriso depravato del Conte svanì nel momento in cui egli spalancò le fauci e le serrò intorno al collo dello sventurato.
Il fanciullo di riflesso spalancò gli occhi ma non emise fiato, poiché il Conte gli aveva intimato di non parlare. La bocca salivante articolò parole senza suono.
Succhiava avidamente, il secolare nobiluomo. Aveva ottenuto di convogliare tutto il delizioso nettare rosso nella zona della giugulare, e senza ritegno alcuno banchettava emettendo regolarmente versi animaleschi.
Intorno a lui, le peccatrici sue serve baccheggiavano senza freno, chi agitando impudentemente la lingua fuori dalla bocca, chi sollevandosi le nere sottane e ancheggiando ad emulare un’immaginaria fornicazione.
E quando quegli aveva ormai quasi completato il dissanguamento della preda, eccolo rivolgere un ultimo sguardo al fanciullo, le scellerate iridi nere fisse su innocenti occhi color cielo. Un ordine perentorio. I lineamenti dell’infante si contorsero di strazio e di terrore, e con il poco fiato che gli rimaneva in gola egli emise un ultimo, lungo grido che parve provenire dalle profondità recondite della sua anima.
Frattanto, il suggere del Conte aveva iniziato a produrre un suono disturbato, come quando con una cannuccia si tenti di sorbire il fondo della tazza. Il pasto era quasi terminato e il giovane martire non soffriva più – morto o moribondo – gli occhi rovesciati a mostrare il bianco della cornea e la bocca schiumante.
Il Conte tentò invano di tirare altre due poderose sorsate, ma non era davvero rimasta più una stilla di sangue in quel piccolo corpo. Girò il volto contrariato verso le suore, gli occhi furenti semichiusi, i denti serrati in un ringhio silente e il sangue che da essi scendeva sulle labbra e sul mento, gocciolando sul pavimento. Nell’appartamento regnava ora un silenzio di tomba.
Con un vigoroso slancio del braccio, il Conte mandò il piccolo cadavere a schiantarsi contro il muro. La testa assorbì quasi tutto l’impatto e si squarciò, lasciando che parte del cervello ricadesse per terra con un mesto ploc.
Il disappunto del Conte si convertì in un sorriso maligno. La sua bocca, ora ridimensionata, faceva mostra di tutti i lunghi denti, serrati in un ringhio oscenamente soddisfatto.
Desiderava fare ciò fin dall’inizio. Ma lo tediava l’incombenza di dover leccare il sangue dal pavimento.

Il Conte ebbe le fanciulle che aveva scelto la domenica successiva.
La brama e la furia di dover attendere la consueta messa domenicale per l’uscita delle orfanelle lo fecero infierire più volte sulle sue domestiche. Per tutta la settimana aveva seguitato – come era uso fare – a procacciarsi preziosi litri di nettare rosso, sovente con l’aiuto delle suore. Sue prede d’elezione erano le prostitute, le giovani operaie che finivano il turno all’ora del vespro e rincasavano sole, a volte anche uomini che percorrevano in solitudine i quartieri più bui e periferici di Bucarest.
In verità, i colli maschili erano l’extrema ratio, poiché col tempo aveva realizzato che il vischioso nutrimento più gradito suo palato era il sangue di giovani fanciulle. Aveva appreso questo e molto altro ancora.
Gli effetti collaterali sul suo corpo erano il peggior svantaggio da quando aveva siglato il baratto. Bastava un misero raggio di sole filtrato dalla persiana a far bruciare e lacrimare i suoi occhi. Lacrime corrosive, che creavano solchi sul suo volto centenario e andavano a intaccare il marmo del pavimento.
Per non parlare dell’urgenza di sostentare il proprio corpo con diversi litri di sangue al dì.
Un altro, tediosissimo, detrimento era la totale impossibilità d’irrompere nelle case altrui. Nondimeno, dover ingegnarsi a stanare le prede era un pungolo esaltante per la sua indole combattiva. Un cacciatore solitario, la cui arma d’elezione era il proprio sguardo fascinatorio. Quest’ultimo era senz’altro il più proficuo tra i benefici prescritti dal contratto.
Il Diavolo presagì che un individuo ordinario non sarebbe sopravvissuto ai secoli grazie alle normali facoltà umane. Così potenziò quelle già presenti, nel modo più scellerato possibile.
Ed ecco uno sguardo persuasivo diventare l’occhiata ipnotica d’un viscido serpe; solo gli uomini più forti gli avevano resistito con successo. Per un uomo di nobile stirpe, che aveva conosciuto la magnificenza del potere, non v’era dono più gradito. Il piacere di veder strisciare al proprio cospetto il suo misero prossimo, il godimento nel vedere gli animi più nobili convertiti alla depravazione.
Seguivano doti quali la capacità di rigenerare ogni infermità fisica, una forza sovrumana – ma entrambe utilizzabili solo dopo i pasti – la visione notturna, l’udito potenziato, il muoversi senza fare rumore ed altre facoltà utili ad un camaleonte che predava gli uomini mimetizzandosi tra loro.
Ma la sua capacità preferita rimaneva sempre e comunque la fascinazione. Quella con la quale si accingeva adesso a traviare le menti delle due fanciulline tanto agognate. Con gli occhi, la cui iride nera s’era ingrossata e occupava ora quasi tutta la cornea, catturò l’attenzione di costoro, sviandole dalla mostruosità del suo sorriso bramoso e feroce. Da adesso in poi, anch’esse avrebbero sorriso, e con gioia si sarebbero donate al Conte.
Divoratane una, lo colse il capriccio d’invitare l’altra a desinare con lui.
“Ho in animo d’invitarti al mio banchetto. E’ un onore che elargisco solo a privilegiati.” Detto questo, porse alla piccola un calice che conteneva il suo stesso sangue, prelevatole da suor Ruffiana con una siringa.
“E’ sporco.” Disse solamente lei, e poi tacque.
“Come? Questo è il tuo sangue, quindi non è più lordo di quanto lo possa essere tu, stolta fanciulla. O sei incline a confessarmi i tuoi peccati?” Proferì il Conte, con piglio beffardo.
Ma quelle erano state le ultime parole di lei, lo sguardo inespressivo perso nel vuoto. Forse era stato il trauma di vedere la sua compagna di sventura sbranata proprio sotto i propri occhi. Ed egli avrebbe potuto ordinarle di sorridere e gioire e parlargli con adulazione.
Ma il silenzio di quella impudente plebea ingrata aveva irritato oltremodo il Conte. Le suore, atterrite, avevano smesso di far baccano ed erano arretrate fin quasi all’esterno della sala da pranzo. Brandì la fanciulla per il braccio che stillava sangue dal foro della siringa e la trasse a sè. E le grida di lei riecheggiarono nella casa per molto, molto tempo.

Non c’era soddisfazione nel seminare, se il raccolto non produceva i frutti sperati.
Non c’era appagamento nel pervertire una creatura innocente, se questa non portava a buon fine un’impresa degna di cotanto sforzo.
Ed ecco dunque un’orfana novenne condurre per mano una giovane campagnola, giunta in città per mantenere la madre vedova e i fratelli più piccoli col suo lavoro di operaia. Sorridente e premurosa, convinta dalla piccola esca a guidarla fino a casa.
Ma la fanciullina non aveva conosciuto altra dimora che l’antro di un orco, l’empio uomo non più uomo che adesso – presa la carpa all’amo e depositatala in un secchio – si dilettava a guardarla contorcersi privata del respiro.
La giovane illibata, accolta dallo sguardo del Conte sulla soglia della porta, subitamente aveva preso a baccheggiare senza proferire verbo, e con lei le consorelle presenti, denudatesi senza indugio. Danzava balli pagani mentre le suore le strappavano di dosso le misere vesti.
Il padrone di casa non si contenne più. Le saltò addosso e le prese ogni cosa di lei, ogni preziosità avesse in dote un’operaia figlia di contadini. L’ultima fu la vita. Lei danzò sul suo stesso sangue gli ultimi passi, mentre lo squarcio alla sua carotide rigurgitava la sua linfa vitale e tingeva di rosso il corpo ignudo, e il Conte accompagnava l’orrido spettacolo battendo le mani a tempo.
Quando la ragazza stramazzò priva di vita, il Conte ordinò alle suore di lasciare l’appartamento. Non gradiva esibirsi in simili atteggiamenti. Quelle presero la porta, inappagate, ed egli si appropinquò a leccare dal pavimento il sangue, prima che si seccasse. La coreografia l’aveva esaltato, ma nutrirsi era adesso dannatamente disagevole.
Dietro di lui, s’accorse, la piccola esca lo stava osservando in silenzio, composta e immobile, le braccia dietro la schiena. Mentre le mani rimestavano bramose nel sangue ancora caldo, voltata solo la testa, egli le sorrise. Ed ella ricambiò, un infantile ma malizioso arcuarsi delle labbra, sotto lo sguardo fisso di un’alienata.
Con una poderosa torsione dei muscoli del collo, accompagnata da un raccapricciante crocchiare di cervicali che si spezzavano, il Conte rivoltò del tutto la testa verso di lei.
Ampliò il sorriso aprendo di poco le fauci, una gioia che quasi gli inumidiva gli occhi. Sì, la semina aveva portato buoni frutti.
E per quella bambina ci sarebbe stato tempo.

Ma l’agognato diletto era divenuto mercanzia rara e preziosa. Giacché la purezza di alcune fanciulle sapeva risultare assai tediosa al Conte.
Nelle epoche passate l’infanzia s’aveva da superare al più presto, sin dalla fanciullezza si era formati a scavallare per vivere. Oggi era costume che l’innocenza si protraesse alquanto.
Ohimè! Com’era mutata in peggio la sua terra. Il mondo intero. Stati nazionali avevano preso il posto di regni gloriosi. Signori potenti e virili avevano lasciato spazio a plebei detti presidenti. Quanto l’aveva irato la risposta di una fanciulla, cui aveva domandato quale genere di uomo le suscitasse ammirazione. ‘Preşedintele’. Niente di più oltraggioso. ‘Fanciulla, lascia che ti mostri la gagliarda virtù di un vero uomo. Avrai così di che far comparazione con il tuo presidente!’.
Il Conte ben conosceva lo sfacelo storico che aveva condotto a tutto ciò. Gli ultimi giorni da signore del suo castello costituivano un eccellente paradigma.
Accadde allora che egli si levasse dal suo letto di morte, lasciasse quelle stanze che erano state la prigione dei suoi ultimi giorni, e si presentasse ai suoi dignitari ringiovanito di decenni. Allo sconcerto generale della corte seguì il sospetto.
Ancor di più allorchè giovani serve e cortigiane presero a sparire senza una ragione, insieme a chiunque avesse sobillato sospetti tendenziosi contro il redivivo signore del castello.
Suscitò turbamento la morte del suo erede designato. Concepito con una concubina – dopo che la moglie era morta giovanissima e senza conoscere gravidanza alcuna – questi era stato ad un passo dall’ereditare ogni cosa. Forse deluso, il giovane era diventato assai cavilloso. Incalzava il padre con le sue domande, peggio d’un inquisitore affiancato dal boia.
Lo fece rinvenire impiccato nelle sue camere, morso dove i vestiti lo coprivano a dovere, e senza indugi dispose che fosse cremato su una pira funeraria. La scelta del rito suscitò scandalo e gli valse il marchio del pagano infedele.
Tutti coloro i quali avevano dato voce, seppur un sussurro, al sospetto covato dalle proprie menti, seguitavano ad eclissarsi non molto più tardi l’aver spettegolato, e i fra i soldati cominciava ad agitarsi lo spettro della diserzione. Li corruppe come il Diavolo fece con lui, offrì più oro, il miglior vino delle sue cantine, e molti di essi gli rinnovarono il giuramento di fedeltà, con ancor più ardore inneggiarono al suo nome.
Accadde però che un prete di campagna, un farneticatore di cose divine, raccogliesse intorno a sè un gran numero di popolani, contadini delle sue terre. Sorretto da una cialtronaglia di ignoranti che vedeva in lui un nunzio celeste, e parlando di chiari segnali della nefasta presenza del demonio a corte, questi fomentò i sudditi contro il nobile signore che un tempo avevano amato. Quando il Conte apprese dai suoi informatori che essi s’erano spinti troppo vicino al castello e che le loro intenzioni erano dichiaratamente bellicose, assoldò dei sicari perchè uccidessero il farneticatore in abito talare.
Il religioso perì ma, piuttosto che estinguersi con lui, il fuoco della rivolta divampò più forte di prima. Il Conte seppe dai suoi informatori che uno degli insorti aveva preso le redini della contestazione, un contadino assai più carismatico del sacerdote, e che una moltitudine impenetrabile di suoi pari gli si era stretta attorno. Era quindi impossibile eliminarlo, a meno di non mobilitare le guardie in un’azione esplicita. Poi i suoi informatori furono scoperti e barbamente trucidati, ma già non occorrevano più le spie per ragionare sul da farsi.
Predicando il ripristino della morale in quelle terre, pena l’ira di Dio su tutti loro, quel misero contadino guidò la rivolta fin sotto le mura del castello. Ma per allora il Conte era già fuggito.
Solo pochi dei suoi soldati senza onore provarono a respingere l’assalto. I più disertarono, lasciando che il castello fosse depredato e messo a ferro e fuoco.
Da allora, la storia del Conte fu un continuo adattarsi alla storia degli uomini. Con suo grande disappunto.

Aveva assistito alla nascita e alla rovina di regni la cui grandezza e magnificenza sembravano destinate a durare in eterno.
Sotto i suoi occhi la cultura era degenerata, fino alla caduta dei vecchi regimi e all’ascesa della sciagurata plebe. L’autorità non era più ereditaria, riservata alle nobili casate; sibbene elettiva, un figlio della plebe scelto dalla plebe. Un presidente.
Orrore!
Questo meccanismo aberrante era chiamato democrazia.
Bah! Un termine coniato dagli antichi greci, morto con loro e poi resuscitato dal volgo erudito per fomentare rivoluzioni. Questi saggi filosofi che coniarono le ideologie, pane per i loro pari ignoranti, propagandando l’utopia del potere popolare. Col risultato che alla nobiltà subentrò il ceto borghese servo del vile denaro.
Oppure, fu il più infimo tra la plebaglia a mettersi a capo di essa: il presidente, il dittatore, il duce.
E chi era il presidente, il capo partito, se non un abile parlatore? Uno capace di vender a peso d’oro le proprie ciance agli stolti? Così bravo ad arringare alla folla, sciorinando i precetti di un’ideologia, alla quale ci si aggrappava ora che il vecchio potere era morto.
Quel misero contadino che prese il posto del prete, blaterando di volere divino e di morale cristiana, senza alcuna carica religiosa a supportare cotanta autorità, se non la sua scaltra oratoria... Non era forse l’esempio diù calzante di quello che oggi chiamano presidente?
Un ricorso storico capace di contenere per intero l’avversione del Conte verso i tempi moderni.
Serbava un odio smisurato verso quell’accozzaglia convinta d’essere libera, quelle monarchie costituzionali prive di vero potere.
Aveva capito fin da subito che la scolarizzazione delle masse sarebbe stata la rovina della cultura. Ne era prova lo scadimento del sapere a propaganda, inculcata dai governi al popolo. Le frasi, i dettati, i temi sul Presidente! Da ignoranti sapevano esser più dignitosi.
E la lingua! Cosa ne era stato del latino? E la letteratura? Tutto s’era guastato, ridotto ai minimi termini per poter essere dato in pasto chicchessia nelle scuole.
La vecchia Europa – culla delle ideologie che predicavano il progresso di tutta l’umanità – era più consumata della calzatura d’un mendicante. Interamente divisa in stati nazionali in lotta fra loro a fasi alterne, nessuno di essi era stato risparmiato da guerre sanguinarie che avevano irriso a dovere le velleità umanitarie della cultura moderna.
Odiare Roma e risiedere in Romania. La beffa finale.
Unico conforto, l’esautorazione della Chiesa in quanto autorità secolare. Una tempo incoronava i regnanti, oggi dimorava in un minuscolo Stato. Ahahah!
La recente estinzione della monarchia in Romania non aveva condizionato affatto la scelta del Conte di viver da recluso. La rovina della sua dignità di stirpe era già avvenuta dopo la fuga dal suo castello sotto assedio.
Un uomo che rifuggiva la luce del sole e il cui aspetto non risentiva del tempo, non poteva dimorare presso i suoi simili a viso aperto.
Visse errabondo. E dove che stazionava per brevi periodi, giovani donne s’eclissavano notte dopo notte. Il suo sguardo fascinatorio, più dell’autorità del titolo o delle allettanti somme in oro, gli era venuto in soccorso quando l’ombra del sospetto s’era allungata su di lui.
Dopo l’ultimo conflitto mondiale, optò per risiedere nella capitale, conducendo un’esistenza appartata.
Si stabilì in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina sita in un quartiere tranquillo. Era in affitto, ma il proprietario glielo cedette gentilmente a titolo gratuito; indi il Conte gli ordinò di andarsi a impiccare.
L’erede del suicida venne a trovarlo col suo avvocato e un notaio, la faccenda era assai strana. Ma il distinto gentiluomo dal fine parlare persuase costoro che non vi fossero cavilli nel contratto, e a portare la loro molesta presenza fuori della sua dimora per sempre.
Seguì la necessità a procacciarsi della servitù. La scelta di quelle suore fu la sintesi di istanze diverse.
Corrompere quelle donne dalla virtù tutt’altro che incrollabile, un capolavoro dell’arte di sedurre e insieme dileggiare l’odiata istituzione ecclesiastica, che s’era ridotta al collaborazionismo pur di non essere spazzata via dal regime. Avere per sé delle domestiche, oltre che lussuriose meretrici ligie e ardenti nel deliziare ogni sua abiezione. Ma soprattutto delle insospettabili adescatrici di giovani fanciulle, essendo il loro convento preposto alla gestione di un orfanotrofio.
Il sangue innocente era divenuto un irrinunciabile diletto, a tal punto da considerare quell’orfanotrofio come una belva il suo territorio di caccia.
Fu il caso, una volta, che un tale s’aggirasse per quelle vie offrendo chicche agli orfani, e talvolta otteneva che costoro lo seguissero. Se avesse ristretto le sue voglie solo ai maschi, il Conte non l’avrebbe notato neppure. Ma quello conduceva seco anche le fanciulle, quelle di cui le suore rifornivano regolarmente il loro signore.
Ragguagliato dalle disonorate, tosto seguì l’insolente fin davanti al portone di casa sua, dove stava per condurre un’orfanella. Lo intrappolò col suo sguardo e gli intimò, una volta solo nella sua abitazione, di affogarsi nell’acqua lurida della latrina.
Prese allora con sé la fanciulla, alla quale avrebbe insegnato che le chicche del Conte erano le più buone.

La stagione estiva era quella che più odiava, le lunghe giornate lo costringevano ad un’altrettanto lunga reclusione. Attendeva solo che si facesse buio, per uscire a cacciare.
Nei crepuscoli solitari, si dilettava a braccare grosse zanzare satolle di sangue. Esalando miasmi venefici le uccideva, e si serviva del contenuto delle loro pance. Sputava, infine, ciò che rimaneva dell’insetto.
Nella semi oscurità delle persiane sbarrate, l’unica ricreazione erano i favori delle consorelle e il progettare nuovi e voluttuosi giochi per la domenica ventura, quando avrebbe potuto disporre di giovane carne fresca.
La segregazione estiva lo costringeva altresì a riflettere. Odiava ammetterlo ma, insieme ai tempi, era scaduto anche lui. Nella sua condizione, certo, sin dal giorno in cui dovette fuggire dal suo castello, ma anche nelle sue maniere. La sua vischiosa ossessione gli aveva fatto smarrire più volte il ritegno di cui un tempo poteva degnamente fregiarsi. Oramai perdeva ogni misura di fronte ad una fanciulla. Soprattutto se sotto gli undici anni.
Meglio non pronunciarsi sul suo corpo.
Se i suoi occhi neri erano la mente, la bocca era il braccio dei suoi misfatti. Ricordava l’orrore nel comprendere, portatosi una mano alla bocca, che essa si dilatava e che i denti si facevano lunghi e aguzzi come quelli di una belva. La lingua spessa, scura, lunga e appuntita, fuoriusciva insieme ad una quantità spropositata di viscida saliva corrosiva.
La sua pelle bianchissima e fredda era totalmente glabra, neppure più la barba in uso alla sua casata gli era rimasta. Radi capelli setosi e sottilissimi – corvini di nascita, ma che la sola luce artificiale bastava a far virare sul rossiccio – sopravvivevano, raccolti indietro sul capo tondeggiante.
Nei secoli aveva nutrito il timore che una sorta di degenerazione lo avesse snaturato in ogni parte di sé. La certezza sopraggiunse allorquando le serve del Conte, con le quali egli amava intrattenersi, prolificarono.
Accadde in un giorno come un altro. Con un potente conato, suor Ruffiana vomitò delle sanguisughe repellenti. Attonito, il Conte le guardava sguazzare cieche nel fetido rigurgito di sangue e succhi gastrici. Suor Ruffiana, gongolante, ne prese una e se la portò al seno. Subito la creatura le si attaccò ad un capezzolo. Stava per far lo stesso con un’altra, ma il Conte le ordinò di sopprimerle e di ripulire quella sozzura immonda. In lacrime, costei ubbidì.
Ma ella partorì ancora. La creatura le cadde semplicemente dal grembo mentre riordinava il soggiorno del suo signore. Era una sorta di embrione vermiforme e grassottello, con occhi umani posti ai lati della faccia. Ancora attaccato al cordone ombelicale, aprì la bocca bavosa priva di labbra e articolò una parola. Papà.
Il Conte balzò in piedi dalla poltrona e, lesto, si precipitò innanzi alla creatura. Con una possente pestata la schiacciò, facendola esplodere come un palloncino ricolmo d’acqua. Il rumore fu quello di una grossa pustola che deflagrava, e tutt’intorno si riversò un viscido composto melmoso a base di sangue guasto. L’odore era pestilenziale. Continuò con furia a pestare il piede sui piccoli organi informi dell’esserino disossato, sordo alla disperazione di suor Ruffiana. Ed ella, a causa della sua fertilità, fu inibita dalla fornicazione con il suo signore, cosa che la sprofondò ancor di più nello sconforto.
Un evento simile accadde poi a suor Mestizia. Dopo aver lamentato, per diverse ore, un forte dolore al setto nasale, ecco venire allo scoperto il colpevole. Dalla narice, una arto simile a quello di un grosso ragno s’allungò a tastare il volto della donna. Si ritrasse non appena la suora tentò di afferrarlo.
Solo grazie all’aiuto delle consorelle la creatura fu estratta. Una specie di gamberetto sgusciato, dalla pelle trasparente che lasciava intravedere l’interno del piccolo corpo allungato. Piombato addosso a suor Mestizia per leccare il sangue che fuoriusciva dalla sua narice provata, il Conte ordinò alle altre di bollirlo in pentola e mangiarlo.
La misura fu colma allorché anche suor Intonsa mise al mondo uno scempio della natura. Recatasi al bagno per sgomberarsi, aveva udito un singolo tonfo. Le consorelle, radunatesi intorno alla tazza, si complimentavano con lei e facevano gran schiamazzo.
Fuori del bagno, il Conte udiva solo un vivace sciacquettio provenire dalla latrina, a far da sottofondo a vagiti stonati. Ordinò che fosse soppresso senza neanche appressarsi a guardare.
L’amarezza, che raramente s’era manifestato al suo animo, lambì subdola i meandri della vecchia mente. Fino a tal segno il suo seme s’era degenerato?

Si sarebbe potuto definire impresentabile a se stesso. All’uomo misurato e al condottiero valoroso che, presso i suoi sudditi, rappresentava in Terra ciò che Dio era in Cielo.
Ma questo era l’obolo da versare in cambio del vero potere. Fin da subito l’aveva inteso. Le prede non possono amare il cacciatore, ma solo catturate, uccise.
Aveva pagato a caro prezzo la vita eterna, ma ne aveva ricavato, infondo, più potere di prima. Più di quanto ne avesse mai avuto. Il vero potere.
La sua lunga esperienza gli aveva insegnato che il vero potere non si riconosceva nei fasti delle alte cariche. Poiché, se non la volubilità delle masse – che al mattino glorificano e al vespro rinnegano – sarebbe stato il tempo a far cibo per i vermi un re, un dittatore, un presidente.
Cos’era il vero potere, se non vincere la forza corruttrice del tempo? Ah, il tempo! Il vile tiranno che aveva ridotto un valoroso ad una misera larva che languiva nel fondo d’un capezzale.
Ed ora sì, che devastasse ogni cosa, che riducesse in cenere civiltà e regni. Ma c’era un uomo contro cui adesso non avrebbe più potuto alcunché. Un uomo non più uomo che aveva ridotto il tempo tiranno all’impotenza.
Ed il vero potente era chi sapeva occultarsi all’accozzaglia incostante, e nel contempo nutrirsi di essa. Dominarla, con audacia e discrezione. Sì. Poteva soggiogare e disporre di chiunque, ogni uomo e donna sulla Terra era potenzialmente suo suddito, e nessuno si sarebbe ribellato, nessuno lo avrebbe deposto.
S’inorgogliva massimamente di ciò che aveva conseguito. Non c’era titolo né carica che potesse essere equiparata al suo status.
E per ciò che lo riguardava, quello che oggi si faceva chiamare Conducător e Geniul din Carpaţi non aveva più prestanza di una misera orfanella. Al più, gli risultava molto meno gradevole di costei.
Ragion per cui il Conte non si scompose più di tanto quando apprese da suor Corrotta che c’erano le avvisaglie di una rivolta popolare contro il regime. Ormai ci aveva fatto l’abitudine.

Epilogo

Doveva trattarsi dell’inverno entrante. Raffreddava insieme al clima, come un rettile.
Si sentiva fiacco come non mai. Umiliato nella propria inclinazione predatoria, di malanimo accettava il collo delle sue serve.
Nelle giornate spese seduto in poltrona o a letto, tentava di persuadere se stesso che il freddo doveva averlo intorpidito. Ma in verità – si rispondeva con cruda franchezza – una simile circostanza non gli si era mai presentata.
Qualcosa marciava nel verso sbagliato. C’erano giorni in cui faticava a mettersi in piedi, e giorni in cui sembrava vitale come era sempre stato. Ma, notte dopo notte, accadeva sempre più spesso che una consorella dovesse aiutarlo ad alzarsi tirandolo per le braccia.
Si ritrovò, in breve, costretto a letto per la maggior parte della giornata, madido d’un sudore malsano. Per la notte era in piedi, ma non gli riusciva d’acciuffare neppure un ubriaco barcollante. E quando, finalmente, un vecchio malfermo era finito alla portata dei suoi denti, il suo sangue non gli aveva portato il giovamento auspicato.
In breve, gli rimase unicamente d’affidarsi alla solerzia delle suore. In quelle domeniche d’autunno suor Ruffiana recava una o due orfane al suo signore, e al capezzale o alla poltrona le accostava tremanti. Ed egli le rendeva grazie, perfino.
Ma né il sangue delle suore, né quello prediletto delle fanciulle, servirono ad arrestare le manifestazioni morbose che stavano attaccando il corpo e la fibra del Conte. Tremava e deperiva, malgrado le sue serve temerarie, sfidando la sorte, gli recassero chiunque – dalla prostituta, al senzatetto, all’orfana rapita nel sonno – pur di sfamarlo.
All’interno di una guancia era maturata una disgustosa formazione biancastra – simile a latte guasto – e la bocca tutta gli doleva. Numerose cicatrici gli affollavano il petto pallido. Dall’interno di un orecchio prese a colare pus e le suore stazionavano ormai presso il suo letto, per pulire le numerose piaghe da decubito sature di vermi. Sembrava stesse marcendo.
Con l’arrivo dell’inverno, alla perdita dei poteri s’accompagnò allo stato morboso. La sua forza e i suoi sensi s’erano ridotti a quelli d’un comune essere umano. Ma la disgrazia decisiva fu la privazione della capacità fascinatoria.
Una dopo l’altra, le suore si riebbero dal torpore perverso in cui il Conte le aveva precipitate.
“Fuggite, sorelle, fuggite!” Urlava suor Corrotta, alle consorelle che, sconvolte, tentavano di coprire le proprie nudità esposte a quel turpe individuo dal corpo cadente.
Costui, dall’età indefinibile, incontrovertibilmente malato, avanzava vacillante nel tentativo di ghermirle. I denti lunghissimi sporgenti dalla bocca bavosa e occhi neri fuori delle orbite le riempivano di orrore e sgomento. Perso ormai ogni ascendente su di esse, il Conte era determinato a farne un boccone, come servigio di commiato.
Suor Ruffiana lo caricò come un toro, scaraventandolo contro il muro e facendolo ululare di dolore – laddove l’aveva, involontariamente o meno, colpito con la testa – permettendo alle consorelle di fuggire dall’appartamento ove i loro corpi e le loro anime s’erano lordati d’ogni dissolutezza e turpitudine.

Lentamente e a fatica il Conte si rimise in piedi. Doveva fuggire anch’egli, quelle traditrici potevano denunciarlo. Maledette.
Coprì il suo corpo, dolorante e roso da un male oscuro, come meglio potè. Il lungo cappotto, la sciarpa, i guanti. Non ricordava dove avesse lasciato gli occhiali scuri e non poteva permettersi di cercarli. Tutte le forze rimastegli dovevano essere impiegate per la fuga.
Trascinatosi fino in strada, la trovò brulicante di plebei in rivolta. Tutti, inesorabilmente, fuori dalla portata dei suoi denti. Il rumore di spari scuoteva l’aria carica di tensione. Boati e rimbombi, sempre meno ovattati dalla lontananza.
Doveva allontanarsi il più possibile, verso la periferia, e trovare un nascondiglio dalla luce del sole. Mettersi al riparo da una situazione degenerata al pari della propria condizione fisica.
Gli riusciva solamente di tenere un passo stentato e barcollante. Con logorante lentezza, un piede avanti all’altro, suo malgrado goccia nel fiume impetuoso dell’insurrezione popolare. Risaliva la corrente, rispondendo – umiliato – al saluto di quella feccia diretta verso le piazze e gli avamposti.
Cosa è accaduto? Come, per le fiamme dell’inferno?
In meno di un mese e mezzo aveva perduto ogni cosa. Ormai privo della capacità di assoggettare alcuno, era vana ogni speranza in una rivalsa sulla malasorte, come quando perse il suo castello. A mala pena si reggeva sulle gambe tremanti.
Temeva si trattasse di un qualche effetto collaterale, ma gli era impossibile consultare il contratto. Il Diavolo aveva tenuto per sé l’unica copia.
Ah, canaglia!
Un morbo. Pareva proprio che avesse contratto un morbo. Ma il Conte si era sempre rivelato immune al flagello delle epidemie, niente era mai riuscito ad infettarlo. Né l’aria, né l’acqua, né il sangue, né venere…
E’ sporco.
No. Era inconcepibile. Egli era immune da qualsivoglia morbo venereo avesse mai afflitto l’umanità. Molte delle donne con cui s’era intrattenuto avevano la gonorrea o la sifilide, perfino.
E’ sporco. Le ultime parole senza senso di quella fanciulla. Un moto scosse il suo corpo provato.
Etere figlie di turchi! Laida prole d’infedeli! Non poteva attendersi altro dalla plebaglia, invereconda stirpe senza onore.
Si trascinò così verso la periferia, sacramentando, ma in lingua colta.
Sfiancato e con l’alba alle spalle, il Conte guardava avvilito l’unico, misero, rifugio che gli si fosse palesato durante la travagliata marcia. Lo sbocco della cloaca. Esalazioni mefitiche da lì si sprigionavano, assumendo la consistenza di vapori caldi.
Avvicinando l’orecchio, poteva udire sciamare colonie di topi. Non uomini, topi. Piccole promesse di nutrimento, ma non quello di cui abbisognava.
Forse non avrebbe sortito alcun effetto e il suo corpo si sarebbe decomposto, condannandolo a divenire un’entità fantasmatica. Ma era la sua ultima speranza, e il chiarore dell’aurora stava per inondare quel luogo malfamato.
Introdusse prima le gambe. Poi, con una smorfia, si lasciò scivolare in avanti. Le acque immonde accolsero il suo corpo.

Alle porte dell’ultimo decennio del Novecento, il giorno di Natale, la Romania era mondata dalla violenza del dittatore.
Nello stesso giorno, l’uomo non più uomo si congedava per sempre dal mondo degli uomini, luogo che per lungo tempo aveva funestato con l’indecenza della sua predicazione.


***



Ileana affettava l’aglio. Maria voleva i Mititei per pranzo.
Si asciugava con l’avambraccio quelle lacrime che, se qualcuno l’avesse vista, avrebbe giustificato adducendo l’aglio come scusa.
Non avrebbe dovuto guardare quel dannato documentario. Bambini cavie sotto il regime di Ceauşescu. Poteva toccare anche a lei, lei che aveva solo avuto la fortuna di essere stata adottata poco prima della rivoluzione del 1989.
Si erano ben guardati dal fare i nomi di luoghi e responsabili di quegli schifosi brefotrofi, ma Ileana ricordava perfettamente come le suore giustificavano la sparizione di alcune bambine. Fuga volontaria.
Mostri.
Dovette sciacquarsi le mani nel lavello per asciugarsi naso e occhi con un tovagliolo. Si sedette un attimo a pensare. Anche se pensare faceva male. E suo marito e sua figlia sarebbero rincasati a breve. Doveva alzarsi e continuare a preparare il pranzo, per le lacrime aveva una scusa plausibile. Per le lacrime, non per gli occhi gonfi.
Corse ai ripari accendendo la TV. Era da sempre un buon modo per distrarsi. Tranne quando trasmetteva documentari da rimanere inappetente a vita. Incappò nei servizi di coda del telegiornale. Curiosità dal mondo, sondaggi e inutilità varie.
Un servizio parlava di un avvistamento, in una zona periferica di Bucarest. Ileana deglutì. Era la periferia più vicina all’orfanotrofio dove era stata rinchiusa fino a otto anni.
E’ un caso Ileana. E’ solo un maledettissimo scherzo della sorte.
La mano le tremava e non riuscì a cambiare canale. Si parlava di un braccio, talmente magro da sembrare un fuscello, che alcuni bambini avevano visto spuntare da una delle vecchie aperture fognarie tra il marciapiede e il manto stradale. Tre bambine, per la precisione.
Il parere degli esperti sulla suggestionabilità dei più piccoli era un sottofondo inascoltato che le entrava da un orecchio e usciva dall’altro. Perchè poco prima il servizio aveva parlato di come una delle testimoni avesse visto una specie di essere scheletrico quasi affacciarsi dalla fogna. Era ricoperto solo da nuda pelle grigia come quella di un pollo spennato, con le guance scavate d’un novantenne, ma con occhi enormi. neri. La invitava ad avvicinarsi, con voce vecchia e malata. E che quella bambina aveva la stessa età di sua figlia.
Spense la TV prendendo a pugni la tastiera del telecomando. L’apprensione e il terrore s’impossessarono di lei.
Avrebbe diffidato Maria dal rivolgere la parola a qualsiasi adulto sconosciuto. L’avrebbe controllata mentre saliva e mentre scendeva dal pulmino della scuola. Le avrebbe detto a di non avvicinarsi per nessuna ragione ai tombini. A costo di cadere nell’esagerazione.
Di chi avrebbe dovuto fidarsi, d’altronde? Del Comune? Dello Stato?
Non c’è pericolo, eh? Gli adulti stiano tranquilli? Il suo viso era rosso di rabbia. Morse il telecomando fino a farlo scricchiolare. Cercavano solo di tenerli buoni. Magari c’era un indagine in corso, ma della sicurezza dei bambini se ne stavano fregando. Tirò due pugni sul tavolo, abbastanza forte da farsi male alle mani, alle braccia e ai gomiti.
E quando sentì la rabbia scivolare via, nel vuoto del suo animo rimase solo lo sconforto. Prese a piangere, non lacrime isolate, ma un pianto disperato, la sofferenza che la sua anima covava nel profondo.
Il potere è il primo nemico. E Ileana lo sapeva, ora più che mai.
Perché Ileana era un’orfana sfuggita al programma di ricerca governativo sull’AIDS. Una sopravvissuta lo sa.
Il rumore di un automezzo in procinto di accostare davanti casa sua ebbe l’effetto di riportarla alla calma tutto in una volta. Si alzò. Il pulmino della scuola aveva fatto prima di suo marito. Si sciacquò la faccia e, con un cucchiaio, tentò di attenuare al volo il gonfiore degli occhi.
Riprese a tagliare l’aglio.






* Note dell'autore:

- Per una ambientazione storica più credibile, mi sono liberamente ispirata alla rivoluzione che sconvolse Bucarest nel 1989, documentandomi (si ringrazia
Wikipedia) come meglio mi è riuscito.

- La tesi secondo cui molti bambini vennero infettati di proposito col virus dell'HIV è suffragata da numerosi documenti e testimonianze storiche. Una tale scelleratezza aveva fini di ricerca scientifica, probabilmente affinchè il regime fosse sponsorizzato dai risultati - auspicabilmente positivi - di tali ricerche.


Edited by XXManu - 21/3/2011, 00:34
 
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