Posts written by XXManu

view post Posted: 10/4/2011, 01:17 [15/01/11] Vampires ain't gentle II - Risultati [O]
Ok, mi fai una cosa assai gradita. Così potrò correggerla e pubblicarla in modo decente.

Grazie infinite! :*
view post Posted: 9/4/2011, 21:19 [15/01/11] Vampires ain't gentle II - Risultati [O]
Evviva!
Cioè, un corno, potevo evitare di tirarla per le lunghe con la revisione della storia. Mi sono ridotta all'ultimo e per la parte finale non ce l'ho fatta ;__;

Autolesionismo estremo nello scegliere un registro linguistico che mi ha letteralmente squagliato il cervello. Soprattutto dopo un anno passato a non scrivere (blocco dello scrittore). <__<

Pensavo che il riferimento più eclatante fosse a L'esorcista (testa girata a 180°). Quello a It è quasi involontario.

Ileana era vissuta in quell'orfanotrofio dove, oltre al Conte, anche il governo faceva incetta di carne fresca. Lei era stata graziata da entrambi. Ha avuto una crisi ricordando il clima di paura che serpeggiava nell'orfanotrofio (tipo come nei lager, quando la gente sparisce e le ipotesi a riguardo non sono meno che terribili).
Tutte le bambine passate per le mani del Conte sono morte (quasi tutte pure violentate).

Domandina: le ripetizioni e gli errori di battitura sono soprattutto nei due paragrafi finali, cioè quelli che non ho potuto revisionare?

Grazie infinite al giudice e alle altre partecipanti, speravo in una competizione su larga scala, ma va bene così.

:D
view post Posted: 17/3/2011, 23:54 Il Conte - U-Z
Rating: 18 anni.
Tipologia: One-Shot.
Lunghezza: 6787 parole
Avvertimenti: Non per stomaci delicati, Violenza.
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale.
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: La città di Bucarest è un'ambientazione adattata alle esigenze dettate dal regolamento del concorso.
Note dell'Autore: * Vedi nota finale (le note non possono essere riportate qui perchè costituiscono uno spoiler).
Introduzione alla Storia: Nascita e predicazione dell'uomo più potente che la storia umana abbia mai conosciuto. Fino alla sua, inevitabile, caduta. Perchè tutti i potenti e tutti i regimi, per quanto longevi e vincenti, prima o poi, inesorabilmente, vanno in rovina.



Il Conte



Prologo

Si poteva congetturare qualsiasi cosa su un uomo che camminava incappottato con trentacinque gradi, per le strade di Bucarest con sciarpa e guanti e cappello e occhiali scuri. Un oscuro male o un segreto inconfessabile. Nessuno si sarebbe figurato cosa.

I - Il Baratto

Transilvania, diversi secoli or sono.
Un uomo che aveva difeso le sue terre e il suo castello da mani infedeli, che con giustizia aveva amministrato la legge presso il suo popolo, giaceva vinto su un letto, succube degli anni ed infine di quel nemico a cui nessun uomo può sfuggire. La vecchiaia. E sebbene essa fosse così vile da prendersi sovente anche la mente delle sue vittime, a costui aveva concesso di restare vigile a guardare il proprio corpo indebolirsi sempre di più, sempre di più, fino al momento in cui la vita non gli fosse scivolata via. Tutt’altro che una pia grazia, ohibò!
Ma mentre costui aspirava gli ultimi aliti di vita, il Diavolo gli si rivelò. Propose, a quello che era ormai l’ombra dell’uomo che un tempo era stato, un baratto. Intuita la sua pena, a lui offrì la vita eterna. In cambio della sua anima.
Il contratto fu redatto dal Diavolo in persona. Esso imponeva condizioni particolari affinché il corpo potesse sostenere la forza corruttrice del tempo. Giacché l’anima e il corpo erano adesso tenuti insieme da un artifizio.
Natura voleva che l’anima rimanesse legata al corpo finché questo fosse in grado di sostenerla. Quando il fisico veniva meno, ecco che l’anima prendeva la via dell’Aldilà. Il Diavolo aveva infranto questa legge eterna, avendo cura di legare l’anima al Mondo.
Ma per il corpo l’affare s’intricava. Contratto stante, esso doveva essere alimentato al modo in cui si sostentano i luridi insetti, e tutte quelle creature che infestano come parassiti l’umano spazio. Il sangue umano e nient’altro poteva evitare che un corpo, che aveva ormai chiuso il suo ciclo vitale, soccombesse al processo di decomposizione.
In caso contrario, le conseguenze sarebbero state funeste. Il fisico avrebbe cominciato a marcire e a guastarsi, fino a divenire solo ossa e poi polvere, come Natura disponeva.
Ma la sua anima era legata alla Terra. Allora egli sarebbe divenuto un essere immateriale, un fantasma. Ramingo avrebbe vagato per il Mondo, fino al Giorno del Giudizio Finale.
Quel giorno al Diavolo avrebbe dovuto liquidare ogni spettanza, e la propria anima sarebbe precipitata all’Inferno. Il Diavolo si raccomandò più volte su questo punto, giacchè il contratto escludeva qualsiasi rescissione in caso di condotta maldestra che cagionasse la fine prematura del suo eterno esistere.
L’uomo ormai non più uomo accettò.
Da quel momento in poi, egli camminava su questa Terra come un sanguisuga dell’umanità, nutrendosi di ciò che era la vita del corpo altrui. Il sangue.
Un uomo perì ed un predatore del sangue prese il suo posto. E fu, per la verità, come se il Diavolo stesso avesse assunto forma umana e si fosse insediato tra gli uomini, per ottenebrare le menti con la lusinga del male. Così s’avviò la sua empia predicazione.

II - Il Conte

Al suo rientro non aveva versato una sola goccia di sudore né aveva caldo, piuttosto era parecchio infastidito dalla quantità di abiti con cui era costretto a imbacuccarsi.
Aveva scoperto a sue spese che il contratto presentava parecchie piccole righe e che in esse erano presenti controindicazioni, come l’impossibilità di esporsi al sole per più di pochi secondi. Bruciature e bolle purulente - che andavano via solo dopo essersi nutrito – gli avevano insegnato la dura realtà.
Quel giorno il Conte aveva sentito il bisogno di uscire per ordinare di persona le pietanze a lui più gradite. Appostatosi dietro il cespuglio di un giardino dimesso, aveva indicato a suor Corrotta quali pargole portare a lui, tra quelle che dalla sezione femminile dell’orfanotrofio si incamminavano verso la parrocchia poco distante.
Ogni volta veniva dato a intendere che si trattasse sempre di una fuga volontaria. Le sventurate, nel caos all’uscita della parrocchia, erano condotte via da suor Ruffiana con una scusa. L’ultima volta aveva millantato di un premio per esser state le bimbe più buone dell’istituto, e a costoro aveva promesso l’adozione da parte di un distinto signore che si sarebbe preso cura di loro.
Lo stupore del Conte, quand’ella si presentò con un fanciullo, si tramutò subitaneamente in rabbia.
“Con quale figlio di Sodoma hai presunzione di far commercio?” Saltò al collo di suor Ruffiana, e solo il bisogno che aveva dei suoi servigi lo trattenne dall’ucciderla.
La sorella si giustificò: uscendo dalla parrocchia il sacerdote l’aveva trattenuta. E suor Corrotta era impossibilitata ad adempiere alla richiesta del suo signore e, contemporaneamente, a ricondurre da sola le orfane alla loro triste dimora. Il Conte assottigliò lo sguardo in un moto d’odio.
Uomini di chiesa.
Appena licenziata dal sacerdote, suor Ruffiana aveva percorso di gran lena la strada che porta all’orfanotrofio, ma le fanciulle erano già rientrate. Non potendo fare affidamento sulle consorelle che non avevano conosciuto l’affabilità del Conte per portar fuori le due orfane prescelte, la disperata aveva raggiunto l’orfanotrofio maschile gestito dai frati. Colà aveva convinto a seguirla un tenero fanciullo che giocava presso la cancellata in ferro del cortile, passandolo attraverso le sbarre, tanto era magrolino.
L’ira del Conte era tanta e tale che di getto avrebbe afferrato e scaraventato il piccolo contro il muro, solo per vedere la sua testa aprirsi e il suo cervello sgusciare fuori. Chiese piuttosto che gli venisse portato un gancio da mattatoio e, legate le caviglie dell’infante con una catena, in un anello di essa fece scorrere in gancio e lo appese a testa in giù.
Ora acquietatosi, valutò che prima del pasto avrebbe potuto concedersi un po’ di sollazzo.
Nel frattempo avevano fatto il loro ingresso, nell’appartamento dove il Conte aveva dimora, anche suor Corrotta, suor Intonsa, suor Mestizia e suor Farisea. Quest’ultima era la più anziana di quelle e madre superiora del convento; grazie alla sua autorità, le consorelle potevano andar fuori a prestare i loro servigi all’uomo che le aveva sedotte e precipitate nella depravazione più abietta.
Ad un cenno del suo padrone, ecco che suor Intonsa si spogliò dell’abito religioso e fece mostra della sua dote. Sorridendo in modo osceno, il Conte le si appressò, per poter ammirare cotanto virgulto castano. Un intrico cespuglioso di villi che si estendeva in tutte le dimensioni.
Meraviglioso! Una così rigogliosa prosperità andava preservata. il Conte le aveva proibito l’uso della biancheria e imposto di lavarsi in loco, per conservarne la morbidezza e la vivace foltezza.
Poi fu suor Ruffiana a deliziare la turpitudine del suo signore. Quella donna possedeva cosce bianche e flaccide, colme di adipe, che al Conte sembravano morbido caglio caprino. E con esse amava giocare. Quel candido ammasso cedevole era talmente molle, che bastava percuoterlo dolcemente con la mano per farlo oscillare durevolmente. Che visione stupenda!
Ma il momento del vizio era terminato. A suonare la sveglia fu proprio il fanciullo appeso per i piedi. Mormorava la melodia di una canzoncina che i frati avevano insegnato a lui e agli bimbi senza famiglia dell’orfanotrofio, stillando fili di saliva dalla boccuccia innocente. Bianchi i piedini e le gambette magre, rosso il viso le manine penzolanti.
Il Conte estrasse dal gancio la catena che cingeva le caviglie dell’infante e lo sollevò alto sopra la propria testa. Il tenero collo arrossato al cospetto del bianchissimo viso e dei cupi occhi neri.
Rivelò denti mostruosamente lunghi e acuminati, allorché la bocca aveva acquisito un’estensione a dir poco grottesca. Il sorriso depravato del Conte svanì nel momento in cui egli spalancò le fauci e le serrò intorno al collo dello sventurato.
Il fanciullo di riflesso spalancò gli occhi ma non emise fiato, poiché il Conte gli aveva intimato di non parlare. La bocca salivante articolò parole senza suono.
Succhiava avidamente, il secolare nobiluomo. Aveva ottenuto di convogliare tutto il delizioso nettare rosso nella zona della giugulare, e senza ritegno alcuno banchettava emettendo regolarmente versi animaleschi.
Intorno a lui, le peccatrici sue serve baccheggiavano senza freno, chi agitando impudentemente la lingua fuori dalla bocca, chi sollevandosi le nere sottane e ancheggiando ad emulare un’immaginaria fornicazione.
E quando quegli aveva ormai quasi completato il dissanguamento della preda, eccolo rivolgere un ultimo sguardo al fanciullo, le scellerate iridi nere fisse su innocenti occhi color cielo. Un ordine perentorio. I lineamenti dell’infante si contorsero di strazio e di terrore, e con il poco fiato che gli rimaneva in gola egli emise un ultimo, lungo grido che parve provenire dalle profondità recondite della sua anima.
Frattanto, il suggere del Conte aveva iniziato a produrre un suono disturbato, come quando con una cannuccia si tenti di sorbire il fondo della tazza. Il pasto era quasi terminato e il giovane martire non soffriva più – morto o moribondo – gli occhi rovesciati a mostrare il bianco della cornea e la bocca schiumante.
Il Conte tentò invano di tirare altre due poderose sorsate, ma non era davvero rimasta più una stilla di sangue in quel piccolo corpo. Girò il volto contrariato verso le suore, gli occhi furenti semichiusi, i denti serrati in un ringhio silente e il sangue che da essi scendeva sulle labbra e sul mento, gocciolando sul pavimento. Nell’appartamento regnava ora un silenzio di tomba.
Con un vigoroso slancio del braccio, il Conte mandò il piccolo cadavere a schiantarsi contro il muro. La testa assorbì quasi tutto l’impatto e si squarciò, lasciando che parte del cervello ricadesse per terra con un mesto ploc.
Il disappunto del Conte si convertì in un sorriso maligno. La sua bocca, ora ridimensionata, faceva mostra di tutti i lunghi denti, serrati in un ringhio oscenamente soddisfatto.
Desiderava fare ciò fin dall’inizio. Ma lo tediava l’incombenza di dover leccare il sangue dal pavimento.

Il Conte ebbe le fanciulle che aveva scelto la domenica successiva.
La brama e la furia di dover attendere la consueta messa domenicale per l’uscita delle orfanelle lo fecero infierire più volte sulle sue domestiche. Per tutta la settimana aveva seguitato – come era uso fare – a procacciarsi preziosi litri di nettare rosso, sovente con l’aiuto delle suore. Sue prede d’elezione erano le prostitute, le giovani operaie che finivano il turno all’ora del vespro e rincasavano sole, a volte anche uomini che percorrevano in solitudine i quartieri più bui e periferici di Bucarest.
In verità, i colli maschili erano l’extrema ratio, poiché col tempo aveva realizzato che il vischioso nutrimento più gradito suo palato era il sangue di giovani fanciulle. Aveva appreso questo e molto altro ancora.
Gli effetti collaterali sul suo corpo erano il peggior svantaggio da quando aveva siglato il baratto. Bastava un misero raggio di sole filtrato dalla persiana a far bruciare e lacrimare i suoi occhi. Lacrime corrosive, che creavano solchi sul suo volto centenario e andavano a intaccare il marmo del pavimento.
Per non parlare dell’urgenza di sostentare il proprio corpo con diversi litri di sangue al dì.
Un altro, tediosissimo, detrimento era la totale impossibilità d’irrompere nelle case altrui. Nondimeno, dover ingegnarsi a stanare le prede era un pungolo esaltante per la sua indole combattiva. Un cacciatore solitario, la cui arma d’elezione era il proprio sguardo fascinatorio. Quest’ultimo era senz’altro il più proficuo tra i benefici prescritti dal contratto.
Il Diavolo presagì che un individuo ordinario non sarebbe sopravvissuto ai secoli grazie alle normali facoltà umane. Così potenziò quelle già presenti, nel modo più scellerato possibile.
Ed ecco uno sguardo persuasivo diventare l’occhiata ipnotica d’un viscido serpe; solo gli uomini più forti gli avevano resistito con successo. Per un uomo di nobile stirpe, che aveva conosciuto la magnificenza del potere, non v’era dono più gradito. Il piacere di veder strisciare al proprio cospetto il suo misero prossimo, il godimento nel vedere gli animi più nobili convertiti alla depravazione.
Seguivano doti quali la capacità di rigenerare ogni infermità fisica, una forza sovrumana – ma entrambe utilizzabili solo dopo i pasti – la visione notturna, l’udito potenziato, il muoversi senza fare rumore ed altre facoltà utili ad un camaleonte che predava gli uomini mimetizzandosi tra loro.
Ma la sua capacità preferita rimaneva sempre e comunque la fascinazione. Quella con la quale si accingeva adesso a traviare le menti delle due fanciulline tanto agognate. Con gli occhi, la cui iride nera s’era ingrossata e occupava ora quasi tutta la cornea, catturò l’attenzione di costoro, sviandole dalla mostruosità del suo sorriso bramoso e feroce. Da adesso in poi, anch’esse avrebbero sorriso, e con gioia si sarebbero donate al Conte.
Divoratane una, lo colse il capriccio d’invitare l’altra a desinare con lui.
“Ho in animo d’invitarti al mio banchetto. E’ un onore che elargisco solo a privilegiati.” Detto questo, porse alla piccola un calice che conteneva il suo stesso sangue, prelevatole da suor Ruffiana con una siringa.
“E’ sporco.” Disse solamente lei, e poi tacque.
“Come? Questo è il tuo sangue, quindi non è più lordo di quanto lo possa essere tu, stolta fanciulla. O sei incline a confessarmi i tuoi peccati?” Proferì il Conte, con piglio beffardo.
Ma quelle erano state le ultime parole di lei, lo sguardo inespressivo perso nel vuoto. Forse era stato il trauma di vedere la sua compagna di sventura sbranata proprio sotto i propri occhi. Ed egli avrebbe potuto ordinarle di sorridere e gioire e parlargli con adulazione.
Ma il silenzio di quella impudente plebea ingrata aveva irritato oltremodo il Conte. Le suore, atterrite, avevano smesso di far baccano ed erano arretrate fin quasi all’esterno della sala da pranzo. Brandì la fanciulla per il braccio che stillava sangue dal foro della siringa e la trasse a sè. E le grida di lei riecheggiarono nella casa per molto, molto tempo.

Non c’era soddisfazione nel seminare, se il raccolto non produceva i frutti sperati.
Non c’era appagamento nel pervertire una creatura innocente, se questa non portava a buon fine un’impresa degna di cotanto sforzo.
Ed ecco dunque un’orfana novenne condurre per mano una giovane campagnola, giunta in città per mantenere la madre vedova e i fratelli più piccoli col suo lavoro di operaia. Sorridente e premurosa, convinta dalla piccola esca a guidarla fino a casa.
Ma la fanciullina non aveva conosciuto altra dimora che l’antro di un orco, l’empio uomo non più uomo che adesso – presa la carpa all’amo e depositatala in un secchio – si dilettava a guardarla contorcersi privata del respiro.
La giovane illibata, accolta dallo sguardo del Conte sulla soglia della porta, subitamente aveva preso a baccheggiare senza proferire verbo, e con lei le consorelle presenti, denudatesi senza indugio. Danzava balli pagani mentre le suore le strappavano di dosso le misere vesti.
Il padrone di casa non si contenne più. Le saltò addosso e le prese ogni cosa di lei, ogni preziosità avesse in dote un’operaia figlia di contadini. L’ultima fu la vita. Lei danzò sul suo stesso sangue gli ultimi passi, mentre lo squarcio alla sua carotide rigurgitava la sua linfa vitale e tingeva di rosso il corpo ignudo, e il Conte accompagnava l’orrido spettacolo battendo le mani a tempo.
Quando la ragazza stramazzò priva di vita, il Conte ordinò alle suore di lasciare l’appartamento. Non gradiva esibirsi in simili atteggiamenti. Quelle presero la porta, inappagate, ed egli si appropinquò a leccare dal pavimento il sangue, prima che si seccasse. La coreografia l’aveva esaltato, ma nutrirsi era adesso dannatamente disagevole.
Dietro di lui, s’accorse, la piccola esca lo stava osservando in silenzio, composta e immobile, le braccia dietro la schiena. Mentre le mani rimestavano bramose nel sangue ancora caldo, voltata solo la testa, egli le sorrise. Ed ella ricambiò, un infantile ma malizioso arcuarsi delle labbra, sotto lo sguardo fisso di un’alienata.
Con una poderosa torsione dei muscoli del collo, accompagnata da un raccapricciante crocchiare di cervicali che si spezzavano, il Conte rivoltò del tutto la testa verso di lei.
Ampliò il sorriso aprendo di poco le fauci, una gioia che quasi gli inumidiva gli occhi. Sì, la semina aveva portato buoni frutti.
E per quella bambina ci sarebbe stato tempo.

Ma l’agognato diletto era divenuto mercanzia rara e preziosa. Giacché la purezza di alcune fanciulle sapeva risultare assai tediosa al Conte.
Nelle epoche passate l’infanzia s’aveva da superare al più presto, sin dalla fanciullezza si era formati a scavallare per vivere. Oggi era costume che l’innocenza si protraesse alquanto.
Ohimè! Com’era mutata in peggio la sua terra. Il mondo intero. Stati nazionali avevano preso il posto di regni gloriosi. Signori potenti e virili avevano lasciato spazio a plebei detti presidenti. Quanto l’aveva irato la risposta di una fanciulla, cui aveva domandato quale genere di uomo le suscitasse ammirazione. ‘Preşedintele’. Niente di più oltraggioso. ‘Fanciulla, lascia che ti mostri la gagliarda virtù di un vero uomo. Avrai così di che far comparazione con il tuo presidente!’.
Il Conte ben conosceva lo sfacelo storico che aveva condotto a tutto ciò. Gli ultimi giorni da signore del suo castello costituivano un eccellente paradigma.
Accadde allora che egli si levasse dal suo letto di morte, lasciasse quelle stanze che erano state la prigione dei suoi ultimi giorni, e si presentasse ai suoi dignitari ringiovanito di decenni. Allo sconcerto generale della corte seguì il sospetto.
Ancor di più allorchè giovani serve e cortigiane presero a sparire senza una ragione, insieme a chiunque avesse sobillato sospetti tendenziosi contro il redivivo signore del castello.
Suscitò turbamento la morte del suo erede designato. Concepito con una concubina – dopo che la moglie era morta giovanissima e senza conoscere gravidanza alcuna – questi era stato ad un passo dall’ereditare ogni cosa. Forse deluso, il giovane era diventato assai cavilloso. Incalzava il padre con le sue domande, peggio d’un inquisitore affiancato dal boia.
Lo fece rinvenire impiccato nelle sue camere, morso dove i vestiti lo coprivano a dovere, e senza indugi dispose che fosse cremato su una pira funeraria. La scelta del rito suscitò scandalo e gli valse il marchio del pagano infedele.
Tutti coloro i quali avevano dato voce, seppur un sussurro, al sospetto covato dalle proprie menti, seguitavano ad eclissarsi non molto più tardi l’aver spettegolato, e i fra i soldati cominciava ad agitarsi lo spettro della diserzione. Li corruppe come il Diavolo fece con lui, offrì più oro, il miglior vino delle sue cantine, e molti di essi gli rinnovarono il giuramento di fedeltà, con ancor più ardore inneggiarono al suo nome.
Accadde però che un prete di campagna, un farneticatore di cose divine, raccogliesse intorno a sè un gran numero di popolani, contadini delle sue terre. Sorretto da una cialtronaglia di ignoranti che vedeva in lui un nunzio celeste, e parlando di chiari segnali della nefasta presenza del demonio a corte, questi fomentò i sudditi contro il nobile signore che un tempo avevano amato. Quando il Conte apprese dai suoi informatori che essi s’erano spinti troppo vicino al castello e che le loro intenzioni erano dichiaratamente bellicose, assoldò dei sicari perchè uccidessero il farneticatore in abito talare.
Il religioso perì ma, piuttosto che estinguersi con lui, il fuoco della rivolta divampò più forte di prima. Il Conte seppe dai suoi informatori che uno degli insorti aveva preso le redini della contestazione, un contadino assai più carismatico del sacerdote, e che una moltitudine impenetrabile di suoi pari gli si era stretta attorno. Era quindi impossibile eliminarlo, a meno di non mobilitare le guardie in un’azione esplicita. Poi i suoi informatori furono scoperti e barbamente trucidati, ma già non occorrevano più le spie per ragionare sul da farsi.
Predicando il ripristino della morale in quelle terre, pena l’ira di Dio su tutti loro, quel misero contadino guidò la rivolta fin sotto le mura del castello. Ma per allora il Conte era già fuggito.
Solo pochi dei suoi soldati senza onore provarono a respingere l’assalto. I più disertarono, lasciando che il castello fosse depredato e messo a ferro e fuoco.
Da allora, la storia del Conte fu un continuo adattarsi alla storia degli uomini. Con suo grande disappunto.

Aveva assistito alla nascita e alla rovina di regni la cui grandezza e magnificenza sembravano destinate a durare in eterno.
Sotto i suoi occhi la cultura era degenerata, fino alla caduta dei vecchi regimi e all’ascesa della sciagurata plebe. L’autorità non era più ereditaria, riservata alle nobili casate; sibbene elettiva, un figlio della plebe scelto dalla plebe. Un presidente.
Orrore!
Questo meccanismo aberrante era chiamato democrazia.
Bah! Un termine coniato dagli antichi greci, morto con loro e poi resuscitato dal volgo erudito per fomentare rivoluzioni. Questi saggi filosofi che coniarono le ideologie, pane per i loro pari ignoranti, propagandando l’utopia del potere popolare. Col risultato che alla nobiltà subentrò il ceto borghese servo del vile denaro.
Oppure, fu il più infimo tra la plebaglia a mettersi a capo di essa: il presidente, il dittatore, il duce.
E chi era il presidente, il capo partito, se non un abile parlatore? Uno capace di vender a peso d’oro le proprie ciance agli stolti? Così bravo ad arringare alla folla, sciorinando i precetti di un’ideologia, alla quale ci si aggrappava ora che il vecchio potere era morto.
Quel misero contadino che prese il posto del prete, blaterando di volere divino e di morale cristiana, senza alcuna carica religiosa a supportare cotanta autorità, se non la sua scaltra oratoria... Non era forse l’esempio diù calzante di quello che oggi chiamano presidente?
Un ricorso storico capace di contenere per intero l’avversione del Conte verso i tempi moderni.
Serbava un odio smisurato verso quell’accozzaglia convinta d’essere libera, quelle monarchie costituzionali prive di vero potere.
Aveva capito fin da subito che la scolarizzazione delle masse sarebbe stata la rovina della cultura. Ne era prova lo scadimento del sapere a propaganda, inculcata dai governi al popolo. Le frasi, i dettati, i temi sul Presidente! Da ignoranti sapevano esser più dignitosi.
E la lingua! Cosa ne era stato del latino? E la letteratura? Tutto s’era guastato, ridotto ai minimi termini per poter essere dato in pasto chicchessia nelle scuole.
La vecchia Europa – culla delle ideologie che predicavano il progresso di tutta l’umanità – era più consumata della calzatura d’un mendicante. Interamente divisa in stati nazionali in lotta fra loro a fasi alterne, nessuno di essi era stato risparmiato da guerre sanguinarie che avevano irriso a dovere le velleità umanitarie della cultura moderna.
Odiare Roma e risiedere in Romania. La beffa finale.
Unico conforto, l’esautorazione della Chiesa in quanto autorità secolare. Una tempo incoronava i regnanti, oggi dimorava in un minuscolo Stato. Ahahah!
La recente estinzione della monarchia in Romania non aveva condizionato affatto la scelta del Conte di viver da recluso. La rovina della sua dignità di stirpe era già avvenuta dopo la fuga dal suo castello sotto assedio.
Un uomo che rifuggiva la luce del sole e il cui aspetto non risentiva del tempo, non poteva dimorare presso i suoi simili a viso aperto.
Visse errabondo. E dove che stazionava per brevi periodi, giovani donne s’eclissavano notte dopo notte. Il suo sguardo fascinatorio, più dell’autorità del titolo o delle allettanti somme in oro, gli era venuto in soccorso quando l’ombra del sospetto s’era allungata su di lui.
Dopo l’ultimo conflitto mondiale, optò per risiedere nella capitale, conducendo un’esistenza appartata.
Si stabilì in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina sita in un quartiere tranquillo. Era in affitto, ma il proprietario glielo cedette gentilmente a titolo gratuito; indi il Conte gli ordinò di andarsi a impiccare.
L’erede del suicida venne a trovarlo col suo avvocato e un notaio, la faccenda era assai strana. Ma il distinto gentiluomo dal fine parlare persuase costoro che non vi fossero cavilli nel contratto, e a portare la loro molesta presenza fuori della sua dimora per sempre.
Seguì la necessità a procacciarsi della servitù. La scelta di quelle suore fu la sintesi di istanze diverse.
Corrompere quelle donne dalla virtù tutt’altro che incrollabile, un capolavoro dell’arte di sedurre e insieme dileggiare l’odiata istituzione ecclesiastica, che s’era ridotta al collaborazionismo pur di non essere spazzata via dal regime. Avere per sé delle domestiche, oltre che lussuriose meretrici ligie e ardenti nel deliziare ogni sua abiezione. Ma soprattutto delle insospettabili adescatrici di giovani fanciulle, essendo il loro convento preposto alla gestione di un orfanotrofio.
Il sangue innocente era divenuto un irrinunciabile diletto, a tal punto da considerare quell’orfanotrofio come una belva il suo territorio di caccia.
Fu il caso, una volta, che un tale s’aggirasse per quelle vie offrendo chicche agli orfani, e talvolta otteneva che costoro lo seguissero. Se avesse ristretto le sue voglie solo ai maschi, il Conte non l’avrebbe notato neppure. Ma quello conduceva seco anche le fanciulle, quelle di cui le suore rifornivano regolarmente il loro signore.
Ragguagliato dalle disonorate, tosto seguì l’insolente fin davanti al portone di casa sua, dove stava per condurre un’orfanella. Lo intrappolò col suo sguardo e gli intimò, una volta solo nella sua abitazione, di affogarsi nell’acqua lurida della latrina.
Prese allora con sé la fanciulla, alla quale avrebbe insegnato che le chicche del Conte erano le più buone.

La stagione estiva era quella che più odiava, le lunghe giornate lo costringevano ad un’altrettanto lunga reclusione. Attendeva solo che si facesse buio, per uscire a cacciare.
Nei crepuscoli solitari, si dilettava a braccare grosse zanzare satolle di sangue. Esalando miasmi venefici le uccideva, e si serviva del contenuto delle loro pance. Sputava, infine, ciò che rimaneva dell’insetto.
Nella semi oscurità delle persiane sbarrate, l’unica ricreazione erano i favori delle consorelle e il progettare nuovi e voluttuosi giochi per la domenica ventura, quando avrebbe potuto disporre di giovane carne fresca.
La segregazione estiva lo costringeva altresì a riflettere. Odiava ammetterlo ma, insieme ai tempi, era scaduto anche lui. Nella sua condizione, certo, sin dal giorno in cui dovette fuggire dal suo castello, ma anche nelle sue maniere. La sua vischiosa ossessione gli aveva fatto smarrire più volte il ritegno di cui un tempo poteva degnamente fregiarsi. Oramai perdeva ogni misura di fronte ad una fanciulla. Soprattutto se sotto gli undici anni.
Meglio non pronunciarsi sul suo corpo.
Se i suoi occhi neri erano la mente, la bocca era il braccio dei suoi misfatti. Ricordava l’orrore nel comprendere, portatosi una mano alla bocca, che essa si dilatava e che i denti si facevano lunghi e aguzzi come quelli di una belva. La lingua spessa, scura, lunga e appuntita, fuoriusciva insieme ad una quantità spropositata di viscida saliva corrosiva.
La sua pelle bianchissima e fredda era totalmente glabra, neppure più la barba in uso alla sua casata gli era rimasta. Radi capelli setosi e sottilissimi – corvini di nascita, ma che la sola luce artificiale bastava a far virare sul rossiccio – sopravvivevano, raccolti indietro sul capo tondeggiante.
Nei secoli aveva nutrito il timore che una sorta di degenerazione lo avesse snaturato in ogni parte di sé. La certezza sopraggiunse allorquando le serve del Conte, con le quali egli amava intrattenersi, prolificarono.
Accadde in un giorno come un altro. Con un potente conato, suor Ruffiana vomitò delle sanguisughe repellenti. Attonito, il Conte le guardava sguazzare cieche nel fetido rigurgito di sangue e succhi gastrici. Suor Ruffiana, gongolante, ne prese una e se la portò al seno. Subito la creatura le si attaccò ad un capezzolo. Stava per far lo stesso con un’altra, ma il Conte le ordinò di sopprimerle e di ripulire quella sozzura immonda. In lacrime, costei ubbidì.
Ma ella partorì ancora. La creatura le cadde semplicemente dal grembo mentre riordinava il soggiorno del suo signore. Era una sorta di embrione vermiforme e grassottello, con occhi umani posti ai lati della faccia. Ancora attaccato al cordone ombelicale, aprì la bocca bavosa priva di labbra e articolò una parola. Papà.
Il Conte balzò in piedi dalla poltrona e, lesto, si precipitò innanzi alla creatura. Con una possente pestata la schiacciò, facendola esplodere come un palloncino ricolmo d’acqua. Il rumore fu quello di una grossa pustola che deflagrava, e tutt’intorno si riversò un viscido composto melmoso a base di sangue guasto. L’odore era pestilenziale. Continuò con furia a pestare il piede sui piccoli organi informi dell’esserino disossato, sordo alla disperazione di suor Ruffiana. Ed ella, a causa della sua fertilità, fu inibita dalla fornicazione con il suo signore, cosa che la sprofondò ancor di più nello sconforto.
Un evento simile accadde poi a suor Mestizia. Dopo aver lamentato, per diverse ore, un forte dolore al setto nasale, ecco venire allo scoperto il colpevole. Dalla narice, una arto simile a quello di un grosso ragno s’allungò a tastare il volto della donna. Si ritrasse non appena la suora tentò di afferrarlo.
Solo grazie all’aiuto delle consorelle la creatura fu estratta. Una specie di gamberetto sgusciato, dalla pelle trasparente che lasciava intravedere l’interno del piccolo corpo allungato. Piombato addosso a suor Mestizia per leccare il sangue che fuoriusciva dalla sua narice provata, il Conte ordinò alle altre di bollirlo in pentola e mangiarlo.
La misura fu colma allorché anche suor Intonsa mise al mondo uno scempio della natura. Recatasi al bagno per sgomberarsi, aveva udito un singolo tonfo. Le consorelle, radunatesi intorno alla tazza, si complimentavano con lei e facevano gran schiamazzo.
Fuori del bagno, il Conte udiva solo un vivace sciacquettio provenire dalla latrina, a far da sottofondo a vagiti stonati. Ordinò che fosse soppresso senza neanche appressarsi a guardare.
L’amarezza, che raramente s’era manifestato al suo animo, lambì subdola i meandri della vecchia mente. Fino a tal segno il suo seme s’era degenerato?

Si sarebbe potuto definire impresentabile a se stesso. All’uomo misurato e al condottiero valoroso che, presso i suoi sudditi, rappresentava in Terra ciò che Dio era in Cielo.
Ma questo era l’obolo da versare in cambio del vero potere. Fin da subito l’aveva inteso. Le prede non possono amare il cacciatore, ma solo catturate, uccise.
Aveva pagato a caro prezzo la vita eterna, ma ne aveva ricavato, infondo, più potere di prima. Più di quanto ne avesse mai avuto. Il vero potere.
La sua lunga esperienza gli aveva insegnato che il vero potere non si riconosceva nei fasti delle alte cariche. Poiché, se non la volubilità delle masse – che al mattino glorificano e al vespro rinnegano – sarebbe stato il tempo a far cibo per i vermi un re, un dittatore, un presidente.
Cos’era il vero potere, se non vincere la forza corruttrice del tempo? Ah, il tempo! Il vile tiranno che aveva ridotto un valoroso ad una misera larva che languiva nel fondo d’un capezzale.
Ed ora sì, che devastasse ogni cosa, che riducesse in cenere civiltà e regni. Ma c’era un uomo contro cui adesso non avrebbe più potuto alcunché. Un uomo non più uomo che aveva ridotto il tempo tiranno all’impotenza.
Ed il vero potente era chi sapeva occultarsi all’accozzaglia incostante, e nel contempo nutrirsi di essa. Dominarla, con audacia e discrezione. Sì. Poteva soggiogare e disporre di chiunque, ogni uomo e donna sulla Terra era potenzialmente suo suddito, e nessuno si sarebbe ribellato, nessuno lo avrebbe deposto.
S’inorgogliva massimamente di ciò che aveva conseguito. Non c’era titolo né carica che potesse essere equiparata al suo status.
E per ciò che lo riguardava, quello che oggi si faceva chiamare Conducător e Geniul din Carpaţi non aveva più prestanza di una misera orfanella. Al più, gli risultava molto meno gradevole di costei.
Ragion per cui il Conte non si scompose più di tanto quando apprese da suor Corrotta che c’erano le avvisaglie di una rivolta popolare contro il regime. Ormai ci aveva fatto l’abitudine.

Epilogo

Doveva trattarsi dell’inverno entrante. Raffreddava insieme al clima, come un rettile.
Si sentiva fiacco come non mai. Umiliato nella propria inclinazione predatoria, di malanimo accettava il collo delle sue serve.
Nelle giornate spese seduto in poltrona o a letto, tentava di persuadere se stesso che il freddo doveva averlo intorpidito. Ma in verità – si rispondeva con cruda franchezza – una simile circostanza non gli si era mai presentata.
Qualcosa marciava nel verso sbagliato. C’erano giorni in cui faticava a mettersi in piedi, e giorni in cui sembrava vitale come era sempre stato. Ma, notte dopo notte, accadeva sempre più spesso che una consorella dovesse aiutarlo ad alzarsi tirandolo per le braccia.
Si ritrovò, in breve, costretto a letto per la maggior parte della giornata, madido d’un sudore malsano. Per la notte era in piedi, ma non gli riusciva d’acciuffare neppure un ubriaco barcollante. E quando, finalmente, un vecchio malfermo era finito alla portata dei suoi denti, il suo sangue non gli aveva portato il giovamento auspicato.
In breve, gli rimase unicamente d’affidarsi alla solerzia delle suore. In quelle domeniche d’autunno suor Ruffiana recava una o due orfane al suo signore, e al capezzale o alla poltrona le accostava tremanti. Ed egli le rendeva grazie, perfino.
Ma né il sangue delle suore, né quello prediletto delle fanciulle, servirono ad arrestare le manifestazioni morbose che stavano attaccando il corpo e la fibra del Conte. Tremava e deperiva, malgrado le sue serve temerarie, sfidando la sorte, gli recassero chiunque – dalla prostituta, al senzatetto, all’orfana rapita nel sonno – pur di sfamarlo.
All’interno di una guancia era maturata una disgustosa formazione biancastra – simile a latte guasto – e la bocca tutta gli doleva. Numerose cicatrici gli affollavano il petto pallido. Dall’interno di un orecchio prese a colare pus e le suore stazionavano ormai presso il suo letto, per pulire le numerose piaghe da decubito sature di vermi. Sembrava stesse marcendo.
Con l’arrivo dell’inverno, alla perdita dei poteri s’accompagnò allo stato morboso. La sua forza e i suoi sensi s’erano ridotti a quelli d’un comune essere umano. Ma la disgrazia decisiva fu la privazione della capacità fascinatoria.
Una dopo l’altra, le suore si riebbero dal torpore perverso in cui il Conte le aveva precipitate.
“Fuggite, sorelle, fuggite!” Urlava suor Corrotta, alle consorelle che, sconvolte, tentavano di coprire le proprie nudità esposte a quel turpe individuo dal corpo cadente.
Costui, dall’età indefinibile, incontrovertibilmente malato, avanzava vacillante nel tentativo di ghermirle. I denti lunghissimi sporgenti dalla bocca bavosa e occhi neri fuori delle orbite le riempivano di orrore e sgomento. Perso ormai ogni ascendente su di esse, il Conte era determinato a farne un boccone, come servigio di commiato.
Suor Ruffiana lo caricò come un toro, scaraventandolo contro il muro e facendolo ululare di dolore – laddove l’aveva, involontariamente o meno, colpito con la testa – permettendo alle consorelle di fuggire dall’appartamento ove i loro corpi e le loro anime s’erano lordati d’ogni dissolutezza e turpitudine.

Lentamente e a fatica il Conte si rimise in piedi. Doveva fuggire anch’egli, quelle traditrici potevano denunciarlo. Maledette.
Coprì il suo corpo, dolorante e roso da un male oscuro, come meglio potè. Il lungo cappotto, la sciarpa, i guanti. Non ricordava dove avesse lasciato gli occhiali scuri e non poteva permettersi di cercarli. Tutte le forze rimastegli dovevano essere impiegate per la fuga.
Trascinatosi fino in strada, la trovò brulicante di plebei in rivolta. Tutti, inesorabilmente, fuori dalla portata dei suoi denti. Il rumore di spari scuoteva l’aria carica di tensione. Boati e rimbombi, sempre meno ovattati dalla lontananza.
Doveva allontanarsi il più possibile, verso la periferia, e trovare un nascondiglio dalla luce del sole. Mettersi al riparo da una situazione degenerata al pari della propria condizione fisica.
Gli riusciva solamente di tenere un passo stentato e barcollante. Con logorante lentezza, un piede avanti all’altro, suo malgrado goccia nel fiume impetuoso dell’insurrezione popolare. Risaliva la corrente, rispondendo – umiliato – al saluto di quella feccia diretta verso le piazze e gli avamposti.
Cosa è accaduto? Come, per le fiamme dell’inferno?
In meno di un mese e mezzo aveva perduto ogni cosa. Ormai privo della capacità di assoggettare alcuno, era vana ogni speranza in una rivalsa sulla malasorte, come quando perse il suo castello. A mala pena si reggeva sulle gambe tremanti.
Temeva si trattasse di un qualche effetto collaterale, ma gli era impossibile consultare il contratto. Il Diavolo aveva tenuto per sé l’unica copia.
Ah, canaglia!
Un morbo. Pareva proprio che avesse contratto un morbo. Ma il Conte si era sempre rivelato immune al flagello delle epidemie, niente era mai riuscito ad infettarlo. Né l’aria, né l’acqua, né il sangue, né venere…
E’ sporco.
No. Era inconcepibile. Egli era immune da qualsivoglia morbo venereo avesse mai afflitto l’umanità. Molte delle donne con cui s’era intrattenuto avevano la gonorrea o la sifilide, perfino.
E’ sporco. Le ultime parole senza senso di quella fanciulla. Un moto scosse il suo corpo provato.
Etere figlie di turchi! Laida prole d’infedeli! Non poteva attendersi altro dalla plebaglia, invereconda stirpe senza onore.
Si trascinò così verso la periferia, sacramentando, ma in lingua colta.
Sfiancato e con l’alba alle spalle, il Conte guardava avvilito l’unico, misero, rifugio che gli si fosse palesato durante la travagliata marcia. Lo sbocco della cloaca. Esalazioni mefitiche da lì si sprigionavano, assumendo la consistenza di vapori caldi.
Avvicinando l’orecchio, poteva udire sciamare colonie di topi. Non uomini, topi. Piccole promesse di nutrimento, ma non quello di cui abbisognava.
Forse non avrebbe sortito alcun effetto e il suo corpo si sarebbe decomposto, condannandolo a divenire un’entità fantasmatica. Ma era la sua ultima speranza, e il chiarore dell’aurora stava per inondare quel luogo malfamato.
Introdusse prima le gambe. Poi, con una smorfia, si lasciò scivolare in avanti. Le acque immonde accolsero il suo corpo.

Alle porte dell’ultimo decennio del Novecento, il giorno di Natale, la Romania era mondata dalla violenza del dittatore.
Nello stesso giorno, l’uomo non più uomo si congedava per sempre dal mondo degli uomini, luogo che per lungo tempo aveva funestato con l’indecenza della sua predicazione.


***



Ileana affettava l’aglio. Maria voleva i Mititei per pranzo.
Si asciugava con l’avambraccio quelle lacrime che, se qualcuno l’avesse vista, avrebbe giustificato adducendo l’aglio come scusa.
Non avrebbe dovuto guardare quel dannato documentario. Bambini cavie sotto il regime di Ceauşescu. Poteva toccare anche a lei, lei che aveva solo avuto la fortuna di essere stata adottata poco prima della rivoluzione del 1989.
Si erano ben guardati dal fare i nomi di luoghi e responsabili di quegli schifosi brefotrofi, ma Ileana ricordava perfettamente come le suore giustificavano la sparizione di alcune bambine. Fuga volontaria.
Mostri.
Dovette sciacquarsi le mani nel lavello per asciugarsi naso e occhi con un tovagliolo. Si sedette un attimo a pensare. Anche se pensare faceva male. E suo marito e sua figlia sarebbero rincasati a breve. Doveva alzarsi e continuare a preparare il pranzo, per le lacrime aveva una scusa plausibile. Per le lacrime, non per gli occhi gonfi.
Corse ai ripari accendendo la TV. Era da sempre un buon modo per distrarsi. Tranne quando trasmetteva documentari da rimanere inappetente a vita. Incappò nei servizi di coda del telegiornale. Curiosità dal mondo, sondaggi e inutilità varie.
Un servizio parlava di un avvistamento, in una zona periferica di Bucarest. Ileana deglutì. Era la periferia più vicina all’orfanotrofio dove era stata rinchiusa fino a otto anni.
E’ un caso Ileana. E’ solo un maledettissimo scherzo della sorte.
La mano le tremava e non riuscì a cambiare canale. Si parlava di un braccio, talmente magro da sembrare un fuscello, che alcuni bambini avevano visto spuntare da una delle vecchie aperture fognarie tra il marciapiede e il manto stradale. Tre bambine, per la precisione.
Il parere degli esperti sulla suggestionabilità dei più piccoli era un sottofondo inascoltato che le entrava da un orecchio e usciva dall’altro. Perchè poco prima il servizio aveva parlato di come una delle testimoni avesse visto una specie di essere scheletrico quasi affacciarsi dalla fogna. Era ricoperto solo da nuda pelle grigia come quella di un pollo spennato, con le guance scavate d’un novantenne, ma con occhi enormi. neri. La invitava ad avvicinarsi, con voce vecchia e malata. E che quella bambina aveva la stessa età di sua figlia.
Spense la TV prendendo a pugni la tastiera del telecomando. L’apprensione e il terrore s’impossessarono di lei.
Avrebbe diffidato Maria dal rivolgere la parola a qualsiasi adulto sconosciuto. L’avrebbe controllata mentre saliva e mentre scendeva dal pulmino della scuola. Le avrebbe detto a di non avvicinarsi per nessuna ragione ai tombini. A costo di cadere nell’esagerazione.
Di chi avrebbe dovuto fidarsi, d’altronde? Del Comune? Dello Stato?
Non c’è pericolo, eh? Gli adulti stiano tranquilli? Il suo viso era rosso di rabbia. Morse il telecomando fino a farlo scricchiolare. Cercavano solo di tenerli buoni. Magari c’era un indagine in corso, ma della sicurezza dei bambini se ne stavano fregando. Tirò due pugni sul tavolo, abbastanza forte da farsi male alle mani, alle braccia e ai gomiti.
E quando sentì la rabbia scivolare via, nel vuoto del suo animo rimase solo lo sconforto. Prese a piangere, non lacrime isolate, ma un pianto disperato, la sofferenza che la sua anima covava nel profondo.
Il potere è il primo nemico. E Ileana lo sapeva, ora più che mai.
Perché Ileana era un’orfana sfuggita al programma di ricerca governativo sull’AIDS. Una sopravvissuta lo sa.
Il rumore di un automezzo in procinto di accostare davanti casa sua ebbe l’effetto di riportarla alla calma tutto in una volta. Si alzò. Il pulmino della scuola aveva fatto prima di suo marito. Si sciacquò la faccia e, con un cucchiaio, tentò di attenuare al volo il gonfiore degli occhi.
Riprese a tagliare l’aglio.






* Note dell'autore:

- Per una ambientazione storica più credibile, mi sono liberamente ispirata alla rivoluzione che sconvolse Bucarest nel 1989, documentandomi (si ringrazia
Wikipedia) come meglio mi è riuscito.

- La tesi secondo cui molti bambini vennero infettati di proposito col virus dell'HIV è suffragata da numerosi documenti e testimonianze storiche. Una tale scelleratezza aveva fini di ricerca scientifica, probabilmente affinchè il regime fosse sponsorizzato dai risultati - auspicabilmente positivi - di tali ricerche.


Edited by XXManu - 21/3/2011, 00:34
view post Posted: 19/1/2011, 21:39 [15/01/11] Vampires ain't gentle II - Contest terminati
Chissà, magari riesco a farmi passare il blocco dello scrittore che mi attanaglia da quasi un anno.

Temo però che l'ambientazione obbligata in Romania terrà lontane molte possibili candidate.

Io la ma mezza idea ce l'ho, accetto la sfida. Speriamo... O__O
view post Posted: 31/3/2010, 20:38 Classifica degli autori - Top Mensile
Allora, allora...

Ho ricontato:

[11/09/08] Behind the frame, Prima= 6

[09/05/09]Memories, Seconda= 4

[17/08/09] Quattro per quaranta, Terza (con più di sei partecipanti)= 3

03/06/09] Due anni insieme - Special contest, Terza= 2

Quindi dovrei essere a 15 punti.

P.s. Ho letto: Pardon, la classifica 2009 va dal 12 agosto 2008 (XD) al 31 dicembre 2009, perciò ho aggiunto il contest del 2008.
Ditemi se ho contato bene, perchè la matematica non è il mio forte... O__o


view post Posted: 31/3/2010, 12:00 [1/01/10] Contest di inizio anno - Risultati [O]
Ho sicuramente vinto la sfida per la recensione più lunga! XDD

Ringrazio e dedico la storia al mio grande (e inconsapevole) maestro: Stephen King. *Si inchina*

Hai una mente perversa!!

Grazie, cara!

Edit
Cavoli, la trama del film "I passi dell'amore" somiglia davvero all'incipit! Non l'avevo mai sentito nominare...
view post Posted: 31/3/2010, 00:59 Classifica degli autori - Top Mensile
Dunque, controllando i miei banner dovrei avere 8 punti invece che 7.

2 terza e 1 seconda: 2+2+4= 8

Credo...
view post Posted: 6/3/2010, 00:15 Anatema - U-Z
Rating: 16 anni
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 12181 parole, titolo e citazione esclusi
Avvertimenti: Angst, Non per stomaci delicati, Linguaggio Colorito
Genere: Drammatico, Horror, Sovrannaturale
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Credits: La frase presente nella storia e citata in alto a destra, appartiene a George Bernard Shaw.
Note dell'Autore: Da tempo immemore volevo usare il nome Mallory in una delle mie storie, mi sa di tristezza, fragilità e suona bene. Per puro caso, ho scoperto che, tra i suoi significati, conta 'Bella' e 'Sfortunata'.
Introduzione alla Storia: Il bullismo, visto dalla parte di chi lo pratica. Sulla vittima decisamente sbagliata.
La banalità del male ai giorni nostri.




La crudeltà sarebbe deliziosa
se si potesse trovare qualche tipo di crudeltà
che non facesse veramente male

George Bernard Shaw







Anatema




Quel giorno d’inizio giugno c’era fermento alla Jefferson High School. Per gli studenti dell’ultimo anno era tempo di esami e conveniva farsi trovare preparati.
Dave lo sapeva bene, infatti conosceva il secchione che faceva al caso suo.
“Fammi indovinare, Dave… Vuoi che ti faccia ripetizioni di matematica” Esordì Bobby, sfoggiando il suo solito, fastidioso, sorrisetto da chi la sa più lunga degli altri.
E Dave avrebbe davvero voluto dirgli quel che pensava di lui, che se non fosse stato un genio dal Q.I. superiore alla media a quest’ora col cavolo che avrebbe voluto la compagnia di uno stronzo del suo calibro. Ma lo tenne per sé e sfoggiò il suo sorriso migliore.
“Magari anche di fisica”
Gli altri suoi amici se ne stavano in angolo e si capiva che anche loro avevano dovuto mendicare aiuto al brufoloso e occhialuto nerd. Ce l’avevano scritto in faccia.
Sam nascondeva la sua irritazione dietro un sopracciglio alzato e un ghigno di amara ilarità. Aveva il potere di buttarla sul cazzeggio anche quando si trattava di se stesso, da cinico navigato qual era.
L’altro era l’unico a mantenere l’espressione più spontanea possibile: sguardo confuso e sorriso appena accennato. Si trattava di Schwarzenegger, detto Schwarzy, al secolo Brian, ragazzone che non brillava per acume, quanto piuttosto per il suo fisico da culturista che scolpiva con diverse ore palestra al giorno.
Dave era il bello della scuola, il tombeur de femmes prossimo alla nomina di Re al ballo di fine anno.
“Einstein, se te la meni ancora un po’ diventi cieco” Sam decise di darci un taglio, per cominciare a parlare di ciò che gli premeva di più.
“Allora, gente, pronti per la carognata dell’anno?”
Sam era quello che doveva far ridere, proporre trovate divertenti, tirarti su la giornata con una battuta. Il buffone di corte.
“E questo è l’ultimo anno. Dobbiamo farne una coi fiocchi” Aggiunse, dando ad intendere già aveva programmato tutto nel dettaglio.
Ogni anno, verso la fine della scuola, organizzavano una bravata per sganasciarsi a danni di una o più persone.
“Sentiamo” Intervenne Dave, con scarso entusiasmo. Da un po’ di tempo giudicava Sam una squallida iena ridens, ma il gruppo seguiva in automatico le sue iniziative, quindi… come dice il saggio: segui il flusso.
“Dunque, per festeggiare la fine di questa disavventura chiamata scuola, ho pensato a qualcosa di bastardissimo per… Indovinate chi?”
“Spara, dai” lo esortò Bobby, piccato perché quel somaro deficiente adesso aveva tutta l’attenzione per sé.
“Ho pensato che la qui presente divinità della bellezza – indicando Dave, che cercò subito di sembrare meno preoccupato di quanto in realtà non fosse – potrebbe sedurre la racchia della scuola. Sapete di chi sto parlando, vero?”
Ci fu un breve silenzio-assenso, tutti sapevano a chi si stesse riferendo.
“E uscirci insieme per una sera. Quindi noi saltiamo fuori e ci godiamo la faccia della povera scema, che evidentemente aveva cominciato a credere nei miracoli. Allora? Che ne dite?”

Dave tornò a casa camminando molto lentamente. Aveva un bel po’ di cose sulle quali riflettere.
Non sapeva neanche da dove cominciare. Da quanto gli stava sui cosiddetti Sam? Ma che bella pensata, avrebbe dovuto esporsi in prima persona, così se quella ha un parente o amico grande e grosso, le botte toccheranno a lui! Scosse la testa. Già, per questo c’è Schwarzy…
E’ da un po’ che ci pensava su: la loro amicizia si basava solo sulla reciproca utilità. Bobby aiutava con lo studio, Sam animava le giornate, Schwarzy faceva da bodyguard e lui presentava ragazze, dava dritte su come fare colpo e cose del genere.
Dave era la faccia pulita del gruppo: se hai un bel visino e ti comporti da bravo ragazzo, sarai considerato un tipo affidabile; e il tuo gruppo con te. Non era la prima volta che lo mandavano avanti, come la ragazza che fa l’autostop mentre i suoi amici stanno nascosti, pronti a saltar fuori quando qualcuno si ferma.
Con la fine della scuola si sarebbero persi di vista per sempre, e a Dave la cosa faceva tutt’altro che dispiacere. Non teneva in particolare considerazione nessuno di loro – ok, aveva cazzeggiato, parlato di roba sporca, condiviso esperienze – ma non aveva mai sentito la necessità di confidarsi con loro a cuore aperto. Mai. Da uno come Sam ti puoi solo aspettare di essere deriso (perché Sam ride di TUTTO) e anche Bobby non ci scherza, con quel suo sentirsi superiore. Per quanto riguarda il culturista, non è che sia proprio stupido… diciamo ingenuo, un intelletto semplice.
Oltretutto, Dave cominciava ad essere stufo di andar dietro a tutte le bastardate di Sam. Certe sue battute non lo facevano più ridere, erano semplicemente troppo meschine.
La sopraggiunta maturità, che gli suggeriva ‘Non fare agli altri…’, cozzava con il pragmatismo del ‘Segui il flusso’. Aveva cominciato ad avvertire uno strisciante senso di colpa per essere andato dietro alle cattiverie della sua compagnia.
Sentiva la necessità di non prendervi più parte, anzi di dire apertamente che sono roba da ragazzini idioti e che il male che fai alla fine ti torna indietro con gli interessi.
Ma questo quanto gli sarebbe costato? Già si immaginava i commenti (di Sam, con la partecipazione di Bobby. Schwarzy non era capace di dire frasi divertenti, si limitava a ridere come un ebete per quelle degli altri): ‘Oh, no! Dave è posseduto da un’entità sfigata! Esci da questo corpo, ridacci il vecchio Dave!!’.
No. Ormai le cose avevano preso una determinata piega. Troppo complicato cambiare atteggiamento, sentire i giudizi di chi ti conosce… Per di più, rischiava di vedersi negare l’aiuto di Sam per gli esami.
La maturità poteva attendere la fine della scuola.
Così adesso gli toccava colpire un caso umano che la natura e il destino avevano già conciato per le feste: Mallory Blake.

Di primo acchito, alla vista di Mallory avresti detto che la sua pecca capitale era la trascuratezza, dato che brutti si nasce e non può essere una colpa.
Avrebbe potuto almeno pettinarsi la sua liscia chioma nera, che invece teneva sciolta e arruffata e a volte raccoglieva in una coda, quando i capelli erano unti di sebo perché non faceva lo shampoo da una settimana. E che dire delle sopracciglia? Un unico sopracciglio, a dire il vero. Per non parlare del fisico, magro a livelli di anoressia, il volto soprattutto, un teschio dai lineamenti marcati. E le rughe e le occhiaie intorno agli stretti e affilati occhi neri tenuti sempre semichiusi, da sembrare una morta di sonno. E le unghia mangiucchiate, e l’abbigliamento trasandato, e il portamento poco femminile…
E un milione di altre cose.
Ma appena apriva bocca… Ah, vita ingrata!
Aveva la ba-bababa-baaaaalbuzie!!
La natura non sembrava aver controbilanciato in alcun modo: non era una nerd, un Bobby versione femminile. Nei compiti scritti era poco sopra la sufficienza, mentre nelle interrogazioni, beh, finiva sempre con i prof. che terminano la risposta per lei, anche se negli ultimi tempi usavano l’escamotage di farla rispondere per iscritto; così i suoi voti erano un po’ migliorati.
Dave aveva sentito parlottare le solite ochette a proposito del fatto che vivesse con gli zii e che avesse cambiato ben cinque scuole dalle elementari in poi, tanto che il preside della Jefferson aveva cercato di informarsi se fosse o no un pessimo elemento.
Mallory Blake era derisa e insultata da tutti, incapace di rispondere alle provocazioni se non mettendosi a piangere e a urlare, venendo per giunta rimproverata in un’occasione da un’insegnante perché ‘Nei corridoi non si urla’; una paria che nemmeno il sistema (che alla Jefferson non era molto evoluto, da questo punto di vista) sapeva o voleva difendere.
E adesso Dave si sarebbe dovuto unire alla massa, fare il bastardo perché così aveva deciso la comitiva…
Al diavolo, questa sarebbe stata l’ultima, maledettissima, volta in vita sua.

Avvicinarla fu di per sé un’impresa. Una così poteva tranquillamente aspettarsi che un qualsiasi ragazzo le facesse proposte solo per farsi quattro risate, figurarsi se a farle è il più figo della scuola. Dave si era preparato a superare se stesso nella complessa arte dell’ammaliatore, che tanto successo gli aveva fatto riscuotere tra i suoi simili. Contenere eventuali fughe di risa per la situazione quanto mai insulsa, primo, non far caso al mondo circostante che sta cominciando a prenderti per pazzo, secondo.
Cercò di catturarne lo sguardo più volte, inutilmente: Mallory camminava sempre guardandosi i piedi e questo spiegava il suo continuo andar a sbattere contro cose o persone, nonché la leggera cifosi.
Alla fine la individuò nel punto più remoto e isolato dei giardini della scuola, dove era solita rifugiarsi in solitudine nelle ore di pausa. Malgrado l’incedere tranquillo e il sorriso rassicurante, la prima cosa che fece la ragazza fu tentare di allontanarsi il più in fretta possibile, perché quello era David Simmons, proprietà esclusiva delle ragazze più popolari.
Lui si chiedeva dove stesse sbagliando nel suo approccio, mentre tentava di chiamarla e di andarle dietro, senza sapere che Mallory non era poi tanto diversa dalle sue coetanee e anche lei era sensibile al suo fascino. Si sentiva morire alla sola idea di balbettargli in faccia, o di mostrargli il suo viso paonazzo.
Trovandosi la rete di cinta a sbarrarle la strada, Mallory si voltò e squadrò terrorizzata il suo inseguitore. E si accorse che avanzava sorridente, un bocciolo di rosa teso verso di lei in una mano.

Quella sera, a casa di Schwarzy, furono risate a crepapelle. Dave raccontò con dovizia di particolari la faccia allibita della latrina alla vista del fiore, le sue lacrimucce alla proposta di uscire insieme. Mentre quelli si sganasciavano, dal suo tono supponente non sembrava trasparire nulla di quel sottile senso di colpa che gli aveva attanagliato lo stomaco poche ore prima, e che adesso si era rifugiato nei meandri della sua coscienza.
I suoi occhi che luccicano. La gioia. La speranza.
Con la noncuranza di chi può dire ‘Ordinaria amministrazione’, terminò riferendo che si erano scambiati i rispettivi numeri di cellulare e che lei ci stava, ma per l’appuntamento doveva prima
“…chiedere il permesso a zio Frank e a zia Vera”.
La teatrale conclusione del suo intervento suscitò l’ennesimo coro di risa, il più forte.
Brindarono con lattine di birra al posto dei calici, spassandosela alla salute del grande Dave. Il quale non se la spassava affatto.

Il giorno dopo il suo cellulare squillò. Mallory gli annunciava in lacrime che, no, non potevano uscire, i suoi zii non le davano il permesso. A Dave sembrò un segno divino: fine del piano, fine della carognata, fine dei sensi di colpa, fine…
Fine della tua fama di conquistatore a colpo sicuro.
Erano sessantaquattro le ragazze con cui ci aveva provato, e sessantaquattro le volte in cui aveva fatto centro.
E la sessantacinquesima rispose picche.
Sarebbe stato forse questo il commento più tenero di Sam? Probabilmente, considerato quanto lui e gli altri si stessero leccando i baffi per questa storia. Maledetto imbecille, lui e le sue brillanti idee!
Richiamò Mallory.

Non sapeva se sperare che la sua soluzione funzionasse o facesse fiasco. Ma alla fine, per fortuna o purtroppo, funzionò.
Gli zii della ragazza accettarono di incontrarlo di persona, a pranzo, a casa loro.
In che cavolo di casino s’era andato a cacciare!? Andare a casa di una tizia che poi avrebbe dovuto umiliare. Non era ancora detta l’ultima parola, nossignore… poteva ancora sperare che i suoi parenti fossero la causa principale delle disgrazie di Mallory, ovvero due bigotti acidi che la volevano vedere suora, ovvero due che l’hanno già bollato come un maniaco sessuale e lo hanno invitato solo per dirglielo in faccia. Oppure poteva dare una cattiva impressione di proposito, grattandosi le palle prima di stringer loro la mano, ruttando a tavola…
Dave sfoggiò il suo irresistibile sorriso da bravo ragazzo, al quale la zia Vera capitolò praticamente subito. Era una donna esile, dallo stile classico e un’acconciatura molto anni Trenta. Lo zio Frank, un ometto dai simpatici baffi cespugliosi, lo accolse con calore.
La casa sapeva tanto di gente con una certa cultura, come dimostravano le numerose librerie cariche di volumi in salotto e nei corridoi. Qua e là, sparse tra i soprammobili, cornicette d’argento mostravano istantanee di momenti di vita e una notevole quantità di ritratti aveva per protagonista una graziosa bambina dai capelli neri. Dave rimase immobile davanti alla foto della bambina, immortalata mentre leggeva da una pergamena.
“Quella è Mallory a sette anni – intervenne la zia Vera – stava leggendo la poesia di fine anno ai tempi delle elementari”
Cosa? E da quando in qua una con la balbuzie può leggere ad alta voce, sul palco, davanti al microfono e a decine di persone?!
Le altre foto non erano tanto diverse. Mallory felice con le amichette, al suo compleanno, mentre scarta i regali di Natale…
Nella testa di Dave prese forma un pensiero tanto logico quanto inquietante. Ma che diavolo mi raccontano? Non può essere lei quella bambina… Come cavolo ha fatto a ridursi così?
Non c’era traccia di ritratti con i suoi genitori (e lui non aveva nessuna intenzione di chiedere che fine avessero fatto) e le foto, disposte in ordine cronologico, mostravano una Mallory che cresceva. E peggiorava.
Già a undici anni sembrava meno serena, la colpa di un volto così smunto non poteva essere addebitata alla pubertà, la bocca sorrideva senza più mostrare i denti. Gli anni delle medie la vedevano peggiorare ancora: sempre meno serene le sue espressioni, sempre meno amiche alle sue feste. Per i suoi quindici anni c’erano solo lei e gli zii in posa dietro la torta, e la faccia era più o meno quella con cui approderà all’inferno delle superiori. Dave non si stupì affatto nel notare che per i sedici, i diciassette e i diciotto anni le uniche foto fossero quelle di tristissimi compleanni in compagnia della sua sparuta famiglia.
I pensieri gli si sovrapponevano freneticamente, tentando di dare una spiegazione a quella cronaca per immagini di un tale deterioramento psicofisico. Dave era talmente imbambolato che, quando la zia Vera lo chiamò per il pranzo, ebbe un sussulto.
La cosa peggiore era Mallory. Dietro di lui, lo aveva osservato mentre esaminava concentrato le sue foto, e adesso lo guardava con gli occhi sgranati. Due pozzi nero pece, solitamente nascosti dalle palpebre semichiuse e dalle lunghissime ciglia.
Dave rabbrividì. Da uno popolare non ti aspetti certo che si metta a guardare con interesse le foto di quand’eri piccola.
Ti prego, fa che non mi si legga in faccia…!
Distese i lineamenti in un sorriso.
“Sei venuta veramente bene in queste foto, sai?” Salvo per un pelo.
La ragazza abbassò la testa affinché i capelli, pettinati e tenuti indietro da un fermaglio, le coprissero almeno buona parte del viso.
“Gra…eh…gra… gra-zie”

Tutto quel che seguì fu per Dave automatico. Ingraziarsi persone, risultare affidabile, erano da sempre sue prerogative.
Come da copione, fu il capofamiglia a guidare la conversazione a tavola, tenendo un monologo sull’umanità e la sua miseria morale.
Argomenti che non fossero moto, auto, sport o donne solitamente facevano sì che la mente di Dave volasse verso altri lidi, lasciando al suo interlocutore un faccino finto interessato che ogni tanto annuiva con cenno del capo. Ma questa volta non accadde.
Per sua sfortuna, perché l’avvilente senso di colpa era cresciuto e gli stava impedendo di gustare il delizioso arrosto della zia Vera.
Quell’uomo, che sembrava aver preso lezioni di oratoria da Gandhi in persona, continuava a insistere su come la violenza verbale non fosse affatto diversa da quella fisica.
“Se non siamo capaci di frenare le parole, come pretendiamo di dominarci nelle azioni?”
Si soffermava sulla condizione di chi subisce un torto, morale o fisico, su come questi fosse candidato alla vendetta verso i propri persecutori o verso altri, e su come ciò non facesse altro che permettere alla violenza di dilagare.
“Certo, se taluni evitassero di fare del male, non ci sarebbero nemmeno vittime inferocite” Intervenne Vera, che non era mai stata troppo d’accordo con le tesi non-violente del marito.
“Di questo abbiamo parlato spesso, cara… David non lo sa, ma io e mia moglie dibattiamo animatamente su certe questioni, specialmente quando ci riguardano da vicino…” Il tono di Frank sembrò affievolirsi, come se si fosse reso conto di aver imboccato il sentiero sbagliato.
Frattanto, Mallory aveva abbassato gli occhi sul piatto.
“Sì, ma io parlo di chi offende, deride… Era di questo che discutevi poco fa. Se uno fa del male fisicamente va in galera e viene biasimato dalla collettività, ma il cinismo… Santo cielo, è considerato una dote eccezionale, ti porta in TV, ti rende famoso! Con buona pace di chi ne soffre. La gente si diverte ad essere crudele”
“La crudeltà sarebbe deliziosa se si potesse trovare qualche tipo di crudeltà che non facesse veramente male – chiosò Frank – devo dartene atto, Vera: l’umanità ha bisogno di sfoghi violenti, ma la violenza delle azioni va contro ogni principio di conservazione, pertanto viene condannata. La violenza delle parole è considerata un ottimo palliativo, a mio avviso non meno dannoso”
Seguì un attimo di silenzio imbarazzato. Vera aveva l’espressione crucciata di chi ha appena detto una cosa che teneva in pancia da tempo, mentre Mallory seguitava a guardare immobile il suo pranzo che si raffreddava. Frank aveva lo sguardo perso, le considerazioni della moglie avevano innescato in lui un’amara riflessione.
Nessuno guardò Dave e fu la sua fortuna. In quei momenti il suo sorriso era più una paresi e l’angolo del labbro superiore gli s’era sollevato in segno di disgusto, un’espressione quasi comica. Si sentiva come l’imputato alla sbarra, con lo zio nella veste del giudice, la zia che faceva il pubblico ministero e, ovviamente, Mallory la vittima. Niente avvocato per lui.
Questi sanno tutto! Leggono il pensiero. Sanno dello scherzo e me lo stanno facendo capire così! Bastardi!!
Per un attimo lo pensò davvero. C’erano troppe cose che non andavano, a cominciare dallo zio che faceva un simile discorso senza annoiarlo, e la convinzione fu così forte da procurargli quasi il terrore.
Un colpo di tosse di Frank riportò l’atmosfera a livelli sostenibili.
“Vera, tesoro, siamo in trepida attesa del contorno! Vedrai che il nostro ospite non saprà resistere alle tue patate al forno”
La donna riprese il piglio amabile di sempre e si alzò.
“David… Ti senti bene? – chiese la donna, dopo aver gettato uno sguardo al ragazzo – Sei così pallido”

La sera stessa. Buono per togliersi il pensiero, no? No. Non se poche ore prima hai visto in Frank il padre che non hai mai avuto, non se c’è mancato poco che ti confessassi di fronte a persone talmente umane da non sembrare nemmeno reali. O, almeno, non appartenenti alla tua realtà: solo paraculi e sciacquette per David Simmons.
Così adesso si ritrovava alla guida della sua auto, con Mallory accanto a lui, verso un qualcosa che avrebbe disgustato entrambi. Soprattutto lei. La zia le aveva pettinato di nuovo i capelli, sciolti e laccati, e le aveva concesso un leggero maquillage; indossava un vestito azzurro che la faceva leggermente meno verginella innocente di quello bianco sfoggiato a pranzo.
Pizzeria Ciro’s, poi a casa per le dieci.
Nel pomeriggio aveva chiamato Sam (quanta fatica aveva fatto per selezionare il suo numero in rubrica, dover ascoltare la sua voce dopo il pranzo a casa Blake gli dava la nausea), informandolo su luogo e ora e ricevendo da lui le indicazioni sul da farsi.
Entrarono nel locale alle sette in punto. Dave non li vide, ma sapeva che erano appostati da qualche parte, là fuori.
Il numero di avventori non era eccessivo, ma in TV c’era la partita e le prenotazioni per le pizze a domicilio fioccavano. Ci sarebbe stato tutto il tempo di star seduti ad aspettare, prima che il cameriere venisse a prendere le ordinazioni (Dave voleva evitare almeno di dover pagare due pizze per una serata persa).
Come da programma, aveva scelto un tavolo per due e fatto accomodare Mallory in modo che desse le spalle all’ingresso del locale. Dave le sedeva di fronte.
Sembrava felice, le sottilissime labbra erano tese al massimo nel sorriso migliore che le riuscisse (da tanto non ne faceva uno così) e anche gli occhi sembravano più aperti e luminosi del solito.
Dai, sbrigatevi e facciamola finita!
Li vide entrare.
Si irrigidì impercettibilmente e la sua espressione s’incupì.
Bobby e Schwarzy gli si affiancarono, ghignando. Il nerd impugnava una fotocamera digitale.
“Ciao, siamo gli amici del tuo fidanzato”
Mentre Mallory spostava lo sguardo tra Dave e quei due, dando segno di non capire, dietro di lei si materializzò Sam. Le rovesciò un bicchierone di frullato alla banana sulla scriminatura dei capelli.
La ragazza cacciò un gridolino spaurito, mentre i primi rivoli bianchi scendevano lungo i capelli puliti, ma non poteva muoversi: Sam le teneva il bicchierone piantato in testa, se avesse mollato il contenuto si sarebbe versato del tutto.
Partì il primo flash.
Quindi Sam sollevò il bicchierone come un secchiello da mare quando si fa un castello di sabbia. Solo che al posto della sabbia bagnata c’era frullato, che si versò interamente sulla testa della ragazza, inondandole i capelli e parte del viso fino al collo.
Partì il secondo flash.
Mallory si alzò, rovesciando la sedia. Puntò gli occhi spalancati e pieni di pena su quello che aveva creduto essere il suo cavaliere. Dave si teneva la faccia con una mano, nascondendo la sua mortificazione. Ma poi, Sam fece una battuta - roba che alla fine di quella serata non avrebbe nemmeno ricordato - che gli diede lo stimolo a metterci del suo. C’erano anche i suoi complici e lui doveva partecipare. Prese a ridere in modo forzato, alzando la voce per calcare e dare credibilità ad un’espressione del tutto innaturale.
Gli occhi di Mallory si spalancarono ancora di più, se possibile, e la pena lasciò spazio ad un odio fondo.
“Stronzo! Pezzo di merda! Stronzo!” Urlò d’un fiato e senza balbettare.
“A-ah! Signori, questa è la prova che incazzarsi ogni tanto fa bene. Vedete? Ha guarito questa fanciulla dalla balbuzie!”
Mallory si girò verso Sam. Era ancora vicino a lei e alternava risate ad uscite da cabaret.
“Coglione! Deficiente inutile! Decerebrato senza futuro!!”
Un terzo flash che la immortalava col dito puntato verso Sam la fece voltare. Il ghigno di Bobby la irrideva da dietro la fotocamera.
“Testa di cazzo! Testa di cazzo! Testa di cazzo! Testa di cazzo!”
“Testa di cazzo, testa di cazzo…” Schwarzy aveva preso a fare il verso a quel disco rotto.
Lo sguardo nero e furente di Mallory si piantò su di lui.
“Tu! Non sei un uomo… Sei un coniglio!!!”
Il sorriso del ragazzone morì sul colpo.
“Hai capito? Coniglio!!”
Cosa? Cosa!? Lui era forte e coraggioso, aiutava le ragazze (le vere ragazze) pure quando non arrivavano a prendere gli oggetti troppo in alto, potava il prato della sua anziana vicina (anche se non lo avrebbe mai detto ai suoi amici). Andava fiero della sua forza e dei suoi muscoli, davano senso alla sua vita. Come si permetteva quel rifiuto umano di dargli del…
“CONIGLIO!!!”
Ora non rideva più nessuno. La faccia di Schwarzy, dopo un momentaneo stupore, parlava da sola. E diceva ‘Omicidio’.
“Io ti ammazzo, schifosa cagna!!”
Si avventarono tutti e tre su di lui, riuscendo a stento ad impedirne l’avanzata verso Mallory che, dal canto suo, non accennava a muoversi.
“Coniglio! Coniglio! Coniglio!”
Schwarzy ruggì di rabbia. Avrebbe picchiato chiunque, anche una donna, se questa avesse messo in dubbio la sua virilità.
Frattanto, il proprietario del locale inveiva contro di loro, dichiarandosi pronto a chiamare la polizia, tra gli avventori qualcuno rideva, qualcuno allibiva, qualcuno andava via.
Mentre tratteneva il possente amico, Bobby si rivolse a Mallory, che non cedeva di un passo e continuava a ripetere ‘Coniglio’ all’infinito.
“E su, piantala! Fila via, che è meglio!”
Lei cessò l’invettiva. Li squadrò tutti ancora per un secondo, con intensa severità, e trasse un profondo e silenzioso sospiro. Poi si voltò e uscì dal locale con passo solenne, tappezzando il suo sentiero delle gocce bianche che stillavano dalla sua chioma impastata.

La serata non era finita come auspicato. Schwarzy era rincasato con le palle che fumavano, lasciando la sua compagnia a maledirlo tra i denti.
“Ma tu guarda che razza di idiota… Ed è arrivata pure la polizia. Questo significa non farsi più vedere da Ciro’s, salvo plastiche facciali” Bobby terminò la considerazione con l’ennesima sorsata di birra.
Sam era messo peggio. Lui non si mostrava mai irritato, no, perché ciò significava scoprirsi, lasciar intravedere che tieni a qualcosa. E che hai un punto debole. Ma ciò non significava che non fosse capace di incazzarsi con tutti gli annessi e connessi. Evitava per il momento di far battute che certamente sarebbero state condivise dagli altri, perché l’amaro in bocca gliele avrebbe fatte suonare come malcelati piagnistei. Si limitava a fissare il cielo stellato, inumidendosi ogni tanto le labbra con la lingua.
L’ultimo scherzo dell’anno. Rovinato. L’ultima occasione di puro divertimento prima di entrare nella pallosa vita adulta. Persa. Questa sera si doveva ridere e basta. E invece no, perchè mister Sono-duro-fuori-e-fragile-dentro-quindi-stai-attenta-a-come-parli era stato ferito nel suo orgoglio! E allora che cavolo ci partecipi alle carognate, se sei così facile all’offesa! Te lo devi aspettare che la vittima ti prenda a male parole, dannazione! La regola aurea è buttarla a ridere sempre, ribaltare le parole a tuo favore, non prendersi mai sul serio…
Questo era vero quanto il fatto che si sarebbe lanciato nella carriera di comico-presentatore che prende tutti per il culo, se la fortuna lo avesse aiutato. Uno spettacolo su misura per lui, che fa la carogna su tutto e tutti, amato e odiato, polemiche sulle sue uscite ma ascolti alle stelle…
“Bene. A quanto pare, il caro Schwarzy ha un cuore di burro da far venire il colesterolo al Terzo Mondo” Sam si era ripreso abbastanza da poter chiudere la serata a modo suo.
“Mi domando – intervenne Bobby – chissà quante volte avrebbe potuto reagire così… Per sfortuna è stata proprio l’ultima. A saperlo prima, non lo si sarebbe coinvolto: le persone reagiscono male agli scherzi pesanti, è la loro unica rivincita, e se lui non è disposto ad accettarla…”
Sam annuì. Sì, maledizione, a saperlo prima! Ma l’avrebbe pagata. L’invettiva di quel pisciatoio di donna lo aveva offeso? Ci avrebbe pensato lui a fargli comprendere il significato del termine Offesa. Nessuna opzione era esclusa: la colla dentro le scarpe nella palestra della scuola… Colla? Facciamo lamette! Anzi, lamette e polvere urticante nella tuta. Lassativo nelle sue fottute bevande energetiche.
Ti faccio frignare come una mammoletta davanti a tutta la scuola, cazzo!
Mentre Sam rimuginava come far finire l’anno in bellezza a Schwarzy, Dave se ne stava seduto sul marciapiede a fissare la strada, tentando di affogare nella birra tutta l’amarezza che aveva in corpo. Inutilmente. Non si era mai sentito peggio in vita sua. Ora come ora avrebbe potuto prendersi a pugni da solo. Si odiava.
“…le persone reagiscono male agli scherzi pesanti, è la loro unica rivincita…” Una parte del discorso di Bobby lo colse quasi di proposito.
Già, rivincita. Una come Mallory probabilmente poteva solo sperare nella giustizia divina.

La settimana successiva trascorse come se niente fosse accaduto. O quasi. Tutta la scuola aveva saputo dello scherzo e Dave aveva sperato che qualche ragazza gli desse del bastardo in pubblico, avrebbe giovato alla sua coscienza; ma evidentemente anni di battaglie femministe annichiliscono di fronte ad un bel paio di occhi azzurri. Nessuna lo guardò meno sdolcinatamente del solito e chiunque avesse qualcosa da ridire, lo tenne per sé.
Era tutto nella norma, salvo il fatto che Schwarzy non si presentò a scuola per l’intera settimana. Alcuni insegnanti interpellarono gli altri tre per saperne qualcosa, o almeno per mandagli a dire che saltare le lezioni di fine anno può costare molto caro a uno che dedica più tempo ai muscoli che allo studio.
“Qualcuno ha sentito il gigante? L’ultima volta che l’ho visto è stato quella sera” Bobby preferì non infierire in presenza di Sam.
“Potresti darcela tu la soluzione, genio. Se il tempo necessario a guarire le ferite all’orgoglio è direttamente proporzionale all’ego del soggetto… Pensi che ce la farà per l’anno prossimo?” Fondamentalmente, a Sam premeva solo vendicarsi del bestione.
Bobby rise, fingendo di seguire il ragionamento.
“Non lo so. Ci sono delle variabili di cui tener conto, ad esempio la suscettibilità di Terminator…”
“Sabato passiamo da lui e ci togliamo il pensiero”
Dave tagliò corto a quella discussione idiota.

Sabato mattina erano davanti casa di Schwarzy. Il cellulare era spento e il telefono di casa squillava a vuoto, così come il campanello della porta.
“Che facciamo? Non è in casa” Bobby guardò gli altri, perplesso. Pareva scomparso, la scuola aveva provato a contattare pure la palestra dove andava a scolpirsi i muscoli, sentendosi rispondere che non lo vedevano da circa una settimana.
Dave guardò la finestra che dava sul soggiorno al piano terra, poi si rivolse agli altri.
“Proviamo ad entrare in casa, la finestra è aperta”
“Ma sei scemo? Hai presente il reato ‘Violazione di domicilio’?”
“E se per caso s’è sentito male in casa? Sempre meglio che telefonare a sua madre, le verrebbe un colpo se manco lei sa dov’è. Se qualche sbirro ci vede, pure i vicini potranno dire che siamo suoi amici, non vedo il problema” Dave sfidò con lo sguardo Sam ad avere qualcosa da ridire.
Era deciso. Intrufolatisi nell’abitazione del loro nerboruto compare, la prima cosa che li colpì fu l’odore di cibo andato a male proveniente dalla cucina. Sapevano che Schwarzy viveva solo per sei mesi l’anno, ma ciò non significava che sapesse mandare avanti la baracca da sé; anche se avrebbero giurato che i suoi pesi e attrezzi ginnici vari brillassero a specchio. Ma sarebbe tornato tutto in ordine prima del ritorno di mammina. Quella donna lo aveva dovuto tirare su da sola, dato che il padre se l’era squagliata dopo averla ingravidata sul ribaltabile della sua auto, e il lavoro più remunerativo che aveva trovato era con sede distaccata. Schwarzy avrebbe distrutto il mondo per lei.
S’incamminarono verso camera sua a colpo sicuro. Conoscevano fin troppo bene quella casa che, per ovvie ragioni, era la sede privilegiata dei loro incontri. Il piano era controllare ogni stanza e poi, se non lo si trovava, lasciargli un biglietto con su scritto ‘Amico, se non ti presenti alle lezioni di fine anno, neanche l’Onnipotente potrà salvarti dalla bocciatura’.
Ma quando Bobby provò ad aprire la porta della camera da letto, la trovò chiusa a chiave.
“Ehi… Schwarzy, sei lì dentro?” Chiese, bussando.
Sam bussò a sua volta, componendo sulla porta un allegro motivetto.
“Dai, Terminator, il lutto è finito! Torna tra noi!”
Da dentro non arrivava alcun rumore. Dave non condivideva affatto il tono spigliato degli altri due e chiamò ad alta voce l’amico, battendo con forza il palmo della mano sul legno della porta. Stava quasi per proporre di buttarla giù, quando da dentro giunse una specie di piagnucolio.
“Andate via!”
“Ehi, fratello, va tutto bene?”
“Schwarzy…?”
Altri leggeri TOC TOC alla porta.
“Per favore… Lasciatemi in pace!”
Quelli si guardarono in faccia, interdetti. Poi fu Dave a prendere l’iniziativa.
“Ascolta, Schwarzenegger, se hai un problema siamo qui per aiutarti. Volevamo dirti che i prof vogliono la tua testa, quindi se non vieni a scuola…” Da dentro arrivarono i singhiozzi di un pianto.
“Ma che hai, Schwarzy? Che diavolo ti prende…?”
“HO DETTO ANDATEVENE, O VI AMMAZZO!!”
Il tono rabbioso li fece indietreggiare automaticamente. Sam fece il gesto di levare le tende. Non se la sarebbero cavata contro quel bestione, neanche tre contro uno, soprattutto se era in stato di alterazione.
Non dissero più nulla, neanche un ‘Sai dove trovarci’, e uscirono da dov’erano entrati.
“Secondo voi cos’aveva? – chiese Bobby, una volta fuori – Potrebbe essere qualcosa di brutto… Droga?”
“Ma va! Per uno come lui la salute viene prima di sua madre”
“Sì ma… Doping? Steroidi?” Insistette Bobby.
E mentre lui e Sam avviavano una discussione scherzosa, Dave guardava il cielo terso, avvertendo un vago senso di inquietudine misto a malinconia.

Domenica mattina se ne stava spaparanzato sul divano a guardare l’NBA trangugiando popcorn, più depresso che mai. Aveva pensato che una bella scopata gli avrebbe tirato su il morale, ma per qualche strana ragione Janice, la più disponibile delle sue conquiste, s’era fatta venire un malore all’ultimo minuto. Diavolo, era chiaro che se l’era inventato, al telefono pochi minuti prima era pimpante! Poi lui è arrivato da lei e ‘Oddio, Dave, scusa… ho un po’ di nausea’. E addio scopata.
Sua madre rientrò da lavoro verso mezzogiorno. Faceva shampoo e messa in piega in un salone per acconciature e il suo unico giorno libero era il lunedì. Era vestita come una quattordicenne scema, con cerchioni di plastica fucsia per orecchini, minigonna e borsa zainetto a forma di pupazzo. Non poteva biasimare suo padre per averla lasciata, tuttavia ringraziava di non esser stato affidato a lui, perché non conveniva a nessuno avere per padre un marine. Adesso era di stanza a Pearl Harbor e non si scambiavano alcun contatto al di fuori degli assegni mensili per lui e sua madre.
“Io l’ammazzo, quella lurida scrofa! Come va Davey, tesoro?” Domanda puramente retorica, da parte di una cui non è mai importato neanche del suo rendimento scolastico.
“Ma tu guarda… Davey, come fai a mangiare popcorn con questo odore? E’ di nuovo la fossa biologica di quella negra qui di fianco!” Si riferiva alla loro vicina di casa, una cicciona afro che aveva sfornato cinque marmocchi con uno attualmente ospite delle patrie galere. Lei e i figli vivevano del sussidio statale, ma ovviamente avevano parecchie gatte da pelare sul piano economico. Giusto pochi mesi prima, un guasto alla fossa biologica aveva trasformato il loro incolto giardino in una palude maleodorante ed era intervenuto l’Ufficio Igiene.
“Sono tre giorni che sento puzza di merda in casa. Ieri le ho cantate a lei e a quella cretinetta della figlia più grande”
Si tolse di bocca la gomma che aveva ruminato dal primo mattino e la ripose in un posacenere, poi aprì la porta d’ingresso. Dave poteva solo immaginare cosa intendesse sua madre per ‘cantarle’. Tra lei e la grassona sarà scoppiato un casino segnalato pure dai sismografi.
“Vieni a vedere, tesoro. Guarda che razza di porcile!”
Il ragazzo la accontentò, pensando già a come tamponare una situazione che poteva portare all’ospedale e/o in tribunale la sua querula mamma.
Il giardino dei vicini versava nel solito, pietoso, stato, con ciarpame vario accatastato ovunque (in barba alle leggi comunali) e l’erba così alta da poterci nascondere un elefante. E l’odore…
Dave inspirò forte, per sentirlo meglio, ma la colonna di fumo che si levava due isolati più in là gli diede una risposta che non ammetteva replica.
“Resta ferma qui, mà!”
E si lanciò di corsa in direzione del fumo. Lui sapeva bene chi abitava da quelle parti.

“Siamo davanti l’abitazione dove si è consumata la tragedia. Secondo gli inquirenti non ci sarebbero dubbi sulle cause dell’incendio che ha parzialmente distrutto l’abitazione della famiglia Robson: il rogo avrebbe avuto origine dal corpo carbonizzato rinvenuto in cucina, che con ogni probabilità appartiene a Brian Robson, studente delle superiori. Restano da chiarire le dinamiche dei fatti, ma tutto lascia supporre al suicidio. Il ragazzo non si presentava a scuola da una settimana.
Per ora è tutto, vi terremo aggiornati”
Il cronista passò il microfono all’assistente e andò prendersi un caffè, mentre il cameraman effettuava riprese dell’abitazione semi-incenerita da più angolazioni, per confezionare il servizio d’apertura della TV locale.
La sera successiva mezza città era riunita a casa di un’amica della madre di Schwarzy, che si era messa a disposizione per ospitarla. La povera donna, tornata col primo aereo da Washington, sembrava non sentire le manifestazioni di cordoglio che le venivano rivolte, seguitando a mantenere uno sguardo perso e a ripetere ‘No… Nooo!’ come una litania.
Il corpo di suo figlio era in obitorio per accertamenti. Impossibilitata ad effettuare il riconoscimento, prelevare DNA o impronte digitali, la scientifica aveva optato per il calco dei denti.
Dave stava seduto in disparte, confortato solo dal fatto che sua madre si fosse presentata in abiti decenti (nei quali appariva in vistoso imbarazzo). Aveva temuto di vederla entrare con indosso qualche cazzatina di Hello Kitty.
Accanto a lui, Bobby, silenzioso e meditabondo.
Un mare di pensieri affollavano la mente di Dave. La follia di quell’ultima settimana, durante la quale era successo di tutto, e niente del suddetto tutto era stato meno che orribile.
Dopo lo scherzo a Mallory, aveva pensato ‘Questa è la volta buona, la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso’; aveva temuto che la facesse finita, già si preparava ai sensi colpa a vita.
E invece a compiere l’insano gesto era stato Schwarzy. Perché? Avrebbero potuto fare qualcosa per lui? Chi lo sa. Da dietro quella porta, due giorni prima, non sembrava neanche lui. Col senno di poi, le poche parole che aveva pronunciato piangendo erano già il segno che qualcosa non andava.
Ad un tratto, un pensiero malandrino lo fece sorridere amaramente.
Guarda, Mallory. Sembra proprio che adesso tocchi a noi prenderle. Alla fine, la sfortuna è una ruota che gira più onestamente della fortuna.
“Hai sentito Sam?” La domanda di Bobby lo riportò di peso alla realtà.
“No” Già, dov’era quel babbeo? Forse passare a dire ‘Condoglianze’, anche con la faccia da culo, gli costava troppa fatica…
Colto da una rabbia feroce, prese il cellulare con l’intenzione di richiamare il coglione ad un minimo di buona creanza.
Sennonché dopo diversi squilli, rispose una voce matura.
“Tu sei suo amico…? Io sono lo zio… Sei seduto?”

Giunsero all’ospedale con la macchina di Bobby, ma guidò Dave. Il nerd pareva connettere a mala pena con la realtà.
Il padre se ne stava seduto su una sedia appena fuori la stanza dove era ricoverato suo figlio, tenendo la testa china tra le mani. La madre era in lacrime al suo capezzale.
Il letto era stato rialzato in modo da farlo stare quasi seduto. Così, la prima cosa che videro entrando, furono gli occhi vacui di Sam. Immobile. Nessuna espressione sul suo volto, solo quegli occhi sgranati a scrutare il nulla. La pelle del viso bianco-giallastra.
“E’ così da stamattina. Sua madre è andata a svegliarlo per la colazione e l’ha trovato in questo stato” A parlare fu lo zio che aveva risposto al cellulare.
I due rimasero immobili, l’unico suono era il pianto sommesso della madre di Sam. Poi Dave si riscosse e trascinò Bobby fuori dalla stanza. Mentre il cervellone si metteva seduto vicino ai parenti di Sam, Dave trovò più delicato chiedere delucidazioni ad un medico. La risposta fu: stato catatonico persistente.
Nel frattempo arrivarono i risultati degli esami a cui avevano lavorato tutto il giorno due specialisti. Il referto parlava di demenza cronica, drastica riduzione dell’attività celebrale dovuta all’inspiegabile distruzione di una notevole quantità di neuroni, aprassia, eccetera eccetera. In pratica, Sam era più morto che vivo, condannato a vegetare a vita.
La madre si mise a urlare e afferrò un dottore, non si capisce se per obbligarlo a dare una parola di speranza o se per evitare di collassare a terra, mentre il marito e i parenti si stringevano intorno a lei e cercavano di calmarla. Dave si allontanò da quello strazio; voleva solo prendere Bobby e lasciare quella valle di lacrime. Ma si accorse che il nerd era rientrato nella camera e se ne stava nuovamente immobile a fissare Sam. Gli venne la pelle d’oca. Ma come può star lì a guardalo? Lui non ci pensava nemmeno a vederlo di nuovo, neanche per un secondo.
Che ti prende, genio? Lo trovi uno spettacolo interessante?
Provò a chiamarlo sottovoce, ma quello non si mosse. Si costrinse quindi ad entrare per portarlo via, tenendo lo sguardo ben lontano dal letto. Sotto la luce intensa del neon, Bobby pareva come ipnotizzato dal volto di Sam; fissava il rivolo di saliva che gli scendeva dall’angolo della bocca. Gli occhi sembravano vitrei dietro le lenti graduate. La faccia butterata da un’acne devastante era arrossata e ricoperta da piccoli tagli, segno di una rasatura eccessiva.
Dave fu colto per un attimo dal panico. In quel momento Bobby era troppo simile a Sam.
Lo scrollò con più forza del necessario (ma meno di quanto avesse realmente voluto) e l’amico sussultò.
“Andiamocene”
All’uscita dell’ospedale erano due fantasmi nella tiepida notte di inizio giugno.
Dave si stramalediva. Prima di lasciare la stanza, lo sguardo gli era caduto per sbaglio sul volto di Sam.
Il vuoto dei suoi occhi era un panorama agghiacciante.

“Tu che ne pensi, Fred?”
“Penso che è un gran cazzo di casino, Roger. Cioè, voglio dire, o sto sognando o gli alieni sono tra noi”
“Mi sa che stiamo facendo lo stesso sogno. O incubo, fai tu. Comunque, spero di svegliarmi da un momento all’altro, nel mio letto, con mia moglie che si toglie i bigodini davanti allo specchio”
L’anatomopatologo indicò la testa del cadavere.
“No, dico, ma che razza di cranio aveva questo qui? Guardalo!”
L’aiuto anatomopatologo lo stava guardando. Era da quando l’avevano portato sul tavolo delle autopsie che non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.
“Ma hai visto che denti? Gli incisivi hanno le radici piantate sul setto nasale! Ed è un setto nasale, questo!? E’ quasi orizzontale, è metà dell’intero cranio!”
“Calmati, Fred” L’aiuto anatomopatologo fermò il collega più anziano, ma non per paura che si scaldasse troppo (in fondo, aveva meno di cinquant’anni e la pressione a posto). Non voleva che continuasse ad almanaccare le assurdità presenti su quel corpo carbonizzato. Continuava a sperare che fosse solo un brutto sogno.
“Quel deficiente del coroner non ha avuto niente da lasciare scritto, prima di portarci qui questo coso?”
Fred era visibilmente alterato e Roger non poteva dargli torto. Tutta questa storia era surreale, si sentiva impazzire solo a guardarlo, quel coso.
“Cosa potrebbe essere? Una malformazione cranica?” Azzardò con poca convinzione il più giovane dei medici legali.
“Un paio di palle! Fosse solo il cranio… L’intero scheletro è un picasso! Ha le vertebre coccigee che sporgono verso fuori, tanto per dirne una”
“Quindi… ha una coda?”
“Se uno così fosse andato in giro con queste fattezze, a quest’ora sarebbe diventato un caso internazionale” Fred emise un profondo sospiro, poi si voltò verso Roger con lo sguardo stralunato.
“Non faremo alcun esame. Riferisci a chi di dovere che non c’è bisogno del calco dei denti, basta una fotografia. Chiunque sia stato in vita, non era Brian Robson, se è Brian Robson quello che ci hanno fatto vedere in foto. E soprattutto non era umano”

Martedì mattina, nell’aula magna della scuola, si tenne una preghiera di gruppo per la sorte di Samuel Delacroix. Il giorno prima c’era stata quella per l’anima di Brian Robson, tra ricordi commossi e occhi lucidi.
Dave tornò a casa e si buttò sul divano a peso morto. Si sentiva nella testa (e nell’anima) qualcosa del peso di circa una tonnellata. Da quando la vita aveva cominciato a diventare così complicata? A lui non era successo niente, d’accordo, ma era come se intorno gli si fosse fatta terra bruciata. Nella mente gli si formò l’immagine di un cerchio infuocato che si stringeva. Rabbrividì senza sapere il perché.
Quella mattina, Bobby non era venuto a scuola. Lo aveva chiamato al cellulare, sudato e col respiro accelerato, sentendosi rispondere ‘Oggi non mi sentivo un granché… Penso sia un po’ di febbre’. Il che era alquanto preoccupante, dato che ‘Un po’ di febbre’ poteva tranquillamente diventare malaria o meningite. Dopo ciò che era successo a Sam.
Già, Sam.
Da registrare come non avesse notato facce particolarmente affrante alla sua preghiera, vuoi perché non era morto, vuoi perché stava sulle palle un po’ a tutti. Allo stesso modo, però, tutti ridevano alle sue battute. Ah, umanità ipocrita!
E aveva visto Mallory, quella mattina. Se n’era stata in disparte vicino alla porta dell’aula magna, ed era filata via appena il preside aveva posto fine al raccoglimento. Più ingobbita del solito, si è diretta a passo svelto verso la sua aula, manco fosse una ricercata che ha appena visto la sua foto segnaletica affissa sui muri.
Dave ci pensò un attimo. Pescò il suo cellulare dalla tasca e rimase a fissarlo. Posso farlo, perché no? Sì, ma per dire cosa?
Armeggiò con la rubrica e selezionò il numero di Mallory. Si sarebbe fatto venire le parole giuste. Lui trovava sempre qualcosa da dire per ogni occasione.
Tre squilli. Poi la chiamata fu interrotta. Aveva visto il suo numero sul display (magari registrato sotto il nome ‘Bastardo’) e l’aveva mandato a quel paese: più che comprensibile. Ma Dave sperava che fosse disponibile almeno ad ascoltarlo, perché sentiva un’urgenza quasi fisiologica di chiedere perdono.
Ripensò a Frank e Vera e gli venne un nodo in gola. S’era maledettamente affezionato a quella gente, malgrado l’avesse frequentata per poche ore. Adesso tremava al solo pensiero di incontrarli per strada: non sarebbero stati più quelli di prima, questo è certo, almeno non con lui.
Mise da parte le seghe mentali sul perché Valery Sinclair, sicura Reginetta della scuola, avesse rifiutato l’invito al ballo di fine anno del sicuro Re della scuola, cioè lui. Si tolse le scarpe e si accoccolò sul divano, addormentandosi quasi subito.
E sognò. Era davanti alla porta della camera di Schwarzy, il giorno in cui erano andati a cercarlo. C’era solo lui. La porta gli occupava l’intero campo visivo, quasi fosse enorme. Voleva andarsene, scappare, eppure non si muoveva di lì e quella porta lo sovrastava immane. Sentì bussare con forza, ma non poteva essere lui. Lui voleva fuggire. Altri colpi, pugni, calci rimbombavano, qualcuno bussava e Dave avrebbe voluto gridare di smetterla, perché qualcosa dentro di lui gli diceva che non doveva vedere cosa c’era dietro quella porta. Poi, il bussare cessò. La porta si aprì lentamente, senza un suono, finché da uno spiraglio si potè scorgere l’interno della stanza. Dave vide qualcosa dai contorni indefiniti; che si mosse. La porta seguitava ad aprirsi lentamente e inesorabilmente. No! NO!
Si svegliò contorcendosi sul divano, e gli ci volle un minuto buono per realizzare di essere a casa sua, al sicuro.
Si mise a sedere, il sudore gli aveva modellato capelli stile pazzoide. Per allentare la tensione accese la TV.

Il resto della settimana fu un incubo ad occhi aperti.
Dave si trascinava a scuola facendo appello a tutta la sua forza di volontà, ma per il resto non usciva più di casa. La mattina si alzava controvoglia e aveva giusto il tempo di vestirsi per arrivare in orario a lezione; non settava più la sveglia un’ora prima, per rifarsi il look. A scuola girava con lo sguardo basso, gli abiti stropicciati, i capelli impastati pettinati dal cuscino… Forse era per questo che le ragazze non gli correvano dietro come una volta (anzi, lo scansavano), e le primedonne sempre all’ultimo grido avevano preso a guardarlo ridacchiando in tralice.
Fortuna che quella era l’ultima settimana di scuola e il supplizio sarebbe finito presto. Adesso, Dave doveva solo concentrarsi sugli esami, le ultime fatiche prima delle vacanze estive che sentiva sarebbero state per lui come la mano d’un taumaturgo. Aveva bisogno di un incontro di studio, ma s’era sentito appioppare un laconico ‘Ti chiamo io’ da Bobby, che continuava a massacrarsi la faccia già malridotta con una rasatura troppo profonda.
Quella settimana la città s’era riempita di curiosi e giornalisti, le emittenti televisive di mezzo mondo avevano sguinzagliato i loro segugi che, armati di microfono e telecamera, andavano in giro a fare domande su Brian Robson: che tipo era? Avete notato qualcosa di strano in lui, prima che sparisse? Si erano appostati soprattutto nei pressi della scuola, e il preside aveva richiesto un’ingiunzione per farli sloggiare, che gli molestavano i ragazzi già sconvolti per conto loro.
Una tizia aveva provato a intervistare Dave, che però aveva tirato dritto. Tutta questa storia era pura follia. Gli prendeva il tremore ogni volta che ripensava a quando s’era risvegliato da quell’incubo, per poi finire in un altro. Aveva acceso la TV ed era incappato nella CNN che parlava di una vicenda a metà fra il giallo e il paranormale: tutto comincia con un ragazzo creduto morto carbonizzato in casa, per poi scoprire che il corpo non solo non è suo, ma non è neanche umano. La carcassa rinvenuta, definita ‘umanoide’ dagli esperti della scientifica, presenta una struttura scheletrica ibrida (a questo punto venivano mostrate le foto dello scheletro bianco ripulito dalla carne bruciata, e Dave vomitava in soggiorno).
Dopo aver messo in evidenza che l’anatomopatologo si era schifato a toccarlo pure con i guanti e s’era messo in malattia per lo stress, ecco gli interrogativi fondamentali: dov’è finito Brian Robson? Ma soprattutto, chi o cosa è quell’essere rinvenuto in casa sua?
Seguivano ipotesi varie, tra alieni e criptozoologia, ma Dave aveva già spento la TV. La storia aveva fatto il giro del mondo e la loro cittadina era stata presa d’assalto.
Quando finalmente arrivò il venerdì, Dave tirò un sospiro di sollievo rientrando a casa: almeno non doveva più mostrarsi a scuola in quello stato. Però restavano il malessere e gli incubi. Ne faceva di notte e di pomeriggio, ormai quando non era a scuola dormiva di continuo e non riusciva più a studiare. Sognava di essere ancora davanti a quella dannata porta che, di volta in volta, si apriva un po’ di più; Dave non voleva vedere cosa c’era dentro, cercava di scappare, di urlare, ma il suo sguardo rimaneva fisso sull’interno della camera di Schwarzy che poco a poco si rivelava. Ormai riusciva a scorgere parte dell’armadio con un poster di Terminator 2 affisso all’anta; e della cosa semovente vedeva una specie di arto deforme ricoperto di peli. Si svegliava urlando ogni volta.
Aveva provato a non addormentarsi, una sera aveva bevuto dieci caffè, ma era stato tutto inutile. Adesso era l’ombra di se stesso, non voleva neanche guardarsi allo specchio, perchè si sarebbe trovato di fronte un David Simmons con occhiaie enormi e nerissime, emaciato e con diversi capelli bianchi malcelati dalla folta chioma bionda.
Ogni volta che provava a dare un senso alla situazione, si ritrovava a chiedersi quando fosse cominciato tutto questo. Una voce non del tutto sincera gli rispondeva: ‘Con l’ultima visita a casa di Schwarzy’. Già, quel giorno non l’avevano visto, però l’avevano sentito. E cos’è che aveva detto?
‘Per favore… Lasciatemi in pace!’
No, non così.
‘Pefffafofe… Laffiatemi in pafe!’
Questo, aveva detto. Non ci aveva fatto caso, o forse credeva di esserselo immaginato.
Ora gli sembrava un particolare fondamentale, maledizione! E cosa doveva fare, adesso? Andare alla polizia, con Bobby magari, a raccontare ciò che avevano sentito? A che pro? Gli sbirri avevano le palle girate, i media li stavano spremendo come limoni per la storia dell’alieno o strano animale o qualunque altra cosa fosse, e loro disponevano di pochissime informazioni utili provenienti per lo più dalla signora Robson, che ormai veniva sentita all’ospedale dov’era ricoverata per esaurimento nervoso. Non ci pensava proprio a presentarsi in centrale e dire ‘Sapete, io sono stato a casa sua il giorno prima che sparisse (morisse?). Non voleva uscire da camera sua e parlava come se avesse un gomitolo di lana in bocca’. No, neanche per sogno. Oltretutto, non era neanche in condizioni di presentarsi al mondo esterno.
Il suo cellulare squillò. Era Bobby.

Gli aveva detto ‘Dopo cena’, e gli andava benissimo. Il buio l’avrebbe celato agli sguardi altrui. Andò a piedi, perché Bobby aveva precisato che non si trattava di fare ripetizioni, ma di bere in compagnia. Così, per passare una serata tranquilla; e Dave aveva tanto bisogno di tranquillità.
Venne accolto da Bobby nella penombra della sua casa. C’era la sola luce di un lume in soggiorno, il resto era al buio. Si accomodarono su due poltrone dalla tappezzeria verde poste una di fronte all’altra, e Bobby aprì il mini frigo nel quale aveva stipato tre confezioni da sei di birra. Passò una lattina al suo ospite e cominciarono a scolarne una dopo l’altra.
L’occhialuto genio dei numeri spiegò che i suoi e la sorella erano andati in Florida dai parenti.
“Quando finisco con gli esami, li raggiungo” Terminò la frase in un soffio che sembrava un misto di amarezza e rassegnazione.
Non si scambiarono molte parole. Bevvero, ora guardandosi, ora assentandosi coi pensieri.
Dave non potè fare a meno di soffermare lo sguardo sul volto di Bobby, distogliendolo solo affinché questi non lo scoprisse a fissarlo. Ma perché si radeva in quel modo? Era ridotto a un ammasso di cicatrici arrossate. Ed era gonfio come se avesse gli orecchioni. Ma non chiese nulla, perché in fondo non erano cazzi suoi (aveva paura della risposta).
“Hai scorreggiato?” Domandò Bobby all’improvviso, con un mezzo sorriso. Dave rispose di no e lo guardò con aria interrogativa.
“No, sai, è che sento puzza…” E prese a sghignazzare a singhiozzi, in un moto di euforia assolutamente composto.
Dave bevve un’altra bella sorsata e lo guardò con sufficienza. Una volta ci metteva di più, prima di farsi venire la coglioneria da ebbrezza. E continuarono a sbronzarsi.
Diverse lattine più tardi, perso nel contrasto tra il retrogusto amaro della birra e il torpore alcolico, Dave parlò. O meglio, pensò a voce alta.
“Mi sa che Mallory si sta facendo quattro risate…”
Bobby fu colto nel bel mezzo di una copiosa sorsata. Sputò una parte della birra a spruzzo e centrò i jeans di Dave, mentre l’altra parte gli andò di traverso e lo fece tossire rumorosamente. Un rivolo gli scivolò fuori dal naso.
“Scusa” Disse al suo ospite, dopo essersi parzialmente ripreso.
“Fa niente” In quel momento, a Dave non poteva fregare di meno dei jeans bagnati di birra sputata.
La serata terminò verso le undici, quando anche la birra di riserva era finita. Dave ringraziò e salutò Bobby, senza chiedergli come avrebbe fatto col suo vecchio, quando questi sarebbe tornato e non avrebbe trovato più un goccio di birra in casa. Però finalmente era riuscito a strappargli un incontro di studio per domenica.
Tornò a casa, barcollando a tratti e guardando il cielo stellato.

Di notte andò in scena l’epilogo del suo incubo. La porta si spalancava del tutto e la camera di Schwarzy si rivelava a Dave per come la ricordava, nei dettagli. C’era qualcosa accovacciato sul letto, un essere cui non riusciva a dare un nome né una definizione. La bocca era una sorta di muso che sporgeva in avanti, la testa ovale, e i due occhi rossi posti ai lati lo fissavano. Il corpo era interamente ricoperto da un folto pelo scuro.
Il solo vederlo bastava a farlo impazzire.
“Aiufami, Dafe! Peffafofe!”
Parla!
La creatura scese dal letto e a Dave impazzire non bastava più, perché quella cosa stava venendo verso di lui. E come sempre non riusciva a muoversi.
Procedeva saltellando a gambe (zampe?) unite, con la schiena curva in avanti, le ginocchia piegate toccavano il petto. Le estremità erano deformi e munite di artigli neri. Dave poteva sentirli ticchettare sul pavimento ad ogni salto.
“Aiufami! E’ ftata quella! Falla fmettefe!!” Dalla bocca spalancata e urlante sporgevano denti paurosamente lunghi.
Giunse ad un passo da lui, e Dave vide il terrore più puro nei suoi grandi occhi rossi. E non era il proprio terrore riflesso. Questo era di più.
L’essere sollevò la mano-zampa all’altezza del suo viso.
“AIUFAMI!!”
Dave si svegliò urlando sul suo letto, nel primo pomeriggio di sabato. Le sue sudate e stropicciate lenzuola parlavano di un sonno parecchio agitato, solo per miracolo non era caduto dal letto. Si mise a sedere reggendosi la testa tra le mani, i suoi capelli erano ridotti a lana di pecora appena tosata. Con uno sforzo titanico riuscì a trascinarsi al bagno e poi in cucina. Aveva bisogno di un caffè fortissimo.
Mise la caffettiera era sul fuoco e si sedette. E pensare che serata di ieri doveva tirarlo su, allentargli la tensione… Invece era ridotto peggio di prima. Quella notte l’incubo aveva raggiunto il suo apice, e se era fortunato (cosa ultimamente assai rara) il ciclo era concluso.
Un incubo a puntate. Ma che cazzo!
Mentre sorseggiava il suo caffè, provò a fare tabula rasa nella sua mente, giusto per rilassare le meningi. Ma i pensieri riaffioravano veloci e inafferrabili come pesciolini affamati sul pelo dell’acqua.
Allora, proviamo con qualcosa di divertente.
Era un po’ difficile, perché lo stesso termine Divertimento sembrava appartenere ad un’altra vita. Gli venne in mente Bobby che trasaliva e sputava la birra; questo sì che faceva ridere. Che spasso… Gli è preso un colpo appena ha sentito nominare…
Fu allora che trasalì anche lui. Balzò in piedi, rovesciando il caffè.
Oh, cazzo. Oh, no. No! No! No!!
Non era concepibile il pensiero che aveva appena formulato. Eppure l’angoscia che gli aveva stretto il cuore in una morsa diceva il contrario. Prese a fare avanti e indietro per la cucina, con il cuore a mille e il respiro accelerato; era a tanto così da un attacco di panico in piena regola.
Mantieni la calma. Non può essere così. Non può.
Doveva dimostrare a se stesso che il suo timore era infondato, una paura irrazionale. Altrimenti sarebbe impazzito. Il dubbio è un tarlo che rode.
E decise sul da farsi.

Si recò a scuola. La tenevano aperta di sabato per le ripetizioni di gruppo in vista degli esami e per i preparativi del ballo di fine anno.
In biblioteca si poteva consultare l’annuario scolastico virtuale. Sulla pagina della studentessa Mallory Blake, appena sotto la sua foto, erano presenti le informazioni essenziali, più una lista riportante le scuole da lei frequentate. Proprio come raccontavano.
Aveva cambiato due scuole elementari, due medie e una superiore. L’ultima volta il cambio le era costato anche il trasloco dallo Stato dell’Illinois a quello attuale di New York.
Ora veniva la parte più difficile. Dave appuntò in un foglietto le date di tutti i trasferimenti. Quindi chiuse l’annuario e selezionò un sito che raccoglie le notizie di quasi tutti i quotidiani nazionali e locali dal 1900 ad oggi. Nel dicembre del 199* aveva effettuato il suo primo cambio, lasciando l’elementare Saint Peter della città di Flintwood; cercò le notizie relative alla città di Flintwood a partire dal settembre di quell’anno. Niente di particolare, si trattava di un paesino modesto: rissa con arresti ad una sagra annuale, raccolto rovinato da una grandinata eccezionale… Una notizia di fine novembre catturò la sua attenzione, non foss’altro perché tra titolo e sottotitolo erano presenti le parole ‘scomparsa’ e ‘mistero’.
SCOMPARSA UNA DONNA A FLINTWOOD
E’ mistero sulla scomparsa di una maestra d’elementare. In casa, rinvenuto cadavere non identificato.
Stando all’articolo, una maestra dell’elementare Saint Peter, la stessa frequentata da Mallory fino a dicembre, era scomparsa nel nulla. La trentacinquenne Angelica Smith, nubile e di bella presenza (stando alla foto che la ritraeva) non si era presentata a lezione, così la scuola aveva chiamato a casa e, dato che il telefono squillava a vuoto, era stato richiesto l’intervento della polizia. Quando gli agenti sono entrati in casa della donna, di lei non c’era traccia e mancavano segni interpretabili come una colluttazione seguita da un sequestro, o un allontanamento volontario, dato che l’armadio era perfettamente in ordine e le valigie stavano al loro posto; l’unico particolare stonato, uno specchio frantumato dal lancio di una suppellettile. Il fatto più eclatante era il ritrovamento, in cantina, del cadavere impiccato di una vecchia. Non solo non si sapeva chi fosse o che diavolo ci facesse lì, ma a lasciare a bocca aperta gli inquirenti erano i connotati dell’anziana, definiti ‘surreali’. Un naso adunco e spropositatamente lungo con un enorme bitorzolo in punta, mento anch’esso lungo e affilato, occhi troppo grandi cerchiati da ampie occhiaie giallastre e bocca altrettanto smisurata, provvista di un unico dente. La descrizione proseguiva riferendo che l’anziana aveva dita ossute munite di unghie simili ad artigli, lunghi capelli bianchi e che indossava un mantello nero con cappuccio. ‘Sembrava la strega di Biancaneve’ commentava chi l’aveva vista. La donna pareva essersi impiccata da sola, ma altri accertamenti erano in corso. Seguivano inquietanti interrogativi sulla stranezza del caso.
Dave scorse gli articoli successivi alla ricerca di sviluppi sull’indagine, con le prime gocce di sudore che gli facevano capolino dalla fronte. Ne trovò giusto un paio: la prima riferiva che era stato accertato il suicidio volontario da parte dell’anziana, ma che la sua identità era sconosciuta. Ancora non si avevano notizie della signorina Smith. La seconda notizia era un trafiletto che dichiarava ufficialmente scomparsa la maestra e l’inchiesta archiviata senza indagati. L’anziana era stata tumulata come Jane Doe.
In quel periodo, Mallory aveva sei anni e faceva la prima elementare.
Dave aveva preso ad ansimare. Lesse sul foglietto su cui erano appuntati i cambi di scuola della ragazza, decidendo di fare ricerche sul più recente: il primo anno delle superiori, quando aveva circa sedici anni, era passata dalla Hemingway dell’Illinois all’attuale Jefferson dello Stato di New York, nel gennaio del 200*. Setacciò le notizie riguardanti la cittadina di Westlay, con mani sudate e tramanti e la vista che a tratti si annebbiava. Proprio nel gennaio di quell’anno, una tragedia aveva sconvolto la pacifica comunità di Westlay: uno studente era collassato nella palestra della Hemingway High School durante l’ora di educazione fisica. I medici giunti sul posto non hanno potuto che riscontrarne il decesso, avvenuto per un infarto fulminante; pare che il ragazzo, di nome Timothy Mitchell, non soffrisse di alcuna disfunzione cardiaca. Tre giorni dopo si parlava del funerale del ragazzo, dei fiori e della commozione da parte di familiari, amici e compagni di scuola. Solo un’incresciosa vicenda turbava questo momento di cordoglio collettivo: una studentessa, M. B., veniva accusata di essere l’artefice della tragedia, poiché aveva augurato la morte a Timothy a seguito di alcuni pesanti apprezzamenti da parte di quest’ultimo, che era deceduto il giorno stesso. I familiari della ragazza hanno annunciato che si trasferiranno altrove, essendo la situazione divenuta insostenibile; pare infatti che la giovane non fosse nuova ad episodi di bullismo a scuola, cosa che l’ha costretta a cambiare diverse volte istituto nel corso degli anni.
Dave deglutì a vuoto e fissò lo schermo. Stavano cominciando a combaciare i tasselli di un puzzle raffigurante uno scenario atroce.
Scosso dai tremiti e sull’orlo del pianto, digitò sul motore di ricerca del sito i termini ‘mallory’, ‘blake’,‘tragedia’ e ‘mistero’. Due risultati. La prima notizia era di discreta lunghezza, diceva:
MISTERO SULLA SCOMPARSA DI DUE CONIUGI
Da ieri non si hanno più notizie di John e Rachel Blake. La figlia trovata sola in casa.
Closeville, Illinois. Una scomparsa che ha le tinte del giallo, quella dei giovani coniugi Blake. Proprio ieri il fratello di John Blake, Frank, ha chiamato a casa, sentendo rispondere la nipotina di tre anni e mezzo, in lacrime. Allarmato, l’uomo si è precipitato nell’abitazione del fratello, trovando la bambina sola, in preda ad una crisi di pianto. La polizia non ha trovato segni di colluttazione, né di fuga precipitosa. Sembra che i due si siano allontanati all’improvviso, senza prendere alcunché; perfino i portafogli e le chiavi di casa e dell’auto erano al loro posto. Un particolare ha sconcertato gli inquirenti: il forno era acceso e stava cucinando una crostata, ormai bruciata. Sembra che i coniugi Blake siano letteralmente spariti da un secondo all’altro. La loro povera figlia, sconvolta, è stata provvisoriamente affidata allo zio paterno, e sarà ascoltata dagli investigatori col supporto di uno psicologo. […]
L’articolo proseguiva con una dichiarazione resa da Frank Blake, a proposito del fatto che suo fratello e sua cognata non sono così scriteriati da andarsene di punto in bianco e mollare sola in casa la loro bambina, e che pertanto deve essere certamente successo qualcosa. Il secondo risultato della ricerca era un trafiletto: nessuna traccia dei coniugi Blake. Gli zii paterni chiederanno l’adozione della piccola Mallory, che viene seguita dai servizi sociali a causa del trauma subito: pare infatti che si senta responsabile in qualche modo per la scomparsa dei genitori.
Dave si ritrasse di scatto dal computer della biblioteca, come se fosse diventato un cane rabbioso pronto a mordere.
NO.
Era pazzesco, ma le cose stavano in quel modo. Gli venne il latte alle ginocchia e si accasciò sul pavimento, abbracciandosi le gambe in posizione fetale.
Quella. Mallory! Lei fa… dice… pensa… non so, ma… è capace di modificare la realtà.
Il suo compagno la prendeva in giro. Cosa gli ha urlato? ‘Crepa!’? E lui è schiattato.
Cosa le aveva fatto la sua maestra? Un rimprovero? E lei non l’aveva presa bene. ‘Sei brutta e cattiva!’. Nella mente di una bambina di sei anni, il volto dei cattivi veniva magari desunto dalle favole trasposte nei film Disney; così, un bel giorno, la donna s’era svegliata con le fattezze della strega di Biancaneve. Niente di strano che si fosse impiccata. La dispersa e la suicida sconosciuta erano la stessa persona.
E i suoi genitori, in cosa li aveva trasformati? Probabilmente aveva disubbidito o commesso qualche marachella, e per punizione non avrebbe mangiato la crostata. E lei aveva solo tre anni e mezzo… ‘Non vi voglio! Andate via!’. Via. Sparite.
Ma Frank era un tipo avveduto. Non appena si era reso conto del potere della nipote, aveva preso le dovute contromisure. Da non-violento, avrà certamente fatto capire a Mallory peso di una vita distrutta; forse aveva fatto leva perfino sul senso di colpa. Tutto sommato, un uomo di mondo: Mallory si chiude in se stessa, evita i contatti umani e si consuma per la solitudine patologica, ma sempre meglio questo di chissà quante tragedie fra i suoi simili. L’aveva abituata a non rispondere di getto, a non mettersi a discutere. ‘Stai attenta a quel che dici, Mallory. Nessun torto autorizza simili conseguenze’.
Lei sfogava la sua ira con pianti e urla, e a furia di pesare ossessivamente la sua parlata l’era insorta una balbuzie psicogena.
Però, ogni tanto, quando la misura era colma, scoppiava. Nei dintorni dell’Illinois (soprattutto nelle scuole), ne sapranno certamente qualcosa…
Oddio!
Schwarzy. Mallory gli aveva dato del coniglio e lui s’è ritrovato a mutare, giorno dopo giorno, inesorabilmente. Il pelo che gli cresceva su tutto il corpo, i denti che diventavano enormi e che sporgevano dalla bocca…
Dave si rese conto a mala pena di essersi pisciato addosso sul pavimento della biblioteca.
Se non si fosse dato fuoco (col chiaro intento di farla finita e insieme occultare quel suo aspetto mostruoso) quelli della scientifica avrebbero trovato una sottospecie di coniglio gigante, con tanto di coda a batuffolo e orecchie lunghe. Roba che, con una carota in mano, ti fa ‘Ehm… che succede, amico?’… et voilà, Bugs Bunny!
L’immagine apparsagli nella mente gli provocò un moto di riso convulso e isterico. Che cessò al pensiero successivo.
Ha detto delle cose… delle parolacce contro tutti.
Aveva dato a Sam del decerebrato, e adesso Sam era su un letto d’ospedale, con il cervello ridotto manco fosse un novantenne con il Parkinson e l’Alzheimer insieme.
Quindi lei dice una cosa e questa si avvera… Fantastico!
Quanti ne ha rovinati così?
Un ragazzo la prende in giro, lei gli grida ‘Va a farti fottere!’; la sera stessa, tre energumeni fanno la festa al suo culo nel bagno del cinema.
Wow!
E se ti manda all’inferno?
E se… e se…?
Oh, cazzo!


Non seppe come ma raggiunse casa sua, senza ricordare quasi niente del tragitto di ritorno; lui che arrancava per i corridoi della scuola, il bidello che gli chiedeva se andava tutto bene, e poi fuori, la gente che lo guardava camminare come un ubriaco, barcollare e cadere e rialzarsi per tutta la strada.
Si chiuse la porta dietro le spalle e si accasciò nuovamente, ma questa volta si concesse un attimo di tregua e rimase lì, come afflosciato, di fronte l’uscio di casa.
Stava ricordando e non voleva. Gli tornavano alla mente quelle parole.
Prese a piangere e a singhiozzare. Sentiva quell’odore. Quell’odore!
Si rimise in piedi con uno sforzo immane. Doveva calmarsi. Si diede un pugno nello stomaco e cacciò un urlo selvaggio. Rifiutare ciò che stava accadendo non lo avrebbe salvato. Non era un sogno e non stava delirando. Forse c’era ancora speranza.
Afferrò il cellulare. Doveva sbrigarsi perché l’odore stava aumentando. In rubrica aveva il numero di Mallory, ma l’ultima volta gli aveva chiuso la chiamata. Si avventò allora sul cordless, facendo cadere per terra la basetta. Compose il numero e attese in linea.
Doveva rispondere, non conosceva il suo numero fisso. In quegli istanti, Dave semplicemente partorì troppi pensieri. Uno sull’altro.
Sta calmo, Dave. Calma. Andrà tutto bene. Quell’odore… Janice e Valery schifate. La pregherò, farò tutto quello che mi chiederà di fare, me la porterò a letto, la sposerò… Quell’odore… Si dice che quando puzzi gli altri lo sentono prima di te… Forza, rispondi! Dai!
E alla fine dall’altro capo sentì ‘P-p-pronto?’, proprio mentre stava pensando che doveva dire a sua madre di smetterla di piantare casini alla vicina, che non era la sua fossa biologica…
“Ma-mal-lory”
“C-chi è?” Sembrava una conversazione fra due membri dell’Associazione Balbuzienti.
“Dave – disse d’un fiato, dopo diversi secondi di apnea – David Simmons” Non sapeva se rivelarsi subito fosse una grande idea, ma non era lui a reggere il gioco.
Silenzio.
“Senti, Mallory, quella cosa che ti abbiamo fatto… Io… mi dispiace. Non volevo. E’ stata una trovata di quel coglione di Sam! Io non volevo farlo!” Aveva sputtanato il suo amico e la sua dignità, ma ormai cosa gliene fregava? Sam non era suo amico, nessuno di quei tre imbecilli lo era, e loro avrebbero avuto ciò che meritavano. Non lui. Non lui che non voleva farlo, che non si è divertito. Ma si è comunque fatto coinvolgere. Perché doveva seguire il flusso.
“Che-che coo-sa vuoi, eh?” Gli chiese. Ma già lo intuiva.
“Non farmi male. Ti prego. Io… sto dalla tua parte, non sono come loro… Hai ragione tu”
Dignità e orgoglio, colpiti e affondati.
“No-non è co-come credi t-tu. I-io ho già f-faaa-tto tu-tutto”
Dave stralunò gli occhi e volle credere d’aver capito male.
“Che significa?”
“I-io ho de-detto qu-queeel-le cose e o-ra non s-si può p-più fare nulla”
“NOOOO! Non è vero! Non è possibile! Perché fai così? Ti ho chiesto scusa, ti prego! Farò tutto quello che vuoi, tutto!” Ti sposo, ti do dei figli, ti tratto da regina… Ormai a parlare era solo l’istinto di sopravvivenza.
Mallory si inumidì le labbra per proseguire, ma tanto a che serviva? Ormai era fatta. E perché mai doveva sentirsi in colpa e magari chiedergli perdono per ciò che gli stava accadendo? Mi spiace, zio Frank, ma stavolta ha ragione zia Vera.
“Tu s-sei il primo c-che lo ca-ca-capisce. F-forse peee-rchè la ma-maledi-zione ha fatto u-un po’ tardi. Io s-sono nata così. E’ la-la mia mmm-maledizione. Lancio maledizioni” Terminò senza inciampi, mentre Dave era scosso da un pianto disperato e il tanfo si stava propagando per tutto il soggiorno.
“Qu-quando la lancio… p-poi non p-posso farci più nu-nulla. S-succede s-solo qu-quando sono mooo-lto arrr-rabbiata”
Mallory sentì piangere Dave e, per la prima volta, non avvertì compassione, né senso di colpa. Le sue parole rabbiose avevano colpito tanta gente, e il fardello della colpa l’aveva sempre perseguitata; se fosse potuta tornare indietro, si sarebbe morsa la lingua. Ma in questo caso… Beh, si sentì nata per gente come David Simmons. E così scoppiò in una risata forte e acuta, amaramente sincera.

Nel frattempo, il sangue di Robert Curtis, detto Bobby, si stava rapprendendo intorno al suo corpo. S’era sparato, con la pistola del padre, a ciò che rimaneva della sua testa. S’era accorto da un bel pezzo che qualcosa non andava: quei peli crespi e duri che gli crescevano in faccia non potevano essere barba… Poi le guance avevano preso a gonfiarsi e radersi a sangue non bastava più. Quella mattina s’era svegliato con la testa grande il doppio, il collo gli doleva nel sostenerla. Davanti allo specchio era inorridito. Le guance s’erano gonfiate e unite fra loro, formando un gigantesco scroto tutto ricoperto da quell’ispida peluria ricciuta, che adesso gli cresceva pure sulla fronte e sul collo. Il naso si era allargato e allungato, prendendo la forma cilindrica di un pene.
Aveva urlato tanto forte da tranciarsi le corde vocali; poi aveva raggiunto il cassetto dove suo padre teneva la pistola. BANG.
Testa di cazzo! Testa di cazzo! Testa di cazzo!

“NOO! NOOOO! NOOOOOOOO!”
Dave piangeva e urlava cercando un appiglio, mentre tutto intorno a lui cominciava girare. Stava semplicemente impazzendo. Lasciò cadere il cordless e vide che era impiastricciato da una sostanza marrone densa e melmosa. E maleodorante.
“NOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO!”
Le mosche e tutti gli insetti presenti in casa presero a svolazzargli intorno.
La risata di Mallory fuoriusciva in un gracchio compatto dalla cornetta del telefono.
“AHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH!”
Ma Dave non la sentiva più. Guardava inorridito la pelle del suo braccio mutare in quella melma marroncina, l’arto s’era fatto molle e il processo si stava estendendo a tutto il corpo. Stava perdendo sensibilità, il suo corpo, le sue ossa… si stavano ammorbidendo.
Una mano perse la sua forma, si staccò dal polso e cadde a terra con un secco SPLACK. Alcune mosche la raggiunsero e presero a banchettare.
Dave urlò. E urlò. E urlò. Ancora e ancora, finché la bocca rimase integra.
Stronzo! Pezzo di merda! Stronzo!
view post Posted: 8/1/2010, 23:17 [7/01/10] La vostra prima fanfiction! - Contest terminati
Postata.

E' la mia prima fic come scrittrice amatoriale, già postata su Efp e sull'archivio delle Original.

Come errori ho scoperto di non aver scritto i numeri a lettere, più un errorino tecnico di poco conto.
Dato che ho fatto copia/incolla dal topic di questo stesso forum e dato che ai tempi usavo l'editor, sotto il titolo c'è un <big> di troppo.
Disgrazie che succedono... -_-
view post Posted: 8/1/2010, 23:11 Disinfestazione - U-Z
Rating: Per tutti
Tipologia: One-Shot
Lunghezza: 1081 parole (titolo escluso)
Avvertimenti: Nessuno
Genere: Horror
Disclaimer: Trama, personaggi, luoghi e tutti gli elementi che questa storia contiene, sono una mia creazione e appartengono solo a me.
Introduzione alla Storia: Se c'è bisogno di loro, non c'è da stare allegri: la casa è infestata da schifosi parassiti! Ma niente panico, siete nelle MANI di professionisti





Disinfestazione
<big>


Il piccolo scarafaggio dal dorso nero lucente fece il suo ingresso in soggiorno, e non passò inosservato. Infatti, tutti si accorsero di lui: Padre, Madre, Figlia e Figlio. In breve, tutti seppero della presenza di quegli ospiti sgraditi.
Un moto di disgusto misto a rabbia percorse l’intera famigliola che abitava in quella casa - Quelle bestiacce in casa nostra? Devono morire tutte e soffrendo, pure!- pertanto non ci fu bisogno di una riunione di famiglia: andava chiamata la disinfestazione, e fu il padre ad occuparsene; al telefono, una voce gentile comunicò l’ora dell’arrivo dell’operatore, che si sarebbe presentato in giornata (con grande sollievo di tutti).

Non ebbero neanche il tempo di guardare l’orologio, che in men che non si dica il disinfestatore era già arrivato.
Il furgoncino della ditta, recante su entrambe le fiancate la scritta
Disinfestazione
a caratteri cubitali, sbucò dall’angolo della strada e da esso scese un personaggio alquanto particolare. Sembrava uno di quegli individui che si possono definire solo con il termine “misterioso”: dietro il sorriso di circostanza tipico di chi va a lavorare in casa d’altri, pareva infatti celarsi un universo privato fatto di strani pensieri e di inclinazioni inusuali, che ad un osservatore più attento poteva generare una certa inquietudine.
Nessuno della famiglia però se ne accorse o volle dargli peso; pertanto lo strano figuro venne accolto con garbo, anzi quasi come un salvatore.
L’operatore, un vero esperto nel suo campo studiò metro per metro l’interno dell’abitazione, poi sentenziò:

“La casa va evacuata per almeno 10 ore, cosicché il
veleno abbia il tempo di agire e poi diradarsi”

La notizia fu accolta con rassegnazione: non sapevano cosa fare 10 ore fuori casa e si sarebbero sicuramente annoiati, ma questo era l’unico modo per liberarsi definitivamente di quei parassiti. E fu così che l’intera famigliola lasciò la propria dimora nelle mani esperte del disinfestatore e si accomodò in cortile.
Il disinfestatore piazzò gli erogatori di insetticida in ogni angolo della casa, riuscendo anche ad avvistare un paio di quelle bestiacce, e non riuscendo a trattenere un ghigno malefico.

-Siete tutti già belli che stecchiti!- Ogni volta era un piacere avere la meglio su quelle orde di fetidi invasori.

Quando l’operatore uscì, la famigliola si stava già annoiando, anche se era passata meno di un’ora. Il disinfestatore consigliò loro di fare un giro per la città, promettendo di tornare allo scadere delle 10 ore per raccogliere e smaltire le carcasse dei parassiti. Poi montò sul suo furgoncino di servizio e partì per altri lavori che lo attendevano.
Tutto quello che la povera famigliola fece fu rimanere in cortile, a ciondolare avanti e indietro, mantenendosi per lo più nei pressi del cassonetto ai margini della strada. Uno dei figli provò a inventarsi qualcosa da fare, ma finì per beccarsi con la sorella, e cominciarono a litigare. Ma il tempo infinito alla fine passò. Come da copione, videro spuntare dall’angolo della strada il furgoncino della disinfestazione.

Il disinfestatore entrò in casa per valutare la situazione, e li scorse tutti la dove erano stati avvistati la prima volta: nel soggiorno. Giacevano sul pavimento supini, con le loro schifose zampette ripiegate verso il centro dell’addome. Uno spettacolo che avrebbe orripilato chiunque, ma non lui, il miglior disinfestatore dello Stato, l’incubo di ogni parassita domestico.
Soddisfatto del proprio operato, uscì per incassare il compenso pattuito, non prima di aver tranquillizzato tutti sull’effettivo annientamento. Il capofamiglia, però sembrava preoccupato.

“Non è che per caso il veleno può fare ancora effetto?”

“No, impossibile, perde efficacia in 9 ore. Aggiungiamo un’ora in più per sicurezza." - Lo tranquillizzò l’esperto.

“Ma cosa mi dice per l’igiene? L’insetticida si può essere infiltrato nei tessuti?” - Insistette.

“No, ma per sicurezza gettate via ogni alimento che non fosse sigillato o contenuto in un luogo ermeticamente chiuso, come il frigorifero ad esempio. Lavate bene il pavimento e i ripiani, con un occhio di riguardo per la cucina: quelle bestiacce possono veicolare malattie.”

Detto questo rientrò in casa, e ne uscì con due grossi sacchi neri contenenti le carcasse contratte di quei sudici parassiti, per poi deporli sul retro del suo furgoncino, e sorridendo mentalmente del disgusto dei suoi clienti.
Quindi partì. Doveva liberarsi di quei sacchi e sbrigare l’ultimo lavoro della giornata.

Partì col suo furgoncino alla volta della periferia ovest della città, dove era ubicata la discarica. Una volta arrivato dovette tapparsi il naso con una mano (il fetore che emanava quel posto era troppo anche per lui), mentre con le altre apriva gli sportelli posteriori del mezzo per ritirare i due sacchi. Con movimenti secchi e calibrati, lanciò l’immondo carico a schiantarsi contro gli altri rifiuti; con sua grande sorpresa i sacchi si lacerarono, lasciando riversare fuori il loro contenuto – Non fanno più i sacchi di plastica di una volta! - e ripromettendosi di segnalare la cosa a chi di dovere.
Quindi si voltò e tornò al furgoncino, lasciando a decomporsi tra i rifiuti i resti di Padre, Madre, Figlia e Figlio.

Ma non fece in tempo a chiudere lo sportello, che il suo cellulare cominciò a squillare. Sbuffò: era la sua ditta. Una voce concitata lo avvertiva che aveva un compito aggiuntivo da onorare, prima che la sua giornata lavorativa potesse dirsi conclusa; lo rassicurava inoltre che si sarebbe visto accreditare gli straordinari.
Conclusa la telefonata, il disinfestatore gettò con rabbia l’apparecchio sul retro del mezzo. Che cosa doveva farsene di tanti soldi, se gli toglievano la salute? Lavorava già più di dodici ore al giorno!
Comunque, era ora di mettersi al lavoro, e questa volta la soddisfazione sarebbe stata anche maggiore: aveva brevettato lui stesso un nuovo, potentissimo veleno, capace di uccidere lentamente chi lo inala, e per non perdersi lo spettacolo sarebbe rimasto lì a guardare i parassiti contorcersi e dimenarsi prima di morire. Aveva già pronta per lo scopo una tuta integrale con bombola dell’ossigeno integrata.
Sogghignò. Adesso era davvero pronto e carico, come se la sua giornata fosse appena cominciata.

- Una colonia di umani infesta la casa in campagna di una tranquilla famigliola di zecche – L’incarico che gli avevano affidato con urgenza - Poi sarà la volta di quelli che si sono annidati nell’ufficio dove lavorano degli onesti calabroni -

Quando il lavoro chiamava, lui si faceva trovare sempre pronto. Perché lui era il migliore.
Afferrò saldamente il volante con i suoi arti superiori, girò la chiave nel cruscotto e ingranò la marcia con un arto intermedio, quindi spinse con decisione sui pedali con gli arti inferiori. E partì.

Verso una nuova disinfestazione.
view post Posted: 6/1/2010, 19:30 [7/01/10] La vostra prima fanfiction! - Contest terminati
Quindi non dev'essere una inedita?

Ok, ci sto, posto la mia prima fic in assoluto, della quale non mi vergogno affatto! ^^
view post Posted: 7/10/2009, 20:13 [17/08/09] Quattro per quaranta - Risultati [O]
E io che pensavo d'aver sbagliato l'impostazione, perchè avevo scelto un solo tema per tutte e quattro le storie...

Me felice! :D
38 replies since 8/8/2008